DOCUMENTI E TESTIMONIANZE
n queste pagine sono raccolti e si raccoglieranno documenti e testimonianze, sia di attualità che storici, relativi alle battaglie che si combatterono a nord di Qattara; sia di memorie, con i racconti degli uomini che vi parteciparono; sia polemici, con ricerca e analisi di come vennero presentati i fatti; sia di carattere documentale, con bibliografie e quant'altro si ritiene possa essere di interesse per il lettore. Queste pagine verranno aggiornate e aumentate man mano che ve ne sarà l'occasione e il tempo, e naturalmente la collaborazione alla loro compilazione è aperta a tutti i lettori.
DUE UOMINI DI EL ALAMEIN
a cura di: Leonardo Landi
“I ragazzi di El Alamein”,
così potremmo introdurre le figure del carrista Vito Bruno, classe 1923, di
Mazara del Vallo, IV battaglione carri LITTORIO (la tanto bistrattata
divisione carrista che ad El Alamein diede il meglio di se, esaurendosi
completamente in dieci giorni ininterrotti di combattimenti) e quella
dell'artigliere Giuliano Barni, V gruppo semoventi ARIETE, due fra i
pochi carristi superstiti, accomunati dallo stesso sentimento di dignità e di
rispetto per ciò che hanno vissuto nella giovinezza. Lo stesso motivo che li ha
spinti oggi ad amare come non mai la pace, e nello stesso tempo a distanza di
tanti anni da quei tristi avvenimenti, a non esitare dal confidarmi “lo
rifarei”. Non riesco a ricordare la ben che minima sensazione di inutilità, di
espiazione per ciò che hanno fatto, quando ho parlato con loro; tanto meno toni
di rimorso, forse solo amarezza che ancora dopo tanti anni si stenti a capire
che più che il fascismo si difendeva la Patria, quella con la P maiuscola
appunto. E che di fronte alla manifesta superiorità del nemico, ben palese al
fronte, non rimaneva che l'onore e la dignità di se stessi, esseri umani prima
che soldati, ben più importante di qualsiasi ideale politico, come unica arma di
cui potersi servire e con cui difendersi. Nessuna acredine, nessun rimpianto se
non per tutte quelle giovani vite spezzate, nessuna parola di odio verso il
nemico, forse più di comprensione magari, quando lo si vedeva prigioniero, nei
tempi pieni di illusioni che precedettero la grande battaglia di El Alamein.
Qui di seguito, per chi
vorrà conoscere, troverete dunque un breve scritto di Vito Bruno, il quale alla
mia proposta di poter rilasciare una sua intervista per poi essere pubblicata in
rete, ha deciso di scrivere di proprio pugno quello che pensava dovesse essere
detto: la fine del 2008 lo trova come un arzillo vecchietto che ha composto due
piccole raccolte di memorie su quell'epica battaglia, per meglio aiutarsi a
ricordare i propri commilitoni che laggiù ha lasciato, in quelle sabbie
martoriate dal sole. (Un solo piccolo particolare, necessario alla
comprensione del personaggio: nei combattimenti del 2 novembre a Tell el Aqqaqir,
il caporale Vito Bruno fu ferito ad una gamba da una raffica di mitraglia, e
svenne a seguito di questo, dopo che era uscito fuori dal M14 che pilotava per
controllare gli effetti di un perforante subito. Salvo poi riaversi e vedere
con orrore tutti i suoi compagni di equipaggio morti carbonizzati dentro quella
che era stata la sua “casa” fino a poco prima. Con conoscenza di ciò si deve
leggere le righe che ha deciso di donarci).
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Vito Bruno,
classe 1923.
“Nella battaglia di
El Alamein si immolò il fior fiore dell’Armata d’Africa che rappresentava una
parte notevole dell’intero Esercito Italiano.
Per dodici giorni, dal 23
ottobre al 4 novembre 1942, le divisioni corazzate “Ariete” e “Littorio”, la
divisione motorizzata “Trieste”, le divisioni di fanteria “Trento”, “Bologna”,
“Brescia”, “Pavia”, la divisione paracadutisti “Folgore”, dall'altra parte l'8°
armata britannica, molto più potente in uomini e soprattutto in mezzi,
appoggiata da un’aviazione numerosa e agguerrita.
Insieme con i carristi, i
fanti, i bersaglieri, gli artiglieri, i granatieri, i guastatori, i genieri, i
paracadutisti di quelle otto divisioni, condivisero il comune destino, in
battaglia, gli uomini dell’Aeronautica italiana, nonostante la superiorità
dell’aviazione avversaria. Sul mare, nella “battaglia dei convogli”, soprattutto
le unità leggere di scorta della nostra Marina pagavano un elevato tributo, in
termini di navi e di vite umane.
Senza ombra di retorica, il
nostro Esercito scrisse ad El Alamein una pagina memorabile di dedizione e di
eroismo e acquisì un patrimonio morale e spirituale che appartiene all’intero
popolo italiano e che va consegnato alle nuove generazioni di oggi e di domani.
Perché una Nazione senza memoria storica, non ha diritto ad un avvenire.
A distanza di 66 anni da
quella battaglia – consacrata nei libri di storia - è possibile esprimere un
giudizio sereno e non polemico sulla valutazione errata che l’avversario, e lo
stesso alleato dell’epoca, avevano fatto sovente dei combattenti italiani.
L’impreparazione materiale e
tecnica con la quale il nostro Esercito fu costretto ad affrontare la guerra, in
un teatro di operazioni particolarissimo come quello nordafricano – che
richiedeva mezzi moderni e dovizia di rifornimenti di ogni genere - , fu la
causa principale di rovesci dolorosi. Ma ogni qual volta il margine di
superiorità delle forze avversarie (superiorità che fu una costante dell’intera
campagna) risultò appena accettabile, le divisioni italiane si batterono
validamente e vittoriosamente.
Lo stesso Rommel diede più
volte atto agli italiani di elevato spirito combattivo, arrivando a scrivere, in
sede di sintesi sulla guerra in Africa Settentrionale: “Le prestazioni di tutte
le unità italiane, ma specialmente delle unità motorizzate, superano di molto
ciò che l’Esercito Italiano ha fatto negli ultimi decenni”.
A questo riguardo, mi sia
consentito di ricordare le molto spesso ignorate Divisioni del X e XXI Corpo
d’Armata. Perché le Divisioni di fanteria “Trento”, “Bologna”, “Brescia”,
“Pavia” – su due reggimenti sotto organico, con poca artiglieria e prive di
automezzi – parteciparono, nel 1941-1942, all’intero ciclo pendolare delle
operazioni in Marmarica, nella Sirtica e poi ancora in Marmarica, fino a Tobruk
e all’avanzata in territorio egiziano.
Le quattro Divisioni si
consumarono nella lotta, a El Alamein, al pari delle Divisioni del XX Corpo
Motorizzato e degli invitti “ragazzi della Folgore”. Veramente epica e
leggendaria la pagina di valore e di dedizione scritta dalla Divisione corazzata
Ariete negli ultimi disperati combattimenti del 4 novembre 1942 , imponendosi
col suo consapevole sacrificio, all’ammirazione incondizionata di Rommel e degli
stessi comandanti dell’Ottava Armata britannica.
Dal silenzio dei cimiteri
italiano, tedesco, inglese di El Alamein, si leva un monito, affinché l’umanità
non conosca più guerre. Dal bianco sacrario che custodisce i resti dei nostri
combattenti si leva, perenne, l’esortazione all’Italia di mai dimenticare i suoi
figli, caduti per la Patria.”
Bruno Vito
Via
delle telecomunicazioni 9
91026
Mazara del Vallo
Trapani
fig: 1-4
Carro M14/41 del IV/133°
Littorio: come si può facilmente notare, si tratta dello stesso esemplare in
vari scatti, ripreso in diversi momenti dopo il passaggio della battaglia.
Probabilmente, fra i battaglioni carri M presenti sul fronte dell'Africa
settentrionale nel 1942, il IV, o meglio parte di esso, era l'unico ad essere
equipaggiato con mezzi mimetizzati, il che permette di identificarli abbastanza
facilmente. Il carro della foto era stato interrato, prassi comune fra le
truppe di entrambi gli schieramenti, allo scopo di ridurre la parte esposta
all'offesa durante i terribili bombardamenti d'artiglieria che caratterizzarono
la battaglia di El Alamein. Da notare che il numero 31 presente sulla parete
posteriore della sovrastruttura identifica il reggimento di provenienza del
battaglione, e non più correttamente quello di appartenenza (133°). Accadeva
spesso che le circolari per la “messa in regola” delle identificazione dei mezzi
fossero disattese: ciò dipendeva dai materiali in dotazione e al loro stato,
dall'evolvere delle operazioni al fronte, dal momento che la messa a punto e la
sopravvivenza del reparto erano aspetti più importanti.
fig: 5-9
Le foto, sicuramente
scattate nel settore che era presidiato dal 133° Reggimento, sono una spietata
testimonianza di ciò che i carristi della Littorio dovettero subire durante i
tredici giorni della battaglia di El Alamein, in cui la divisione fu pressoché
annientata. A niente valse proteggere i mezzi con sacchi di sabbia e “a scafo
sotto, cioè interrati fino al parafango, che non li salvò dagli effetti
devastanti dei proiettili britannici. Queste immagini, che ho trovano insieme ad
uno scatto raffigurante un carro del IV battaglione con mimetica, già
precedentemente mostrato con tre inglesi in posa per la foto ricordo, mi porta
a supporre che si tratti del fronte tenuto dal battaglione di Vito Bruno.
Giuliano Barni,
classe 1919.
Devo alla figlia
Antonella Barni l'occasione e la possibilità di pubblicare questo piccolo
racconto dedicato alla storia del padre, scomparso di recente; un racconto che
ha avuto una lunga gestazione e con il quale spero di potermi fare perdonare
la lunga attesa per la preparazione. La storia è quella di Giuliano Barni di
Fiesole, Firenze, il quale mi narrò in un nostro incontro la sua esperienza di
artigliere semovente in Africa settentrionale, anch'egli autiere di mezzi
corazzati, nello specifico di un semovente M40 da 75/18, fra i primi mezzi di
questo tipo ad essere inviati in Africa Settentrionale. Già, l'artiglieria
semovente che alla sua apparizione fece miracoli, essendo l'unica forza
corazzata capace di risultati apprezzabili nei confronti degli inglesi. Il Barni,
classe 1919, dicevamo, è stato uno dei pochi superstiti del V raggruppamento
semoventi da 75/18 che col gemello VI fu aggregato operativamente alla divisione
corazzata Ariete nel 1942, un manipolo di artiglieri forzatamente confluiti su
carri armati trasformati ex novo in pezzi d'artiglieria semovente per l'appunto.
Questi mezzi – sempre troppo pochi, ricordava il signor Barni - lo
accompagnarono per tutta la campagna d’Africa dal gennaio 1942 quando sbarcò a
Tripoli fino all’epilogo in Tunisia, oramai “appiedato”, con la resa agli
inglesi nel 1943.
Furono questi, anni di
grande esaltazione ma anche di profondo sconforto, quest'ultimo spesso derivante
dall'odiosa consapevolezza di essere “boicottati” dalla madrepatria, potremmo
dire, visto che spesso e volentieri, nonostante il quotidiano rischiare la
pelle, non si esitava a fornire loro mezzi e rifornimenti inadatti alla guerra
da combattere. Quando questi arrivavano non erano infatti esenti da sabotaggi,
quali acqua nei fusti del carburante e altre delicatezze di questo genere:
motivi che, se da una parte temprarono più che mai i nostri nell'arte
dell'arrangiarsi per risolvere sul campo ciò che non si voleva risolvere in
maniera definitiva in Patria, dall'altra li rese alquanto scettici sulla
possibilità di vincere una guerra.
Queste ragioni addoloravano
quantomai il nostro reduce, e più di una volta durante il suo racconto mi
sottolineò questo suo grande rammarico. Ma torniamo alla sua avventura che
ebbe
inizio nel gennaio 1941 quando fu richiamato alle armi. A quel tempo si ritrovò
aggregato al II Reggimento Arti Celere, e da lì, dopo vari passaggi
“matricolari”, al 133° Reggimento artiglieria corazzata Littorio. Durante questi
mesi prosegui l' addestramento ai pezzi... E che pezzi!
Tutto materiale dell’ultima
guerra, a dir poco obsoleto: pensate, mi diceva, “le rigature delle
canne (del cannone) erano così logore da mancare sempre l'obiettivo collimato”.
Comunque sia, per quanto carente, l'addestramento prosegui e al suo
completamento il nostro protagonista ebbe la sorpresa di sapere che sarebbe
stato affidato ai “semoventi di artiglieria”, la nuova “arma” o specialità che
dir si voglia, da poco creata.
Grande fu la sorpresa
quando, ormai facente parte del reggimento d'Artiglieria della ricostituita
divisione corazzata Littorio (dopo l'esperienza in terra balcanica), nel
settembre 1941, prese visione dei carri pezzo e dei relativi carri comando.
Semplici carri, come venne loro spiegato, gli uni con la nuova casamatta per
accogliere il cannone, gli altri, quelli comando, alleggeriti della torretta e
con la sola inoffensiva coppia di Breda da 8 mm accanto all’autiere! Come
potevano gli artiglieri, ci si chiedeva allora, alloggiare al chiuso di questi
piccoli mezzi, che, anche per la nuova sagoma bassa e defilata, emanavano
tuttavia un certo timore, quasi un alone di potenza rispetto ai carri? Per lo
spazio nell'abitacolo il problema fu presto risolto, come si poté verificare sul
campo, visto che nell’esercitazione di tiro prima e a maggior ragione nel
seguente trasferimento in Africa, ben poche volte ci fu l’occasione di chiudere
il portello della camera di combattimento: misura sì necessaria per evitare
improvvidi ferimenti ma mai rispettata, visto che era l’unica maniera per
potersi muovere più liberamente e soprattutto per cercare di respirare
sopportando meglio non solo il caldo infernale ma anche le intollerabili
esalazioni dei pezzi a culatta aperta (*)! Il Barni si abituò presto ad
accettare le sagome dei semoventi e più tardi, quando li vide in azione, fu
sempre loro grato della protezione che potevano dargli rispetto ai carri, grazie
al pezzo da 75 più che al corazzamento: si giunse così alla partenza per
l’Africa di cui sentiva sempre più parlare e, aggregati finalmente in maniera
definitiva al 551° gruppo semoventi Ariete (poi V gruppo semovente per la
numerazione interna alla divisione) partì via aereo, destinazione Libia,
dall’aeroporto di Castelvetrano nel gennaio 1942. La guerra portava qualche
volta pure delle piacevoli sorprese, come quella di poter volare su un vero
aeroplano; e per chi non li aveva mai nemmeno visti, se non nei Cinegiornali
Luce, era una esperienza fantastica!
Il suo primo viaggio in
cielo non fu fra i più piacevoli, al pensiero di poter essere abbattuto dalla
caccia nemica, allora in piena azione nella battaglia dei convogli, e
l’approssimarsi della tanto sospirata costa africana fu quanto mai agognato: in
quel momento mai avrebbe potuto pensare che solo dopo parecchi anni sarebbe
riuscito a lasciarla, ma questa è un'altra storia! Africa dunque, terra
esotica, di sogni e profumi particolari ma che qualche mese dopo per lui, per
loro artiglieri semoventi, avrebbe rappresentato spesso solo incubi, sporcizia,
morti, sabbia, facce che mai avrebbe rivisto, una terra come l'eterna compagna
che mai li avrebbe più abbandonati nella memoria.
Sbarcati a Tripoli i mezzi
dal piroscafo Conte Rosso e presi in consegna dagli equipaggi, con l’emozione di
essere la prima volta diretti al fronte, essi partirono verso ovest e furono per
l’occasione filmati dall’istituto Luce. Così, dopo il volo sul Mediterraneo,
pure attore in pellicola; “accidenti - mi disse scherzando - sarei diventato
famoso forse?”
L'ultima tappa del viaggio
fu quella di essere montati, uomini e carri, su camion Lancia 3RO e rispettivi
rimorchi Viberti per essere così avviati più celermente a destinazione.
Anche questo non l’aveva mai
visto e gli sembrò alquanto buffo quanto pericoloso: non era infatti semplice
per gli autieri collocare alla giusta maniera i carri sul rimorchio non essendo
questo nato per questo scopo, col rischio di rovinare per entrambi. Tutto
comunque andò per il meglio e in un secondo tempo apprese che l'operazione era
necessaria alla salvaguardia dei loro tanto preziosi “bassotti”, come
affettuosamente iniziavano ad essere soprannominati i semoventi.
Il fronte per lui e i suoi
camerati era allora una cosa ancora sconosciuta e di cui i veterani che
incontravano strada facendo ne riferivano a fosche tinte, un fronte quanto mai
mobile e che per uno scherzo del destino era tornato pressappoco allo stesso
punto dell’anno precedente, vicino a El Agheila.
Era ormai normale, osservava
sconsolato il Barni, notare quanto drammatica fosse l'impreparazione a tutti i
livelli, salvo per la buona volontà, e come non sempre si riuscisse a supplire
con questa ai problemi che potevano presentarsi: si incrociavano le prime
ambulanze, i nuovi arrivati erano presenti ai primi smistamenti dei feriti,
vedevano le prime salme e non potevano non notare, lungo la strada costiera che
attraversava tutta la Libia e entrava in Egitto, le carcasse sinistre dei carri
di Graziani che all’inizio dell’anno precedente avevano subito una cocente
sconfitta ed erano stati fatti a pezzi dagli inglesi, e tutto questo li rabbuiò
profondamente. Tutto cambiò invece quando raggiunsero il loro luogo di raccolta
e furono oggetto di estrema attenzione da parte dei carristi e degli artiglieri
“classici” dell’Ariete, gruppi sparuti a dire il vero, reduci dalle battaglie
precedenti, ma quanto mai festosi e ospitali e per i quali i nuovi semoventi
rappresentavano qualcosa di più di un semplice rincalzo, bensì la speranza di
poter menar le mani come Dio comandava: incredibile, li fecero sentire come
divinità, o meglio provvidenziali giustizieri e mai e poi mai avrebbero potuto
sottrarsi a questo loro dovere. E così fu, dopo che finalmente si passò dalla
teoria alla pratica: infatti fu spiegato loro, direttamente dai vari comandanti
superiori di unità, che l'arma di cui erano dotati i nuovi mezzi, l'obice da
fanteria da 75/18 per l’occasione attrezzata con cingoli invece di affusto
ruotato, fatta semovente piuttosto che auto carrato, era una assoluta novità e
che pure il nemico beninformato e mai in crisi di mezzi ne era completamente
all’oscuro.
Per di più la nuova granata
approntata specificatamente per la funzione controcarro, la E.P. (Effetto
Pronto), li rendeva quanto mai efficaci contro qualsiasi carro nemico, a
differenza del carro armato medio classico, la “bara rotolante”, com’era
chiamato dai nostri il carro M. Inoltre essi apparivano quasi invisibili, tozzi
ma possenti con la corta canna che fuoriusciva dalla casamatta. La loro livrea,
un giallo sabbia completo, con la quale erano usciti dalla catena di montaggio,
appariva quanto mai necessaria alla invisibilità del mezzo e i pochi distintivi
di reparto, con le sole targhe di immatricolazione di serie, contribuivano alla
buona riuscita dell’operazione. Le prime prove di tiro, l’efficacia dell’arma su
obiettivi corazzati con l'apposito munizionamento, entusiasmò i veterani che
erano presenti e che fino ad allora avevano avuto a disposizione solo il loro
misero 47 mm delle “bare”; iniziò così una sorta di legame affettivo che li
avrebbe sempre fatti considerare come “quelli” dei semoventi, detentori
dell’arma che faceva miracoli. Dal fante al carrista al camerata tedesco che
da lì a poco avrebbero conosciuto direttamente, tutti infatti li avrebbero
guardati con occhi di rispetto e quasi di soggezione, una sensazione che non li
avrebbe mai lasciati.
Passate le prime fasi di
acclimatamento, ben presto incominciò sul serio la guerra: Sempre in gennaio
l'artigliere-autiere Giuliano Barni era già in movimento, fronte a Ovest per la
prima operazione bellica, che per la storia sarebbe durata fino al 16 del mese
successivo, un'operazione questa che lo portò alla riconquista di tutta la
Cirenaica, andata perduta nemmeno un mese prima! Veder tutte le distruzioni che
la guerra lasciava nelle città e nei villaggi che riconquistavano era uno
spettacolo triste, mitigato dai connazionali che festanti li salutavano per le
strade o negli abitati appena liberati: percorreva la via Balbia per la prima
volta e la sensazione degli enormi spazi che scorrevano sotto i rulli del
carro-pezzo lo lasciava quantomai attonito.
Durante questa fase,
riconquistate Agedabia, Bengasi, Derna e terminati i combattimenti, raggiunta la
linea di fronte a Ain el Gazala – Bir Hacheim, furono spostati in zona El
Mechili - Segnali, dove avvenne la preparazione per la successiva offensiva
delle forze Italo tedesche, offensiva che è rimasta nel ricordo dei reduci come
il periodo di maggiore speranza di arrivare alla fine della guerra con la
conquista dell'Egitto, in cui le piramidi apparvero vicine come non mai, la
grande illusione del canale di Suez, delle verdi oasi e del Nilo con la sua
acqua fresca!
In questi pochi mesi di
preparazione, un'altra scoperta fu il nome di Rommel che incominciava
insistentemente ad esser presente nelle conversazioni; Rommel che di lì a poco
avrebbe conosciuto quanto mai bene per le sue azioni e anche a lui, come agli
altri commilitoni, novellini d’Africa, avrebbe ispirato ammirazione e rispetto.
A quel tempo il V gruppo semoventi era composto da due batterie, per un totale
di 8 carri pezzi e 5 carri comando. Giuliano Barni faceva parte della prima
batteria al comando del tenente Alfredo Maria Scalise.
In guerra la morte ti è
sempre vicina, devi imparare a conviverci, mi raccontò Giuliano, ma a vent'anni
come si può pensare a questo? Il cameratismo che nacque fra gli artiglieri li
univa profondamente: i vincoli che si crearono sarebbero stati difficili da
sciogliersi in seguito. Una persona che Giuliano ricordava con tanto affetto era
Antonio, il quale però li lasciò presto, vittima di una malattia. Era un
predestinato, poiché si sentiva che non ce l'avrebbe fatta. Ciò che non aveva
potuto il nemico aveva risolto il fato. Fu il primo di tanti lutti che
seguirono.
Così, appena il tempo di
serrare i ranghi che all'alba del 26 maggio 1942 parte l'operazione “Venezia”,
nome in codice per l'attacco mirato verso la riconquista di Tobruch. La magia
di quei giorni in cui tutto apparve possibile fu funestata pure da tante
dolorose perdite come quella dell'amatissimo Scalise, comandante la batteria,
deceduto nei primi giorni di combattimento durante l'attacco al caposaldo
britannico di Rughet el Atash, a causa di due perforanti che gli colpirono il
carro comando, privo di protezione. Da allora, come già avveniva per i gemelli
carri M, sacchi di sabbia e spezzoni di cingolo, tutto ciò che poteva aumentare
la protezione delle nude e mediocri corazze italiane, fu diffusamente impiegato,
qualche volta con pieno successo ma sempre palesando comunque la debole e
insufficiente corazzatura nei confronti di un nemico meglio equipaggiato e ricco
di mezzi.
L' inferiorità nei mezzi,
tanto nella qualità come nella quantità, poteva solo essere compensata con il
coraggio e con lo spirito di sacrificio e di abnegazione, tutto italiano
questo. Le forze corazzate nemiche che si opponevano agli Italo-tedeschi
erano risultate essere sorprendentemente dotate di nuovi carri, che poi si
scoprì essere mezzi americani, come lo M3 Grant, con un nuovo cannone da 75 in
casamatta e un 37mm in torretta.
Per Giuliano ora è tutto un
frugare nei ricordi, e così si susseguono i nomi di Bir Hacheim, “Knights
Bridge”, El Adem e Tobruch, finalmente investita e catturata con i suoi immensi
depositi, un vero albero della cuccagna per lui come per i compagni, ove
poterono soddisfare finalmente i propri bisogni, sempre a corto di tutto come
erano dopo tre settimane di combattimenti pressoché continui, sfiniti nel fisico
ma felici nello spirito per l’impresa compiuta. Infine la corsa verso l’Egitto,
fino ad arrivare alle posizioni di El Alamein, maledette, che mai riuscirono a
superare. Per tutte quelle settimane il carro pezzo non fu solo arma: fu
casa, giaciglio, gallette, acqua, uomini vivi, feriti o morti; e sempre avanti,
o fermi momentaneamente sotto un inferno di fuoco, i bersaglieri che
incitavano “forza ragazzi!” e sempre l’onnipresente sabbia, a volte come
un immenso sudario a coprire quell'inferno di bombe, rottami e morte.
E un'altra volta il Barni
ricordò i suoi semoventi con affetto, nonostante fossero pieni di difetti
meccanici ereditati dai carri originari, mai risolti definitivamente
all’origine. E nel ricordo pure le officine di riparazioni coi loro
incomparabili addetti, i meravigliosi meccanici che fecero miracoli allora, e
grazie a loro dopo settimane di combattimento le batterie poterono dire di
avere ancora un minimo di forza organica pur essendo ridotte all’osso. L’inizio
di luglio trovò l'Ariete finalmente oltre confine: era l’ombra di se stessa,
molti di loro feriti o deceduti in combattimento, ma quelli presenti
soddisfatti e contenti comunque di essere stati artefici, di aver osato
l’impossibile e finalmente consapevoli che ce l’avrebbero potuta fare! Si
sentivano invincibili per i risultati conseguiti e pensavano che mai nessuno li
avrebbe fermati; ma così non fu. Finita l’euforia di Tobruch e con l’arrivo
alle soglie di Alessandria d'Egitto, con l'inasprirsi delle difese inglesi, egli
vedeva, si sentiva impotente – e qui Giuliano ha quasi un moto di emozione, le
lacrime gli riempiono gli occhi - il progressivo esaurirsi delle risorse: tutti
si accorgevano con sgomento che ora la volontà non bastava più e non sembrava
loro giusto, dopo tutti quei morti e quelle sofferenze patite, non avere il
meritato premio. Alla fine di agosto si arrivò alla battaglia di “Santa Rosa” (Alam
el Halfa), che nessuno sospettava sarebbe stata l'ultima offensiva. Ricordava
come un incubo la mancanza di carburante che li attanagliò dall'inizio alla fine
delle operazioni e la grande speranza, la divisione corazzata Littorio che
sapeva essere finalmente efficiente dopo la recentissima ricostituzione: per poi
apprendere sbigottito l'essere stata vittima di chiari atti di sabotaggio; a ciò
magra consolazione era l'ottimo cameratismo nato e sviluppato con gli alleati
tedeschi verso i quali venne a sapere, stupefatto di essere invidiato per il suo
“bassottino”.
Conclusa l'offensiva con un
nulla di fatto, il V gruppo ora comandato dal capitano Folchi dopo il ferimento
di Viglietti che era stato il sostituto di Scalise, - “quanti compagni che
continuavano ad andarsene” - notava con rammarico! - fece quadrato con i suoi
pezzi e le scarse risorse arrivate dall’Italia.
Si trovavano dispersi e
raggruppati in raum (**), per meglio integrare le scarse difese
disponibili, insieme alla 21° divisione corazzata tedesca, nel settore sud del
fronte e così, a “scafo sotto”, aspettarono l’arrivo dell’offensiva nemica. Si
preparavano ad affrontare quella che oramai sentivano essere la battaglia
decisiva e il cui approssimarsi li metteva di fronte molto probabilmente alla
prova suprema: eppure, alla mia domanda se provassero paura e terrore per ciò
che li poteva aspettare, Giuliano fu risoluto nel confidarmi con orgoglio che
la loro dignità, il loro senso del dovere non erano scalfiti, anzi, si
sentivano immensamente forti per ciò che erano riusciti a fare sino ad allora, e
questo permetteva in quel frangente, di affrontare il proprio destino
serenamente, senza tentennamenti: il solo dolore che gli sovvenne nel mentre
continuava il racconto era l'essere continuamente a conoscenza degli atti di
sabotaggio che dalla madrepatria continuavano a compiersi, e ciò è il più
brutto ricordo che lo accompagnò della battaglia di El Alamein.
“Quando infine scoppiò la
battaglia per giorni – racconta Giuliano - si vide una luce ininterrotta, e si
udì un boato continuo, quello dei colpi in partenza dell’artiglieria nemica e
con sgomento non si vedeva da parte nostra alcuna risposta se non locale o di
brevissima intensità. Le notizie erano poche e se non fosse stato per il vitto o
per l’arrivo già scarso dei rifornimenti in prima linea sarebbe quasi risultata
essere una cosa che non ci riguardava. Sapevamo solo che i primi mastodontici
attacchi erano stati contenuti, ma anche dello strapotere totale del nemico in
tutti i campi che come mai fino ad allora faceva intravedere l’esito finale
della battaglia.” Non ci fu panico. A quel tempo erano aggregati al IX
battaglione carri, schierati in seconda linea dietro il fronte tenuto dalla
Folgore, la bella divisione italiana sacrificata in terra d’Africa, che avevano
conosciuto tramite i paracadutisti in retrovia, che si avvicinavano ai mezzi o
che marcavano visita a qualche ospedale. Il loro superbo spirito e il loro
esemplare morale li rincuorava, era una vera e propria iniezione di fiducia,
semplicemente meravigliosi.
“Tutti sapevano che sarebbe
stata la fine, e il momento sopravvenne il 3 novembre, quando ci fu ordinato di
spostarci dalle posizioni, attraversando il Passo del Cammello (Camel Pass)
e di schierarsi all’altezza di Bir el Abd – Deir el Murra, dietro la
Palificata (***), attraversando così il fronte direzione Nord e coprire le
nostre truppe in movimento.
Vedemmo allora, all’apparire
lungo le piste dei primi freschi relitti, che ci stavamo avvicinando al cuore
della battaglia e l’alba del 4 novembre, che ci trovò schierati nelle nuove
posizioni, né vide l’inizio.”
Giuliano, nel raccontarmi
queste righe era visibilmente emozionato, poiché, se da parte mia c'era la
voglia di sapere, conoscere episodi, momenti salienti del combattimento o solo
la volontà di raccogliere le impressioni della battaglia, da parte sua lo
sommergevano i ricordi, fra i più dolorosi, dei compagni morti o scomparsi, che
più non avrebbe rivisto. Perciò nemmeno a parlarne di una cronologia degli
avvenimenti, ma una lunga narrazione di tanti piccoli episodi, di eroismo e di
piccole viltà, e tanti, troppi morti, dilaniati, arsi nei loro carri sotto i
suoi occhi. Ricordò che quella fu anche l’ultima volta che vide tutta la
divisione con le artiglierie schierate a supporto, uno spettacolo quanto mai
inutile di effimera potenza. Si sacrificavano, lui come tutti gli uomini della
divisione, ma allora non lo potevano sapere, per proteggere la ritirata dei
resti dell' A.C.I.T., li avevano chiamati il “Piave d’Italia a El Alamein”, e
presero alla lettera la loro ultima consegna. Piangevano forse mentre
sparavano, e finché ci fu la possibilità di farlo il nemico non passò. Cosa dire
ancora? Vide bersaglieri avventarsi sui carri, bloccare con bombe a mano sui
cingoli i mezzi, o con quello che al fronte chiamavano “pugnale anticarro”, un
pezzo di tondino di ferro, spaccare i cingoli dei mezzi avversari. Vide con
sgomento esplodere sotto i suoi occhi più di un carro M, e fumo, polvere, tanto
che in alcuni momenti sembrò notte, un'enorme confusione infernale che si era
creata sul campo di battaglia.
A questo punto del racconto
i suoi ricordi si fecero meno chiari, non ricordava nel dettaglio la sorte dei
pezzi della propria batteria, del gruppo. I semoventi furono gli ossi più duri
da eliminare com’era prevedibile , per la bassa sagoma che li rendeva
difficilmente individuabili ma non erano, non potevano essere invincibili.
Il semovente del Barni fu
infine colpito. Alla richiesta di maggiori dettagli mi seppe dire solo che
ricordava di essere uscito dal suo carro pezzo, immobilizzato e con morti a
bordo, e di essere rimasto sotto shock, instupidito, in mezzo a carcasse fumanti
e incendiate, sparse qua e là, e di aver visto morti, tanti morti: un porta
ordini che era sopraggiunto poco dopo gli aveva urlato “scappa, vieni via, non
c’è più nessuno”; e così, avvinghiato alle sue reni, passato il primo momento
di smarrimento, in mezzo alle granate che esplodevano aveva gridato: “più
presto, più presto”. Il nome di quel porta ordini, a cui deve probabilmente la
vita e sicuramente il rinvio di qualche mese della futura prigionia si è
smarrito con il tempo.
Decisi allora di sospendere
la mia intervista, col proposito di riprenderla quanto prima per concludere,
chiedere a lui ancora delle sue vicissitudini africane, ascoltarne i
particolari, così essenziali alla mia attività modellistica e di ricerca
storica, ma purtroppo, con mio rammarico, non ci poté essere una seconda volta.
“E' uno che fa, non ci pensa due volte il Giuliano!”, dicevano di lui i compagni
di batteria, mi aveva confidato nel nostro primo incontro, non senza una vena di
malizia, ma io avevo aspettato troppo, ci avevo pensato molto più di una volta
per ritrovarlo, ancora disponibile a ricercare nei propri ricordi risposte ai
miei perché. Seppi in seguito della sua morte: Giuliano Barni si era serenamente
spento all'età di 87anni, nella sua amata città nel febbraio del 2006.
Una cosa che di lui mi è
rimasta ben impressa nella mente è l'espressione fiera e risoluta, l'orgoglio di
chi è sereno con se stesso, consapevole di aver fatto tutto il suo dovere fino
in fondo, e di aver comunque salvato la vita, differentemente da tanti
commilitoni, scomparsi in quelle lontane sabbie, rimasti laggiù per sempre.
Sapeva di essere stato un fortunato, uno che aveva salvato la pelle, anche se
aveva dovuto affrontare lunghi anni come prigioniero degli Inglesi: e tanti anni
di sofferenza, protrattasi pure dopo la guerra, al suo ritorno in una Patria che
li considerava come reietti per aver combattuto contro i vincitori, Era tornato
a “salutare”, loro, i compagni di tante battaglie, mi raccontò, venti anni dopo
la battaglia di El Alamein, in uno dei primi pellegrinaggi ufficiali sul luogo
dello scontro, ed era contento di averli rivisti ancora una volta, e insieme a
loro, i luoghi di quell'epico scontro: alla mia domanda se avesse il rimpianto
per qualcosa di quegli anni trascorsi, rubati alla sua gioventù, anni di
inaudite sofferenze, bruciati dalla guerra, rispose con una sola frase: “Se
avessimo avuto benzina!...”.
Così voglio ricordare
Giuliano Barni, un piccolo, grande artigliere - carrista italiano.
Ciao Giuliano!
foto 6:
Carro comando M40 per batterie
semoventi, appena sbarcato a Tripoli nel dicembre 1941. Subito dietro di esso si
notano i carri pezzo. Le sole mitragliatrici Breda 38 erano le armi di difesa
del mezzo, ben poca cosa anche nei confronti di scontri con autoblinde
avversarie.
foto 7-8:
Batterie semoventi schierate e in marcia nel deserto. Sembrerebbero tutti
esemplari dotati di parafango corto e questo li identifica facilmente come
mezzi costruiti su scafo M40. Infatti i primi lotti di semoventi costruiti e
relativi carri comando sommava a non più di 90 esemplari e questo fa facilmente
dedurre che essendo state le batterie dell'Ariete le prime ad esserne dotate non
potevano essere che esemplari di tale serie. La prima cosa che colpisce nei due
scatti è la bassa sagoma del semovente che lo rendeva, insieme al pezzo da 75 di
cui era dotato, un mezzo temibile e difficile da mettere fuori combattimento.
foto 9:
...non era
semplice per gli autieri collocare alla giusta maniera i carri sul rimorchio non
essendo questo nato per questo scopo, col rischio di rovinare per entrambi...
foto 10:
Il tenente
Aldo Maria Scalise, Medaglia d'Oro al Valor Militare, morto durante il
combattimento di Rughet el Atash il 27 maggio 1942, l'ufficiale di cui Giuliano
Barni mi parlò con tanto affetto e stima, prima e non ultima delle perdite che
inevitabilmente accompagnarono il V gruppo nella corsa verso l'Egitto e il
destino, ad El Alamein.
foto 11:
Foto di gruppo della I batteria del V gruppo Semoventi. Nella
foto Giuliano Barni è il quarto da destra, il primo in piedi con la tuta da
fatica tipica dei carristi. Anche nell'uniforme gli artiglieri-carristi avevano
in dotazione vestiario della fanteria carrista piuttosto che dell'arma di
artiglieria dalla quale provenivano. Non è stato possibile risalire ai nomi
degli altri artiglieri presenti nella foto, o almeno a parte di essi. Chiunque
si riconoscesse o comunque riconoscesse un proprio caro mi aiuterebbe a colmare
questa lacuna.
foto 12:
L'artigliere-autiere Giuliano Barni, accanto al suo semovente. Il suo “bassotto”
ancora non appare dotato di targa anteriore ne tanto meno di distintivi di
reparto. La livrea è quella tipica dei mezzi corazzati da metà '41 in poi,
giallo sabbia senza alcun accenno di mimetizzazione.
foto 13:
Caserma “Mario Fiore” a
Pordenone, 1962. Durante una visita che precederà il suo viaggio ad El Alamein
per il ventennale della battaglia, Giuliano Barni posa per una foto ricordo con
un suo commilitone del V gruppo Semoventi, ai piedi di un cippo sormontato da un
semovente da 75.
foto
14: Giuliano Barni con il glorioso stendardo del 132°
reggimento Artiglieria Ariete, nel 1962, durante il suo pellegrinaggio al
sacrario di El Alamein. Tale fu la sua commozione durante quel viaggio, nel
ricordo di tutti i suoi compagni caduti che alla mia richiesta di cosa avesse
provato nel rivedere quel luogo, quelle sabbie insaguinate, mi squadrò dritto
negli occhi, piangendo, senza proferir parola.
Le foto provengono da: Stato
Maggiore Esercito, Tank Museum Bovington, famiglia Barni e collezioni private.
Qui di seguito
le fonti iconografiche nel dettaglio:
Foto 01:
Riprodotta da Dalla Libia al Libano di Nicola Pignato, pag.121
Foto 02:
http://www.oldcmp.net/wdes_5.html
Foto 03 e 05:
IWM - Imperial War Museum.
Foto 5a, 5b, 5c, 5d e 6e:
http://www.oldcmp.net/wdes_5.html
Foto 07, 09,
11, 13 e 16: Archivio Famiglia Barni e SME - Stato Maggiore esercito
(Pubblicazioni rievocative a cura del 132° Regg. Art, Ariete).
Foto 8, 12, 15
e 17: G.c. Famiglia Barni.
Foto 06 e
14:SME Stato Maggiore Esercito.
Testo
di Leonardo Landi
Riproduzione fotografica
di
Stefano Calderazzo
(*) A differenza dei carri
tedeschi, i mezzi corazzati italiani, infatti, non erano equipaggiati di
evacuatori di fumo per i gas di sparo)
(**) Il Raum (spazio
in tedesco) era una soluzione tattica adottata da Rommel, ovverosia un gruppo
misto italo-tedesco finalizzato a meglio confrontarsi con le forze corazzate
avversarie, composto inoltre da capisaldi oltre le forze corazzate in comune.
Per la precisione il V gruppo semoventi, con l'Ariete, era situato nel
Raum meridionale, insieme alla 21° Panzer Division germanica, in seconda
linea rispetto alla Folgore e alla Pavia.
(***) La Palificata
era una delle tante piste che dipartivano da Nord a Sud,fino alla depressione di
Qattara, parallele al fronte di El Alamein. A cavallo di essa si svolse, dal 2
al 4 novembre, con l' “Operazione Supercharge”, l'ultima grande, massiva fase
dell'offensiva inglese che culminò con i combattimenti attorno Tell el Aqqaqir
fino a Bir el Abd, più a sud, qui con la fine dell'Ariete, appunto.