Nuovi capitoli in "Le mille e una favola" e "Alla ricerca dei relitti perduti"

            


                                                                                   bers MASOTTI Remo

 

                                                        L’affondamento del “Laconia”

                                          e il caso che ne è seguito

 

Il “Laconia” era un piroscafo da passeggeri della Cunard Line costruito a

Newcastle nel 1922 con altre quattro unità gemelle per le linee del Nord Atlantico.

Aveva una stazza lorda di 19.695 tonn. con sistemazioni per 1520 passeggeri ed un

profilo caratteristico conferito dal ponte di comando isolato e da un’ unica ciminiera

spostata sensibilmente verso poppa. 

Trasformato in trasporto militare e proveniente dal Mar Rosso, nel settembre

del 1942 il “Laconia” si trovava a passare al largo di Freetown lungo le coste

dell’ Africa Occidentale. Aveva a bordo 1800 prigionieri di guerra italiani sorvegliati

da un corpo di 103 Polacchi, 286 militari inglesi diretti in patria, 80 tra donne

e bambini con la stessa destinazione e 200 donne rastrellate in varie parti con foglio

di via.

Il comandante, capitano Rudolf Sharpa, era un uomo imponente e curato

nell’ aspetto, di carattere indipendente, difficile da trattare. Ma quella volta aveva

ricevuto un’ ordine al quale aveva dovuto sottomettersi senza poter far nulla pur

essendo contrariato: seguire cioè una rotta in acque nelle quali era possibile

imbattersi in qualche sommergibile, ma senza scorta dovendo fare affidamento

soltanto sulle armi di bordo (poteva considerarsi poco meno di un incrociatore

ausiliario) e sulla velocità, che non era però molto elevata essendo scaduta a 15

nodi. Il comandante inglese aveva protestato, ma inutilmente. In quel secondo

semestre del 1942 la battaglia dell’Atlantico era giunta al culmine e gli Inglesi erano

costretti ad usare ogni mezzo in grado di navigare con scorte ridotte o inesistenti.

Era la tarda mattinata del 12 settembre e il mare era reso biancastro da uno

spietato sole tropicale che mimetizzava la scia di un sommergibile. Si trattava

dell’ “U-156” che, al comando del trentaduenne capitano di corvetta Werner

Hartestein, era diretto verso il Capo di Buona Speranza per la sua quarta missione.

Alle 11,37, ora tedesca, una delle vedette annunciava a gran voce la comparsa

di fumi all’ orizzonte. Era il caso che faceva incontrare i due principali

protagonisti della nostra storia al momento giusto (o sbagliato) nel posto giusto (o

sbagliato).

Hartestein portava il sommergibile dalla velocità di crociera a 16 nodi per

vedere di che si trattava. Dava inizio ad una lunga caccia con frequenti aggiustamenti

finché, alle ore 15, la nave svelava negli oculari dei binocoli puntati su lei

tutta la sua struttura. Aveva l’ aria di un incrociatore ausiliario, stazza stimata

12.000 tonn., che procedeva zig-zagando alla velocità stimata di 15 nodi. Per

l’ attacco bisognava aspettare la notte e, fattosi buio, apparve qua e là qualche luce,

segno che a bordo dell’ avversario le norme sull’ oscuramento non erano rispettata

a dovere.

Alle ore 22,07 il sommergibile eseguiva due lanci il cui esito veniva annunciato

da due esplosioni. Il primo siluro aveva colpito la stiva 4 dove si trovavano

chiusi 450 Italiani, che rimanevano uccisi quasi tutti, mentre il secondo siluro

faceva meno danni. Gli Inglesi davano immediatamente l’ allarme radio segnando

la posizione 550 miglia a sud di Capo Palmas. Il “Laconia” appariva in poco tempo

sbandato di 15° in mezzo ad un fumo acre e irrespirabile, le macchine cessavano

di funzionare e veniva meno l’ illuminazione elettrica.

Si verificava non poca confusione nell’ andirivieni della gente che scendeva

sottocoperta a ricuperare effetti personali e risaliva sui ponti ai posti di abbandono

nave. Dalle stive venivano fuori i prigionieri, che invano le guardie polacche

tentavano di trattenere perché avrebbero dovuto essere imbarcati per ultimi sulle

scialuppe e sulle zattere, molte delle quali erano danneggiate o distrutte. I mezzi di

salvataggio non erano pertanto sufficienti ad accogliere tutti i naufraghi, si verificava

il solito intreccio di atti di coraggio e di viltà tra chi manteneva la calma e chi

perdeva la testa, com’ è sempre successo in simili contingenze.

Dopo tre quarti d’ ora la prua del “Laconia” andava a filo d’ acqua mentre

l’ “U-156” pencolava in posizione di osservazione a distanza di 2-3000 metri. Si

preparava ad un altro attacco in quanto la nave stava ancora a galla, ma ad un certo

momento l’ acqua di mare penetrava nei forni delle caldaie provocandone lo

scoppio: il “Laconia” affondava di poppa trascinando con sè il comandante e il

secondo.

L’ “U-15” si portava sul posto e agli occhi degli uomini di guardia sulla

torretta si presentava uno spettacolo indicibile: poche imbarcazioni, relitti d’ ogni

genere, gente che gridava aggrappata a qualsiasi cosa galleggiasse, urla di donne e

bambini attaccati da piccoli squali che davano feroci morsi.

Ad un tratto i Tedeschi sentono un’ invocazione in italiano: “Aiuto!”, e il grido

dà il via al più grosso dei problemi da risolvere sul momento. Al comandate

Hartestein si presenta una bella responsabilità non differibile: salvare i naufraghi,

e non solo gli Italiani perché non se la sente di fare in quel momento discriminazioni,

e conseguentemente mettere a repentaglio la sua incolumità; oppure chiedere

istruzioni che non possono arrivare subito e intanto esporsi all’ attacco di forze

nemiche avvisate del siluramento.

Le proporzioni del salvataggio apparivano inoltre superiori, e di molto, alla

capacità ricettiva del sommergibile. I naufraghi cominciavano intanto a salire a

bordo e in breve se ne contarono oltre 200. Fatta una prova d’ immersione, se ne

dovette far tornare in mare una trentina.

Alle ore 1,25 Hartestein inviava al comando sommergibili di Parigi un

messaggio, che avrebbe dato il via a decisioni eccezionali, a discussioni dramma

tiche, ad interventi in sede diplomatica innescando una operazione senza precedenti.

Mentre il sole sorgeva, il 13 settembre, preannunciando una giornata caldissima,

a molti chilometri di distanza, nel Boulevard Suchet, l’ ammiraglio Dönitz,

svegliato in piena notte, stava dibattendosi in un dilemma ben grosso: ordinare di

ributtare in mare i naufraghi già raccolti e far proseguire il sommergibile per la sua

missione (fatto che nessuno avrebbe potuto criticare dal punto di vista delle

operazioni militari in corso); oppure interrompere la missione, prestare soccorso al

maggior numero possibile di naufraghi, esporre l’ “U-156” al pericolo di attacchi

e magari all’ affondamento, dovendo vincere con un ordine simile, un sacco di

resistenze e di critiche in casa propria e nelle sfere più alte. Tra i due corni del

problema c’era anche un risvolto politico non indifferente determinato dalla

presenza tra i naufraghi di militari italiani.

Dopo lungo riflettere, l’ ammiraglio Dönitz prendeva una decisione, che gli

faceva molto onore, di assumersi la gravissima responsabilità di tentare il salvataggio,

una responsabilità tale da poter distruggere di colpo la sua carriera. Fattosi

assicurare che l’ “U-156” era in grado di immergersi in caso di necessità, alle ore

3,45, pur tra pareri nettamente contrari in seno agli ufficiali del suo staff, diramava

l’ ordine ai tre sommergibili più vicini, quelli del gruppo Eisbär (“U-507”, “U-506”

e “U-457”, la “vacca da latte”) di dirigere a tutta velocità a dare una mano.

Hartestein provvedeva intanto a raccogliere i naufraghi sparsi qua e là, a

distribuirli con ordine su battelli e zattere. Proponeva nel contempo la neutralizzazione

diplomatica della zona del naufragio. Al quartier generale di Parigi la cosa

sembrava difficile, ma Dönitz cercava di giocare anche questa carta. Venivano presi

contatti anche con l’ ammiraglio Parona della base italiana di Beta-Somm a

Bordeaux, che disponeva il dirottamento del sommergibile “Cappellini” che, al

comando del tenente di vascello Marco Revedin, si trovava relativamente il più

vicino alla zona interessata (e non nuovo ad operazioni di salvataggio di naufraghi).

A Dakar si trovavano molte navi della flotta francese di Vichy e, col concorso del

governo italiano, veniva richiesta la collaborazione della commissione d’ armistizio

di Wiesbaden, Torino e Vichy.

La situazione era pesantissima e Hartestein prendeva un’ altra iniziativa del

tutto fuori norma: trasmetteva in chiaro un avviso in inglese facendo presente che,

se qualche nave era in grado di prestare soccorso, il suo sommergibile si sarebbe

astenuto da atti ostili purché egli stesso non fosse fatto segno ad attacchi da parte

di navi o aerei; dava perfino la sua posizione. Un rischio tanto grave che sembrava

una pazzia.

Passavano così due giorni e due notti di grande ansia.

Alle ore 10,10 del 13 settembre il sommergibile “Cappellini” riceveva l’ ordine

di dirottare verso quella zona, ma si trovava molto lontano, a nord-est

dell’ isola di Ascension.

Molte erano le istruzioni che seguivano via via, comprese indicazioni sui

segnali di riconoscimento tra le unità tedesche e francesi, che erano l’ incrociatore

“La Galissonière” e gli avvisi “Dumont d’ Urville” e “Annamite” sotto il comando

in capo di Marine Dakar, dove si trovava l’ ammiraglio Collinet.

Era una domenica, quel 13 settembre, e dopo una mattinata d’ intenso lavoro

l’ ammiraglio si apprestava a concedersi una pausa per la colazione. Alle ore 13 gli

veniva recapitato un messaggio urgente, l’ ordine d’ uscita per raccogliere i naufraghi

del “Laconia” trovantisi in posizione stimata nei pressi di Abidijan. La cosa

non gli piaceva perché i rapporti con gli alleati erano delicatissime il francese

temeva malintesi e incidenti. La notizia dell’ affondamento gli era già nota. L’ unità

più vicina era l’ avviso “Dumont d’ Urville” al quale veniva mandato l’ ordine di

muovere alle ore 19,30, sul far della sera, ma il cifrato relativo all’ operazione era

incomprensibile e la faccenda veniva chiarita solo il giorno dopo. Per di più l’ unità

era lenta, non poteva sviluppare più di 12 nodi. Il suo comandante, capitano di

corvetta Quémard, era un bel tipo : la sua piccola unità aveva incontrato un giorno

una grossa formazione inglese, che si premurava di trasmettere il segnale “Non

temete, non attaccheremo”, al quale Quémard rispondeva: “Neanch’ io”.

L’ unica nave efficiente e veloce era l’ incrociatore “Gloire” comandato dal

capitano di vascello Graziani, per il quale prendere a bordo italiani insieme a inglesi

era una bella preoccupazione. C’ era inoltre penuria di nafta alla quale, però,

provvidero i Tedeschi. L’ incrociatore “Gloire” muoveva alle ore 21 del 14 settembre

e durante la navigazione veniva più volte sorvolato da quadrimotori inglesi del

tipo Sunderland, pronto ad aprire il fuoco alla prima avvisaglia di ostilità. Ma gli

Inglesi lasciavano fare e l’ incrociatore giungeva sul posto del naufragio il mattino

del giorno 17, preceduto dall’ “U-506”, che imbarcava 132 Italiani. I Francesi

girarono in perlustrazione sullo specchio d’ acqua raccogliendo altri superstiti

giunti ormai al limite delle forze.

Venivano infine sistemati e suddivisi i rimorchi: 22 zattere e scialuppe tra

l’ “U-506” e l’ “U-152” con intercambio sui sommergibili; altre imbarcazioni

tentavano isolatamente la navigazione verso terra; piccoli gruppi sfuggivano alla

ricerca sicché tra morti e dispersi si contarono 1500 vittime.

È da chiedersi ora perché gli alleati non mandarono loro navi di soccorso.

Risulterebbe che in quel momento era in corso una grossa operazione intorno al

Capo di Buona Speranza con l’ impiego di tutti i mezzi, ciò lascia comunque

perplessi.

Ma l’ odissea non era ancora finita.

Alle ore 11,25 l’ “U-156” avvistava un aereo non identificato e spiegava una

grande bandiera bianca con la croce rossa tentando nel contempo un contatto ottico

senza ottenere risposta. L’ aereo spariva oltre l’ orizzonte, ritornava dopo mezz’

ora, spariva di nuovo. Alle ore 12,32 si faceva vedere un altro aereo, o era lo

stesso.

Nella tarda mattinata del 15 settembre l’ “U-156” si trovava ad aver a bordo

263 naufraghi quando arrivava l’ ”U-506” di Würdemann, che ne prelevava 132,

tra i quali un Italiano. Restavano sull’ “U-156” 55 Italiani e 60 Inglesi, tra i quali

5 donne.

Il mattino del 16 settembre l’ “U-156” prendeva a rimorchio un’ altra scialuppa

in aggiunta alle 3 che già assistiva. Denunciava un guasto alla valvola d’ uno

dei motori diesel e chiedeva via radio un pezzo di ricambio.

Il tempo passava e la situazione si faceva sempre più precaria, ma l’ ammiraglio

Dönitz, pur pressato dall’ alto, non desisteva.

Alle ore 8,28 giungeva finalmente il sommergibile “Cappellini” che trovava

e soccorreva una scialuppa alzante una vela rossa. L’ imbarcazione era occupata

da 50 Inglesi e siccome appariva in buone condizioni, il sommergibile proseguiva.

Alle ore 10,30 incontrava un’ altra imbarcazione con donne e bambini, che rifiutavano

l’ invito di salire a bordo.

Alle ore 11,25 Hartestein veniva nuovamente sorvolato da un aereo e tornava

a mostrare la bandiera con la croce rossa. Questa volta l’ aereo veniva identificato

per un tipo “Liberator” americano. Non solo non rispondeva ai segnali ottici ma,

fatto un giro sulla zona, attaccava a bassa quota col lancio di bombe. L’ “U-156”

non poteva fare altro che abbandonare i rimorchi e mettere i motori a tutta forza

avanti. Un secondo attacco contro il sommergibile, che non reagiva, centrava in

pieno una scialuppa e una seconda si capovolgeva. L’ aereo eseguiva una terza

passata col lancio di altre due bombe. Hartestein faceva evacuare gli Inglesi, uomini

e donne, che erano costretti a saltare in mare, e si immergeva con alcuni danni allo

scafo. Quando ritornava in superficie era già notte e comunicava via radio l’ interruzione

dell’ operazione a causa degli attacchi subiti.

Alle ore 14 del 16 settembre la situazione era la seguente: l’ “U-507” aveva

a bordo 15 donne e bambini, 163 Italiani e rimorchiava 7 scialuppe con 320 tra

Inglesi e Polacchi; Schacht imbarcava 129 Italiani, un ufficiale inglese, 15 donne

e 16 bambini e teneva a rimorchio 7 scialuppe con 330 uomini tra i quali 35 Italiani.

Ricevuto l’ ordine di far passare tutti sulle scialuppe in attesa dei Francesi, Schacht

prende tempo, cioè non obbedisce (!).

Alle ore 16,53 era in vista il “Cappellini” con molti naufraghi, per lo più

Italiani, i quali avevano raccontato che su 1800 prigionieri 1400 erano stati

trascinati a fondo dalla nave non avendo potuto abbattere i cancelli delle stive; 400

erano riusciti a forzare le sbarre e avevano lottato per salire sulle imbarcazioni. Il

sommergibile imbarcava 49 Italiani e 19 tra Neo-Zelandesi, Inglesi e Polacchi

sistemati sulla coperta.

Intanto l’ ammiraglio Dönitz continuava a dibattersi con i suoi problemi, non

era affatto contento della piega degli avvenimenti ma esitava ad ordinare l’ abbandono

dei naufraghi. Formulava infine un preciso ordine operativo: proibizione

assoluta per l’ avvenire di ogni tentativo di salvataggio di naufraghi e in nessun

caso imbarcare gente già in mare, nè raddrizzare imbarcazioni capovolte, nè

distribuire viveri; dovevano esser fatti prigionieri soltanto i comandanti e gli

ufficiali. Era l’ ordine noto in codice come “Triton Null” che al processo di

Norimberga gli avrebbe costato 10 anni di carcere.

Il 17 settembre, alle prime ore del mattino, arrivava sul posto l’ incrociatore

“Gloire” che , avvistata la vela rossa di un’ imbarcazione, prendeva a bordo 52

Britannici, tra i quali una donna. In mattinata giungeva anche l’ “Annamite”.

Nel primo pomeriggio il “Gloire” incrociava l’ “U-507” che aveva a bordo

soltanto Italiani avendo dovuto mollare le scialuppe. L’ “Annamite” imbarcava gli

Italiani dei sommergibili, in tutto 306 uomini, e 9 donne e bambini, tutti in

condizioni pietose. Era poi il momento del “Gloire” che rastrellava qua e là diversa

gente operando fino al calar delle tenebre. In piena notte, sulla via del ritorno,

incappava miracolosamente in una scialuppa con a bordo 84 naufraghi, per lo più

Italiani, e una donna.

Il mattino seguente l’ incrociatore accostava l’ “Annamite”, che era sovraccarico,

proprio quando le due navi venivano sorvolate da due aerei Liberator seguiti

da un terzo, provocando grande tensione. Questa volta non succedeva niente e si

poteva procedere alle operazioni di trasbordo al termine delle quali il “Gloire”

veniva a trovarsi con 373 Italiani, 597 Inglesi, tra i quali 48 donne e bambini, 70

Polacchi, 1 Greco, in tutto 1041 persone affollate intorno ai 750 membri dell’ equipaggio.

L’ unità rientrava a Dakar nella mattinata del 21 settembre e quattro giorni

dopo era a Casablanca.

Il sommergibile “Cappellini” mancava l’ incontro con i Francesi per cui si

stabiliva un rendez-vous col “Dumont d’ Urville” che, tra l’ altro salvava anche i

naufraghi di un altro siluramento. Il sommergibile italiano sbarcava i naufraghi

tenendo a bordo 2 ufficiali inglesi e 6 italiani in grado di fornire notizie utili.

Per altri il dramma continuava: il 21 ottobre si trovava in mare ancora una

scialuppa con 4 superstiti sui 51 inizialmente imbarcati. Si trattava della lancia di

testa di quelle rimorchiate dall’ “U-156” al momento dell’ attacco da parte dell’ aereo

americano. I 4, già dati per morti, venivano fortunosamente salvati da una nave

inglese.

Aveva così termine la tragica odissea del piroscafo “Laconia” al centro di un

episodio della guerra marittima senza precedenti senza conseguenti. Su 2732

uomini e donne imbarcati, venivano portati in salvo 1111, ma alcuni morivano

successivamente in ospedale. Scampavano alla morte 450 circa degli Italiani (su

1800),73 Polacchi (su 103), 538 Britannici. Avrebbero potuto essere di più senza

lo sconsiderato e inutile attacco degli Americani.

L’ operazione – notevole anche per l’ encomiabile tentativo di far prevalere

lo spirito umanitario nel corso di una guerra spietata – era durata 5 lunghi

drammatici giorni. Gli ammiragli Dönitz, tedesco, Darlan, francese, e Parona,

italiano, non avevano esitato a fare di tutto esponendo le loro navi al massimo

rischio mentre gli Inglesi non si muovevano; gli Americani non avevano capito

nulla nel bombardare quelli che stavano sotto il loro aereo e non risulta che abbiano

ricercato responsabilità o dato spiegazioni.

 

I tre sommergibili tedeschi, tornati alle loro missioni , non sono sopravvissuti

alla guerra, affondati tutti e tre con i loro equipaggi nel corso del 1943.

 

——

 

Fonti

 

Colin Simpson

Il Lusitania – Un grande giallo vero, Rizzoli 1974

C.L.Droste ,R.Prinzhofer

Il caso Lusitania, Mursia 1974

Jochen Brennecke

Il caso Laconia, Baldini & Gastoldi 1964

Léonce Peillard

Il caso Laconia, Garzanti 1963

 


                                        

                                             alcuni sopravvissuti del Laconia

 

16 Agosto 2008 / v06
 

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