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questa pagina è riportata la testimonianza del Serg. Paracadutiusta
REBAUDENGO GIUSEPPE VI BTG 186° Rgt FOLGORE
Alcuni appunti del fratello Riccardo sulle
origini di questo breve diario, rinvenuto tra documenti vari e ricordi dopo la
scomparsa del fratello Giuseppe avvenuta il 31/01/2001.
Il Sergente paracadutista Rebaudengo dopo la
battaglia di El- Alamein fu catturato nel deserto il 6 novembre 1942 e avviato
dagli inglesi nei campi di prigionia in Egitto. Completata l’occupazione della
Libia, nel 1943 i prigionieri italiani furono trasferiti in Cirenaica; fra
questi, mio fratello fu trasferito a Barce dove, penso presso un magazzino
militare italiano in disuso, venne in possesso di vecchi moduli di scarico
materiali che utilizzò per scrivere il diario da me rintracciato e raccolto in
questa modesta pubblicazione.
Ognuna delle pagine numerate da 1 a 10
corrisponde alla pagina del maniscritto originale. A documentazione del tutto,
alle pagine seguenti ho riportato in fotocopia dell’originale la parte iniziale
di queste sue memorie su gli “Ultimi giorni di linea”.
E’ ben visibile l’intestazione dei moduli
militari a quel tempo utilizzati.
Una breve precisazione: a pag. 2 TRE – RO
modello di autocarro da trasporto della Lancia, alle pagine 1 e 4 del volumetto,
l’abbreviazione G.C. si riferisce a grande carica per le bombe da mortaio dotate
della maggiore potenza esplosiva. Per le G.A. non ho informazioni precise. Forse
trattasi di bombe con carica esplosiva inferiore.
Con questi mezzi mio fratello davanti alla sua
postazione bloccò tre carri del nemico riscuotendo l’elogio del Maggiore
Giovanni Bergonzi comandante la Compagnia Comando del VI Btg. poi scomparso
durante la battaglia.
Il Maggiore Giovanni Bergonzi riposa nel
sacrario di El-Alamein dove nell’ottobre 2002 60° della battaglia di El Alamein,
sono stato a pregare davanti alla sua tomba portandogli il ricordo del sergente
Rebaudengo.
“Eroi dalle mille lire al mese”:
era la paga del paracadutista schierato sul fronte di El – Alamein.
Alla tragica data dell’8 settembre 1943 per
mio fratello e tanti altri prigionieri di guerra si impose il momento della
scelta. Per la sua dignità di combattente fedele ai propri ideali rifiutò la
collaborazione col nemico e da questi venne trasferito in apposito campo
allestito in Egitto per i prigionieri di guerra “non collaboratori”. Con tanti
altri suoi camerati affrontò la lunga e dura prigionia nel campo P.O.W. 305
presso Ismailia dagli Inglesi considerato “criminal camp”.
Trascorsero anni difficili superati con
dignità e orgogliosa dedizione ai propri ideali e alla nostra Bandiera.
A maggio 1945 si concluse il conflitto ma i
“non collaboratori” del campo P.O.W. 305 per l’ultima raffinatezza inglese, o
per disposizioni di chi governava in Italia in quel momento, furono gli ultimi
ad essere rimpatriati: ciò avvenne a settembre del 1946 un anno e quattro mesi
dopo la fine delle ostilità.
Mio fratello ritornò in patria il 10 settembre
1946 a bordo della nave Sestriere: sbarcato a Napoli, portava la stessa sua
divisa che aveva indossato combattendo contro gli inglesi sul fronte di El-
Alamein, gelosamente conservata piena di rattoppi per il suo ritorno in Patria.
Fiero del suo passato di combattente che non era sceso a patti ne a compromessi
con il nemico.
La divisa con le mostrine azzurre del Sergente
Paracadutista Giuseppe Rebaudengo è ora esposta e degnamente custodita nel Museo
Sacrario dei Giovani Fascisti di BIR EL GOBI presso la “Piccola
Caprera” di Ponti sul Mincio.
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Ultimi giorni di linea
23 ottobre
1942. Il giorno muore, la piana di Alimeimat nella sua immensità non differisce
dagli altri giorni. Soldati escono dalle buche, chi si sbarba, chi fuma, chi
scrive e chi discorre, chi si accinge a cercare e schiacciare pidocchi.
L’insolita animazione è la solita di tutti i tardi pomeriggi. Dal Com. Btg è
arrivata intanto una staffetta. Novità. Il tenente chiama i Capi Squadra.
Sta prendendo appunti.
L’ordine inviato dal Maggiore è chiaro. Tiri di prova sul varco del campo
minato. Usare le G.C. Il Tenente si reca all’osservatorio. Ricevo i dati di
tiro. I miei ragazzi sono allegri. L’artigliere spoletta fischiettando, il
puntatore A. manovra il congegno di puntamento, lui solo è serio, tutto preso
dalla sua funzione, se la prende con la bolla d’aria che non vuol saperne di
andare a livello, sbuffa e impreca, io attendo. Sorride, si rizza accende una
sigaretta. “ Sergente l’arma è pronta”. Anche l’arma di M. e G. sono pronte. Il
Tenente dall’Osservatorio fa un cenno. Spara la prima arma due colpi, due la
seconda, due la mia, le detonazioni sono forti, le orecchie mi rintronano, la
postazione trema ma i sacchetti reggono e si consolidano. Dietro al costoncino
ci giungono sorde le esplosioni prodotte da 42 Kg. di tritolo. Il tenente
ritorna, ci sorride e si congratula. Il tiro è risultato giusto. Ognuno ritorna
alle proprie occupazioni, si attarda l’artificiere a spolettare.A ovest il sole
ormai non è più che un immenso globo rossiccio. La temperatura si fa fresca.
Intanto dal Com. Btg arriva un folgorino con la posta. I soldati gli si
affollano attorno, ognuno reclama posta, io ritiro tre lettere. Mia moglie, mia
sorella e mio fratello. Mi avvio verso la buca, ansioso in quel momento di
solitudine. Il sole è calato, la sera scende veloce, le lettere lette e rilette
sono abbandonate sulla sabbia, io fumo pensando, sono triste. Perché? Mah!
L’arrivo di posta riempie di gioia sul momento, ma poi... E’ sera l’uomo di
guardia è a posto. Si aspetta come tutte le sere il rancio. Pronto per le cinque
arriva a tutte le ore immaginabili anche quando, messo il cuore in pace e
stretta di un buco la cinghia, si cerca di sfruttare le due o tre ore che ci
separano dal levar del sole. Immaginatevi se dovesse arrivare riso o
pastasciutta. Invece stasera anticipa di molto. Si sente in lontananza il
caratteristico ronzio del TRE-RO. Vado con tre uomini a prendere le marmittone
al Comando della 17° distante sulla nostra destra un cinquecento metri circa.
Sempre la solita confusione, anzi questa sera sembra più del solito.
Nell’oscurità bidoni d’acqua sono scambiati per quelli del caffé, sacchi di pane
della 16° vengono dati alla 17°. L’autista ha fretta, i cucinieri imprecano,
impreca il sergente di cucina, impreca il furiere, un tenente ordina la calma e
l’ordine, io attendo pazientemente che abbia termine la distribuzione. Ritiro la
mia roba e me ne vado. Al mio caposaldo già attendono con impazienza, qualcuno
protesta perché non ci hanno subito consegnato il caffé, il pane e i viveri di
conforto che ci toccherà così andar ritirare domani mattina. Nervi anche qua.
Sembra che tutti si siano messi d’accordo, anch’io sto per perdere la calma. Per
fortuna che la distribuzione ha termine. Si mangia. Seduto a terra sull’orlo
della mia buco consumo il frugalissimo pasto. A metà getto via il tutto, brodo e
pasta e mosche. Una vera porcheria. Vado dal tenente a prendere ordini per la
notte. Sempre i soliti, sempre le solite raccomandazioni. Ormai è tardi, gli
uomini si sono ritirati, solo la sentinella vigila. Chiamo V. per la solita
serale partita a scopa, non risponde, già dorme. Che fare? Seguirne l’esempio?
Non ho sonno. Avvoltolato nell’ampio pastrano, appoggiato ai sacchetti della mia
postazione mi raccolgo nei miei pensieri, penso, fantastico e fumo. Tutto è
silenzio. Tutto è calmo, la fantasia lavora, i ricordi affiorano. Penso alla
casa lontana, ai famigliari, penso a mia moglie. Mi alzo e vado in buca, nel
sonno cercherò un po’ di oblio.Cerco di dormire, ma il sonno non viene,
riaccendo il lumicino a petrolio, faccio un solitario, anche questo non mi
riesce. Fumo nuovamente ricominciando a pensare. Qualcosa intanto, che subito
non comprendo cosa sia, mi distrae. Ascolto. Ora capisco, sembra che la mia buca
tremi, rimbombi; esco all’aperto, tutto è silenzio, fa freddo, solo l’uomo di
guardia passeggia lentamente tossicchiando. Cerco di individuare l’ora guardando
le stelle, credo siano quasi le 22. Rientro nella tana. Mi rimetto in ascolto,
il rumore continua, simile a un ronzio e un boato continuo che cala e cresce di
tono. Sono perplesso, un dubbio mi prende, automezzi, cingoli lontani in
avvicinamento nel deserto, la terra me ne porta i rumori, il dubbio diventa
certezza. Sto per uscire a chiamare il tenente e farlo partecipe di ciò che
succede. Ma non ho il tempo. Improvviso, violento, continuo ha inizio sui nostri
capisaldi un bombardamento, un cannoneggiamento tale che non ricordo l’uguale
durante i miei pochi mesi d’Africa. Mi affretto ad armarmi, levo il mitra dalla
custodia, intasco 5 o 6 caricatori da 20, pistola e pugnale al fianco, bombiera
e elmetto da lancio infilato al braccio. Accendo una sigaretta, la mano non
trema, me ne compiaccio: i nervi sono a posto. Esco all’aperto. E’ un inferno,
appena appena sento il tenente che chiama gli uomini alle armi, sbraita; curvo
passo buca per buca a sollecitare la mia squadra. Arrivo in postazione, vedo
un’ombra, qualcuno mi ha preceduto. E’ l’artigliere, che imperturbabile ha
ricominciato a spolettare, elmetto in testa, pantaloncini e torso nudo. Non ha
perso tempo.Tutti sono a posto, e attendono ordini dal tenente. Il gruppo
d’artiglieria della “PAVIA” posto dietro al Comd. Btg nostro, ha aperto il
fuoco, mentre dai nostri capisaldi avanzati s’alza un appello disperato sotto
forma di razzi purpurei. Il nemico ha aperto il varco, carri armati sono
penetrati e avanzano. Ce n’è anche per noi. Il tenente ordina: “Fuoco a volontà,
sparare sul varco, usare le G.C. Gli uomini non facenti parte del gruppo tiro
rientrino in buca ma si tengano pronti”. L’arma mia è la prima ad aprire il
fuoco, il tubo di lancio ingoia ed emette continuamente acciaio ed esplosivo.
Anche le altre armi sono entrate in funzione. L’orchestra è al completo. Su di
noi passano sibilando sinistramente i calibri della “PAVIA”. Le fiammate livide
e accecanti del mio mortaio s’innalzano verso il cielo cupo. Ad intermittenza
distinguo i miei ragazzi. L’artigliere lavora, il suo torso luccica di sudore,
spoletta, emette cariche aggiuntive con calma ma veloce, le granate passano al
capo arma, le riceve il caricatore, con gesto meccanico e sempre uguale le
introduce nel tubo, s’abbassa e il colpo parte, tutto è regolare come il tic tac
di un orologio. Il puntatore non sbuffa e non impreca, la bolla dell’aria ha
messo giudizio. Basta un colpetto al volantino di elevazione, un lieve
spostamento in direzione che si mette a posto, la brace della sua sigaretta
permette ad A. di regolarsi. Tutta la linea difensiva del Btg. è sotto il tiro
dell’artiglieria nemica dall’estrema sinistra all’estrema destra, però il fuoco
concentrato e più violento è sulla 16° che si è posta a difesa del varco. Anche
la mitraglia è entrata in azione, segno che la fanteria nemica è vicina, salgono
di continuo razzi rossi, la situazione si fa seria, i mortai continuano
incessantemente il fuoco. Aiuto anch’io i miei uomini, mi sono levato il
pastrano, con un piccone faccio saltare il coperchio delle casse munizioni. IL
caricatore mi fa un cenno, non ne può più, è mezzo assordato dalle detonazioni.
Gli do il cambio, il fuoco continua con la medesima celerità di prima.Anche il
nostro caposaldo è preso di mira, Arrivano colpi su colpi, qualcuno cade poco
distante, ci avvicinano o ci sorpassano di poco. Ce ne accorgiamo dai sibili
stridenti poco più su delle nostre teste, dagli schianti orrendi, paurosi, dal
frullare sinistro delle schegge, è una sinfonia mortale che ci sfiora. Osservo i
miei ragazzi, nessuno si curva, nessuno si stringe la testa tra le spalle, tutto
ci è indifferente, che importa se l’ala mortale ci sfiora? Purché non ci tocchi
e se ci tocca basta che non ci prenda in buca. Tendiamo tutti a un solo
obiettivo, fermarli, impedire il passaggio. Il caricatore ha ripreso il suo
posto, le orecchie mi ronzano, fischiano che è un piacere, sento fame, sento
sete, non ho più sigarette, l’odore della polvere mi fa pizzicare il naso, ho
caldo. Corro alla buca, il lume è ancora acceso, cerco la borraccia, una lunga
sorsata d’anice mi da nuovo vigore, prendo le sigarette ed esco, la borraccia la
porto ai ragazzi. Fuori è sempre un inferno, vicino a loro mi sento sicuro.
Viene il tenente, mi stringe la mano, non lo vedo in viso ma ho l’impressione
che mi sorrida, ha vent’anni, io ne ho trenta. Mi fa alcune raccomandazioni e si
allontana verso le altre armi. Ora si spara a salve di tre colpi, celerità di
tiro tre secondi, anche i mortai hanno bisogno di respiro. Una granata è
arrivata vicinissima alla postazione del collega M. ma la cadenza non è variata
di un millesimo di secondo: caricatore coi nervi a posto.Intanto il
cannoneggiamento nemico scema di intensità, sembra cessare, sul nostro settore
pare ritorni la calma, il tenente ordina di cessare il fuoco, il gruppo della
“PAVIA” si fa sentire meno frequente, qualche raro colpo arriva ancora ma sono
gli ultimi. Le “BREDA” della 16° continuano per poco il loro gracchiare sinistro
poi anche loro cessano, continua però alla nostra sinistra verso la litoranea,
molto lontano, un cupo tuoneggiare. Mi sono seduto sui sacchetti della
postazione, la tregua dura poco, è destino che questa notte non si dorma. Uno...
due... tre bengalotti rossi si innalzano ancora. Le “BREDA” ricominciano la
solfa. Altri colpi arrivano, il nemico ricomincia, i razzi non si sono ancora
spenti che l’artiglieria nostra è già entrata in azione. Bravi artiglieri.
Riprendiamo il nostro posto, lavoriamo con più accanimento, spariamo una granata
dietro l’altra. non abbiamo un’idea di quel che succede, riusciremo a fermali?
Passeranno? Il cuore mi dice di no. Sono passati? Non credo. Il fuoco continua,
forza ragazzi... Ora è ritornata la calma, sembra che duri però continua sempre
insistente il cannoneggiamento in direzione della litoranea. Mi sono recato dal
tenente a portare le novità. Novità N.N. Rapportino laconico, che vuol dire
tante cose. Mi riceve nella sua buca, sta scrivendo, ci sono già i miei
colleghi. Ci salutiamo, ci stringiamo la mano, è un gesto che vuol dire tutto.
Il tenente ci ringrazia del lavoro svolto, offre il cognac, ci lascia in
libertà. Mi avvio inciampando in casse vuote, rotte, spaccate verso il mio
asilo. I miei ragazzi sono già a riposare, porto loro il ringraziamento del
tenente. Anche loro sono soddisfatti: “Buona notte sergente”. La sentinella ha
ripreso il suo posto, sono stanco, ho sonno e una gran fame. Rosicchio una
galletta, l’alba non è lontana. Mi accoglie l’intimità della buca, accendo
l’ultima sigaretta, mi distendo, penso a casa, a mia moglie, col pensiero di lei
mi addormento............E per dieci giorni continuò l’inferno. Per dieci giorni
sui capisaldi della “FOLGORE” si resistette, per dieci giorni il nemico segnò il
passo, non passò e non sarebbe passato, se l’ordine dei nostri comandi imponeva
la resistenza a oltranza e non il ripiegamento. Scarseggiavano i viveri,
scarseggiava l’acqua, ma i fanti dalle Azzurre Mostrine, tennero duro,
tenacemente duro, il nemico continuò per dieci giorni a scaricare sulle nostre
posizioni granate e granate di tutti i calibri. Non passavano. Nella notte dal 2
al 3 novembre giunse improvviso l’ordine di ripiegare. Fu come una mazzata in
testa. Non ci si credeva. Eravamo stupiti e addolorati. Motivi di strategia
imponevano il ripiegamento. In un punto indeterminato il fronte era stato rotto,
ripiegando si evitava l’accerchiamento. La sera era stata calma, si era vegliato
all’arma fino a tardi, il rancio non era arrivato come pure l’acqua, s’ingannava
il tempo parlando del più e del meno, alle 23 circa era arrivato un porta ordine
del Comd. Btg. Volevano sapere il numero esatto delle granate suddivise in
specie (G.A. e G.C.) il numero dei colpi di moschetto, dei colpi di pistola e di
mitra e delle bombe a mano, financo dei pugnali.Mandai sinceramente al diavolo
il curioso del Comd. Btg. per la rottura di scatole che mi procurava. Era
l’ennesimo ordine di tale specie ricevuto in quei giorni. Eseguitolo, steso il
rapportino me ne ero andato a dormire. Venne a svegliarmi il tenente. Era l’una.
L’ordine giunto era esplicito: “Abbandonare il superfluo, zaino (con tutte le
varie cianfrusaglie così care e indispensabili al fante in linea), prendere solo
il puro necessario, caricarsi di tutte le armi e il maggior numero di munizioni,
ripiegare al Comd. Btg.”. Là c’erano altri ordini. Ero intontito dal sonno e
dallo stupore, non riuscivo a raccapezzarmi, il tenente mi ripete l’ordine. I
ragazzi vennero avvertiti, chi imprecava e chi bestemmiava, anche loro trovarono
duro abbandonare la postazione. In silenzio ci preparammo. Eravamo stracarichi,
compreso il comandante. Il plotone fu pronto, tenente in testa, tutti in fila
indiana, io avrei chiuso la marcia, nell’interno della mia buca ardeva il
lumicino per l’ultima volta, mi introdussi in essa, raccolsi la pipa e le
sigarette che avevo dimenticato, uscii lasciando accesa la fiammella compagna di
tante notti insonni, già il plotone era in marcia, nell’oscurità più che vedere
indovinavi il disordine della postazione abbandonata. Il Comd. Btg. venne
sorpassato, anche qua mi immaginai il disordine, c’era nessuno, si continuò a
camminare. Io sentivo fame e sete, ci incontrammo con un gruppo di autoblinde
ferme, un bersagliere mi offrì acqua e galletta. Mi disse fra l’altro che erano
a protezione del nostro ripiegamento, disse che a 500 metri avremmo trovato la
nuova linea difensiva, mentiva tanto per incoraggiarci.E continuammo a camminare
nella notte, la marcia era resa più faticosa dalla sabbia nella quale si
affondava sino alle caviglie. Le spalle dolevano per il carico.L’alba ci
sorprese all’imbocco del campo minato, chiamato dal fante “Giardino d’inferno”,
oltre a quello avremmo formato la nuova linea difensiva. Reparti affluivano al
varco, non erano i soli, con noi erano soldati di tutte le armi, di tutte le
specialità. Un generale fermo vicino alla macchina sua osservava l’affluire
degli uomini, li incitava a sbrigarsi, tre soldati del genio minatori seduti su
una pila di mine attendevano l’ordine di chiudere il varco.
Quasi a levante si profilava
il cimitero della “FOLGORE”.
- Eroi dalle mille lire al mese -
Quella notte la “FOLGORE”
ripiegò tutta, abbandonò tutto, buche faticosamente costruite e scavate,
abbandonò ciò che era d’ingombro, di peso inutile. Sui capisaldi diventati
silenziosi regnò il silenzio, in qualche buca forse arde per poco ancora il
lucignolo fumoso e maleodorante che al folgorino nei momenti di tregua, di pace,
era di prezioso ausilio per scrivere, per rileggere l’ultima posta ricevuta.
Molto tempo non sarebbe passato che avrebbero trionfato le leggi della natura,
segni di vita non sarebbero riapparsi, il deserto avrebbe ripreso la padronanza
del suo. Il tempo, il ghibli e la sabbia gli avrebbero dato un aiuto. Più nessun
rumore avrebbe rotto il sepolcrale silenzio, non più l’assordante sferragliare
dei cingoli, il miagolio delle pallottole, il sibilo acuto, stridente,
terrificante, lo schianto pauroso delle granate, il frullare delle schegge, non
più il lamento dei feriti, il rantolo dei moribondi, le urla dei vivi. Unico
rumore il soffio potente eppur lieve del vento, la sola voce del deserto. Ma non
tutta la “FOLGORE” ripiegava quella notte, una parte di essa restava, restava il
meglio, restavano i suoi Caduti. Rimaneva il cimitero della “FOLGORE”, i morti
rimpiazzavano i vivi, da quelle altezze sublimi ridiscendevano gli abissi
celesti per riprendere le posizioni già bagnate col sangue loro per ricordare al
camerata in ritirata, al nemico, che pieno di baldanza avanzava con lunghissime
colonne di automezzi, cingoli e artiglieria a non finire, che i morti della
“FOLGORE” non abbandonavano i capisaldi, i morti rimpiazzavano i vivi.
“Non importa
chi ha vinto o
chi ha perso
ma come si è
giocato”
William Ernest
Henley
Criminal camp POW 305 di ISMAILA
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Cairo, 17/06/1946
Caro Giuseppe,
ho ricevuto
con molto ritardo la tua lettera, lieta che il poco che ho mandato abbia potuto
esserti così utile e gradito.
Capisco che
è ben poco in confronto delle necessità, ma che farci?
Speriamo che
tutto ciò abbia presto fine, e che non rimanga che un ricordo anche se poco
lieto; se non altro ti rimarrà quello di mamma Delia che nella sua solitudine
morale ha avuto il grande conforto di potersi occupare nel limite delle sue
forze di voi poveri figlioli. Saprai già che è ritornata una delle mie figliole,
la più piccola, 21 anni, e mio marito. Sono tanto contenta e felice e Dio mi ha
ricompensato che dopo 6 anni di lontananza mi abbia fatto riunire in parte con i
miei cari che ne hanno passate di ben dure negli anni della guerra. Spero di
potere alla prima partenza di pacchi mandare qualche altra cosa che dividerai
con i tuoi compagni di tenda.
Manderò
ancora i dolci, cartine da sigaretta e qualche altra cosetta.
Scrivimi.
Salutami i tuoi compagni, auguri, auguri di un pronto rimpatrio.
Con affetto abbracci
Mamma
Delia
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Mamma Delia era una "amica di
penna" del sergente e durante gli anni della prigionia e poi successivamente in
Patria, tenne con lui una fitta corrispondenza.