DOCUMENTI E TESTIMONIANZE
n queste pagine sono raccolti e si raccoglieranno documenti e testimonianze, sia di attualità che storici, relativi alle battaglie che si combatterono a nord di Qattara; sia di memorie, con i racconti degli uomini che vi parteciparono; sia polemici, con ricerca e analisi di come vennero presentati i fatti; sia di carattere documentale, con bibliografie e quant'altro si ritiene possa essere di interesse per il lettore. Queste pagine verranno aggiornate e aumentate man mano che ve ne sarà l'occasione e il tempo, e naturalmente la collaborazione alla loro compilazione è aperta a tutti i lettori.
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI
DI TRIESTE
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
Corso di Laurea Specialistica
in Scienze Politiche
DA EL ALAMEIN A TAKROUNA
Le tappe del ripiegamento
italo – tedesco
(Novembre 1942 – Maggio
1943)
Laureando
Relatore
Fabio
Sgambati Prof. Raoul
Pupo
Esperto
Esterno
Correlatore
Mauro Depetroni
Prof. Georg Meyr
Anno Accademico 2006 – 2007
INDICE
PREFAZIONE
pag. 1
Capitolo I
L’ESERCITO ITALIANO
ALLA VIGILIA DEL CONFLITTO
MONDIALE
La riforma Pariani
pag. 3
I comandi militari e
la classe ufficiale pag. 7
I mezzi corazzati e
gli armamenti pag. 11
Capitolo II
OPERAZIONI IN AFRICA
SETTENTRIONALE
SINO ALLA BATTAGLIA DI EL
ALAMEIN
L’avanzata sino a Sidi
el Barrani pag. 27
La controffensiva
britannica pag. 32
L’arrivo dei rinforzi
germanici pag. 36
L’operazione Crusader
pag. 39
L’ultima avanzata
italo tedesca pag. 42
Le tre battaglie di el
Alamein pag. 50
Capitolo III
LA PERDITA DELLA
LIBIA E
L’INGRESSO IN TUNISIA
La perdita della
Tripolitania pag. 57
Il ripiegamento sulla
linea del Mareth pag. 71
Capitolo IV
OPERAZIONI MILITARI IN
TUNISIA
Operazioni
“Frűhlingwind” e ”Morgenluft” pag. 77
Azione Capri
pag. 81
La
battaglia del Mareth pag. 86
Ripiegamento sulla linea degli Chotts pag. 96
La
battaglia degli Chotts pag. 101
Ripiegamento sulla linea di Enfidaville pag. 106
Capitolo V
TAKROUNA
La linea di
Enfidaville pag. 112
La
situazione politico strategica pag. 118
Il
caposaldo di Takrouna pag. 126
La
riconquista di Takrouna pag. 133
La fine
della guerra d’Africa pag. 146
CONCLUSIONI
pag. 155
Allegati
·
Relazione di
Messe riguardante la battaglia di Mareth pag. 164
·
Relazione di
Messe riguardante la battaglia di Enfidaville pag. 185
·
Tabella
comparativa dei gradi militari pag. 197
·
Piccolo
dizionario arabo pag. 198
BIBLIOGRAFIA
pag. 199
In ricordo del Sottotenente Cesare Andreolli,
del Generale Rolando Giampaolo e di tutti coloro che combatterono sino
all’ultimo respiro in terra d’Africa.
PREFAZIONE
Durante il secondo conflitto
mondiale lo scenario bellico dell’Africa Settentrionale fu sicuramente uno dei
più combattuti da entrambi gli schieramenti con sacrifico e valore. Le
operazioni militari che per più di due anni devastarono il suolo africano, in
particolare quello libico, costarono migliaia di caduti non solo agli
appartenenti delle forze armate ma anche ai civili italiani che dal 1911
risiedevano nella ormai famigerata “quarta sponda”. L’Italia impegnò a fondo le
proprie risorse economico militari per far pendere a proprio favore le sorti
degli scontri, che avrebbero dovuto portare le armate dell’Asse sin sulle rive
del Nilo ponendo così fine all’influenza britannica sull’ Egitto.
La bibliografia in merito a
tali eventi è davvero ampia e molti storici, delle più svariate nazionalità,
hanno affrontato con “taglio” diverso gli eventi, offrendo un’ottima panoramica
capace di concedere al lettore una visione imparziale e critica di quella
“parte” di conflitto. Risulta però ancora interessante riscoprire le memorie di
chi in prima persona ha rischiato la propria vita nell’adempimento del proprio
dovere, al fine di poter comprendere ancora una volta di più i drammatici eventi
che hanno caratterizzato la storia italiana. Il lavoro che mi accingo a
presentare non è altro che uno studio frutto dell’analisi della memorialistica
inedita
messami gentilmente a disposizione dall’Associazione Nazionale Paracadutisti
d’Italia sezione di Monza, di cui ringrazio il presidente Francesco Crippa,
dalla signora Lucilla Andreolli( figlia del sottotenete Andreolli), dal signor
Rolando Giampaolo( figlio del tenente Rolando Giampaolo) e dal Centro Regionale
Studi di Storia Militare Antica e Moderna di Trieste, senza i quali questo
lavoro non sarebbe stato possibile. Per completezza si sono inoltre consultate
le fonti telematiche dell’ Official History of New Zeland in the second world
war 1939-45 Dall’analisi di queste fonti si è voluto approfondire in
particolare modo gli scontri svoltasi a Mareth e nei pressi dell’altura di
Takrouna, in Tunisia, che la storiografia maggiore ha in qualche modo
tralasciato viste la ormai già delineata situazione del conflitto in terra
d’Africa, ma che comunque si caratterizzarono per l’alto spirito di sacrificio
di chi ne prese parte.
L’africa settentrionale fu un
teatro operativo particolare, sia per le difficilissime condizioni ambientali,
ma anche perché più di una volta, l’esito degli scontri diedero allo
schieramento italo – tedesco l’impressione di una marcia trionfale verso il
delta del Nilo.
Prima d’iniziare l’analisi
delle fonti, per far comprendere meglio gli episodi che potarono agli scontri di
Takrouna andrò a descrivere sommariamente la situazione delle forze armate
italiane all’inizio del conflitto e le operazioni militari compiute sul fronte
nord-africano fino all’ingresso in Tunisia da parte di ciò che restava
dell’armata italo tedesca in Africa.
CAPITOLO I
L’ESERCITO ITALIANO ALLA
VIGILIA DEL CONFLITTO MONDIALE
LA RIFORMA PARIANI
La seconda metà degli anni
trenta vide l’Italia impegnata su due fronti, quello etiopico e quello spagnolo.
Lo sforzo economico militare sia nella guerra contro lo stato del Negus che
contro l’esercito repubblicano spagnolo risultò enorme sotto tutti i punti di
vista. Nonostante tutto l’esito vittorioso conseguito in entrambi le imprese
accrebbe la popolarità sia sul piano interno che su quello internazionale del
regime guidato da Benito Mussolini.
La reputazione guadagnata dal
regime con la fondazione dell’Impero e con l’affermazione del governo franchista
in Spagna produsse però un notevole indebolimento delle forze armate italiane,
che in tempi brevi non avrebbero assolutamente potuto sostenere un ennesimo
sforzo bellico a livello europeo.
Gli impegni sostenuti
dall’Italia però contribuirono anche a modernizzare, sviluppare e sperimentare
nuove tecniche militari. Infatti proprio durante l’impegno del Corpo Truppe
Volontarie in Spagna si sviluppò, almeno a livello teorico, il concetto di
“Guerra di rapido corso”, consistente in un insieme di operazioni basate sul
rapido movimento delle forze schierate, che andava così a contrapporsi alla
“guerra di posizione” che aveva invece caratterizzato la prima guerra mondiale.
In Italia il totale abbandono
della guerra di trincea però non avvenne mai, anche perché gli sforzi che si
sarebbero dovuti produrre per una massiccia modernizzazione dell’esercito
risultavano insostenibili per il paese.
Nonostante tutto una riforma
venne avviata e affidata al Generale Pariani, Sottosegretario di Stato al
Ministero della Guerra dal 1936 al 1939, che s’impegnò profusamente per avviare
un mutamento del Regio Esercito, mirante alla sua modernizzazione.
Tale sforzo si concretizzò
nella cosiddetta “Riforma Pariani” varata nel 1938, con la quale le divisioni
ternarie furono sostituite con quelle binarie. La “vecchie” divisioni ternarie
erano così chiamate perché improntate su tre reggimenti di fanteria e uno di
artiglieria, quest’ultimi articolati a loro volta su quattro gruppi, mentre le
“nuove” divisioni binarie erano organizzate su due reggimenti di fanteria e uno
di artiglieria, articolato a sua volta in tre gruppi. Tutto questo si tradusse
in un alleggerimento delle unità che sarebbero così risultate più agili e
manovrabili.
Però se i comandi italiani da un lato potevano disporre di forze veloci sul
campo dall’atro essi si trovarono a dover manovrare con divisioni numericamente
inferiori e quindi più deboli, con una conseguente minor capacità di ingaggio
nei confronti del nemico.
Ma questo aspetto passò in
secondo piano visto che la riforma incontrò il forte consenso di molti ufficiali
maggiori che videro nel nuovo assetto non una maggiore efficacia dell’esercito
ma bensì una possibilità di fare carriera: infatti con l’aumento del numero di
divisioni sarebbe aumentato anche quello dei generali di divisione, titolo
ambito da molti e che conferiva un certo prestigio. Poco lungimirante infine si
dimostrò anche il fronte politico che appoggiando la riforma si preoccupò
solamente di poter contare, almeno nominalmente, su un maggior numero di
divisioni che sarebbero servite ad accrescere il prestigio sul piano interno e
internazionale dell’Italia.
Non tutti però sostennero a
pieno la riforma Pariani, come si può leggere nel documento redatto in data
primo novembre 1939 sulla situazione del Regio Esercito:
La trasformazione dell’esercito attualmente in corso(passaggio
dall’ordinamento della divisione su 3 reggimenti fanteria e 4 gruppi artiglieria
e quello su 2 reggimenti fanteria e 3 gruppi artiglieria) – per la quale il Capo
di S.M. Generale ha espresso sempre parere decisamente contrario – infirma
gravemente l’efficienza delle unità complicandone al massimo la mobilitazione;
le divisioni binarie sono, poi, molto leggere e dispongono di artiglierie da
75 e da 100 mentre le divisioni dei principali Stati moderni hanno calibri da
105 e 150.
Concentrandosi sui dati
numerici possiamo affermare che le “nuove” divisioni binarie che si vennero a
creare dopo la riforma Pariani potevano contare all’incirca su 13.500 uomini,
nei cui ranghi era inquadrata anche una legione di camicie nere articolata su
due battaglioni.
Più specificamente le
divisioni che sarebbero poi state impegnate nel secondo conflitto mondiale
risultavano composte da:
·
Due reggimenti
di fanteria su tre battaglioni, una compagnia mortai da 81 ed una compagnia
cannoni da accompagnamento da 47/32;
·
Un battaglione
mortai su due compagnie da 81 ed una da 45;
·
Una compagnia
cannoni controcarro da 47/32;
·
Un reggimento
d’artiglieria su tre gruppi: uno da 100/17, uno da 75/27 e uno da 75/13;
·
Una batteria da
20 mm. su sei pezzi;
·
Un posto
aerologico;
·
Un battaglione
misto del genio su una compagnia artieri, una trasmettitori ed una
fotoelettricisti;
·
Una sezione
sussistenza ed una di sanità
Durante le operazioni in
Africa settentrionale questo modello verrà però riadattato dallo Stato Maggiore
Esercito visto che le particolari condizioni tattico ambientali richiedevano
l’utilizzo di divisioni sempre più manovrabili e capaci di percorrere medie e
lunghe distanze in breve tempo.
Presero così forma le
divisioni di fanteria A.S
’42, i cui componenti scendevano da 13.500 a 7.000, così ripartiti:
·
Due reggimenti
di fanteria su tre battaglioni e una compagnia mortai da 81
·
Un reggimento
di artiglieria campale su quattro gruppi, un gruppo contro carro e contro aereo
e due batterie da 20 mm.
·
Un battaglione
misto genio
·
Una sezione
sussistenza ed una di sanità
La seconda guerra mondiale
sottolineerà in maniera drammatica la scarsa validità del nuovo ordinamento
militare, causato da una limitata modernizzazione delle forze armate, carenti di
automezzi, carri armati e artiglieria.
Con la riforma Pariani
l’esercito fu trasformato in superficie, rispondendo più a esigenze politico
economiche che a reali esigenze operative.
Infine la mancata discussione
da parte dei più alti vertici militari su campi minati e sulle possibili
battaglie fra carri,
elementi fondamentali nella campagna d’Africa e durante tutta la seconda guerra
mondiale, contribuirono a una impreparazione delle forze armate italiane che si
trovarono quasi sempre in forti condizioni di inferiorità rispetto al nemico.
I COMANDI MILITARI E LA
CLASSE UFFICIALE
Le operazioni militari non
misero solo in evidenza l’inadeguatezza della riforma varata nel 1938, ma anche
l’inefficienza e incompetenza degli alti comandi italiani. A tal proposito
risulta interessante notare come nel periodo precedente al secondo conflitto
mondiale il gruppo dirigente delle forze armate restò sostanzialmente invariato,
tanto che l’età media dei maggiori comandanti dell’esercito e della marina si
aggirava intorno ai sessanta – sessantacinque anni
.
Quindi un cambio radicale dei
generali causato da scelte e valutazioni errate non avrebbe purtroppo mutato
sensibilmente il corso della guerra, anche perché le classi di alti ufficiali e
dei generali al comando godevano di un enorme appoggio da parte della classe
politica che rendeva quindi ancora più difficile la loro rimozione.
Per quanto riguarda invece
gli ufficiali subalterni è importante fare una distinzione: gli ufficiali erano
di due tipi, quelli in servizio permanente effettivo (s.p.e.) e quelli di
complemento (a.u.c.).
Gli ufficiali del primo tipo
risultavano discretamente preparati, perché provenienti dall’accademia o da
altro tipo di promozione a ufficiale e soprattutto perché militari di
“professione”, che avevano maturato nel periodo di formazione e di servizio una
certa attitudine al comando.
Purtroppo il numero di questi
ufficiali risultava alquanto esiguo, infatti il Regio Esercito che poteva
contare su circa 1.600.000 uomini, di cui 600.000 oltremare, disponeva
mediamente di uno o due ufficiali in s.p.e. per battaglione e di uno o due
sottoufficiali di carriera per compagnia.
Tutto ciò si concretizzava in una inadeguata azione di comando con una
conseguente mancanza di coordinazione tra le varie unità presenti sul campo.
Ovviamente questo scarso
numero di ufficiali risultava soggetto a una forte diminuzione e a un difficile
rimpiazzo man mano che la guerra proseguiva.
Diversa invece la situazione
per quel che riguardava gli ufficiali di complemento. Dal 1923 i giovani
diplomati e laureati dovevano obbligatoriamente partecipare ai corsi A.U.C., i
cui percorsi addestrativi fornivano la formazione di base per il comando. Ma
come scrive giustamente lo storico Montanari i mesi di effettivo comando
dell’allievo ufficiale erano sei sui diciotto della ferma,periodo questo troppo
ridotto per mettere in condizione un ufficiale di comandare con efficienza e
sufficiente coordinazione la propria unità. Infatti l’attitudine al comando, se
non è una dote naturale, si acquisisce con addestramento ed esperienza.
Rochat invece mette in
evidenza come la mancanza di fondi fosse un elemento determinante per la
inadeguata formazione della classe ufficiale.
Al di là di queste due
posizioni, che possono essere complementari, due sono gli elementi da
sottolineare: dal 1936 i corsi A.U.C. aumentarono in maniera esponenziale,
superando le 15.000 unità, mettendo in atto la normativa sopraccitata del 1923.
Per quel che riguardava
invece gli ufficiali richiamati in servizio, il rapporto riservato inviato a
Mussolini il 27 settembre 1939 affermava:
Per gli ufficiali richiamati, salvo rare eccezioni, si può in breve dire: “
scarsissima ne è la preparazione professionale (molti congedatisi da
sottotenente si trovano oggi capitani); poco elevato il sentimento militare;
spirito di sacrificio e di abnegazione insufficienti – eccessiva è la
preoccupazione per le famiglie e le faccende private; senso di stanchezza: non
pochi sono per la seconda o terza volta distolti dalle loro occupazioni
ordinarie in breve volgere di anni; apatia per il servizio con ripercussioni
sfavorevoli sulla compattezza disciplinare dei reparti; freddezza per
l’eventualità di guerra; poca consapevolezza e dignità del grado – di cui un
elemento esemplificativo caratteristico è la indifferenza alle forme esteriori:
non si saluta, non si pretende ne si rende il saluto; eccessiva familiarità tra
i superiori e inferiori e anche fra ufficiali e soldati che non è ben inteso
cameratismo, ma evidente violazione del rapporto gerarchico,; scorrettezza
nell’uniforme e nel tratto – divise più diverse per colori e fogge – non è raro
il caso di ufficiali che in pubblica strada abbiano la giubba sotto il braccio,
la bustina o il berretto in mano oppure la giubba sbottonata e le maniche
rimboccate; ufficiali che si chiamano a gran voce a distanza in pubblica strada
affollata.
In conclusione: impreparazione professionale e ineducazione disciplinare e
spirituale.
Ad aggravare le conseguenze che questo stato di cose comporta nell’efficienza
disciplinare e addestrativa dei reparti concorre la mancanza di ufficiali in
S.P.E. che nella maggior parte dei corpi sono ridotti a 1/8 del totale.
Particolare risultava infine
anche la posizione di tutti coloro che avevano prestato servizio come ufficiali
di complemento durante la prima guerra mondiale e che si trovarono vent’anni più
tardi, con evidenti difficoltà, al comando di un battaglione. A tal proposito
risulta interessante la testimonianza del maggiore Caccia Dominioni, comandante
del XXXI genio guastatori e ufficiale durante la prima guerra mondiale:
Il maggiore riflette. In complesso egli ne sa molto meno dei suoi ufficiali:
non saprebbe rispondere a diverse domande rivolte ai futuri sergenti. Fa l’esame
di coscienza. Sente di essere un buon soldato, ma mediocre di preparazione,
restato alle sue esperienze di molti anni prima: era assai inquieto quando
l’avevano mandato a comandare un reparto come il 31°, ma ha trovato tre
comandanti di compagnia eccellenti, e il suo compito s’è alleviato. Intanto, con
l’aumentato senso di sicurezza, è cresciuta anche la sua boria, ma si chiede
come se la caverà con la prova del fuoco.
È mediocremente pauroso? È mediocremente coraggioso? Non lo sa. Le esperienze
del Carso sono lontanissime, quelle etiopiche insignificanti.
Quindi pur distinguendosi per
il loro valore e coraggio gli ufficiali di complemento, che comunque ricoprivano
un ruolo importante nell’organigramma dell’esercito italiano, risultavano meno
abituati all’esercizio del comando.
I MEZZI CORAZZATI E
GLI ARMAMENTI
I mezzi corazzati ebbero un
ruolo fondamentale in Africa, sia per la particolare natura del territorio, sia
per le esigenze della nuova “guerra di movimento”. Purtroppo anche questo
aspetto mise in luce l’assoluta impreparazione e inadeguatezza delle forze
italiane, frutto sopratutto di un mancato investimento mirante allo
svecchiamento e modernizzazione del parco mezzi in dotazione all’esercito.
Infatti le divisioni corazzate e battaglioni carri schierati nel deserto
libico, che sino alla fine degli anni trenta potevano ancora risultare
competitivi, apparvero del tutto incapaci di tener testa al nemico durante il
conflitto.
I primi mezzi che presero
parte agli scontri africani furono i carri veloci L3 e i carri medi M11/39. Gli
L3 erano dei piccoli carri da 3,2 tonnellate, con scarsa capacità di fuoco,
sviluppati e ideati per combattere in ambito alpino e montagnoso. Visto il loro
proficuo utilizzo durante la guerra di Abissinia,ben
4 anni prima, i comandi italiani ebbero la presunzione di volerli utilizzare
con compiti di “rottura” nei confronti delle divisioni di fanteria nemiche. Il
risultato fu pessimo, non solo per l’incapacità del carro di poter svolgere tale
funzione contro reggimenti provvisti di armi anticarro, ma soprattutto perché le
deboli corazzature degli L3 potevano essere facilmente penetrate anche da
qualsiasi mitragliera e a breve distanza persino dalle armi individuali del
nemico.
Per quel che riguarda invece
L’ M11/39, esso poteva essere considerato il primo carro medio italiano,
con un peso di 11 tonn. e armato con un cannone da 37 semiautomatico in
casamatta e due mitragliatrici da 8 in torretta.
Purtroppo neanche questo
carro si dimostrò all’altezza della situazione e i suoi grossi limiti furono lo
scarso armamento, la mancanza di una corrazzatura adeguata e una potenza di
fuoco non all’altezza della situazione.
Ciò nonostante, anche se con
ritardo, i comandi italiani non restarono a guardare e corsero ai ripari,
cercando di fornire alle divisioni corazzate un carro adeguato alle esigenze di
guerra. Scartata l’ipotesi di fabbricare su licenza tedesca il carro Panzer III,
a causa del sodalizio economico tra Ansaldo e F.I.A.T. che si arrogarono
l’esclusiva di progettare e fabbricare mezzi per il regio esercito, venne varato
il carro medio M 13/40. Le migliorie apportate su questo nuovo modello si
dimostrarono migliori del suo predecessore, ma si dimostrarono comunque
inferiori a quelle dei carri alleati.
Nemmeno l’ultima evoluzione,
l’M 14/41, che in ultima analisi si differenziava dal suo predecessore solamente
per un maggior numero di cavalli nel motore, poté fronteggiare in maniera
adeguata gli inglesi.
Una conferma ulteriore delle
deficienze e della fragilità del carro M si possono chiaramente vedere nella
relazione esposta da un ufficiale carrista e riportata qui sotto :
In definitiva si tratta di un carro dotato di un motore che certamente
avrebbe funzionato bene in territorio metropolitano con il peso di 8 tonnellate
per il quale era stato ideato, ma che in territorio africano, con il ghibli, la
sabbia, le altre avverse condizioni climatiche a tutti note e l’aggiunta di
altre 6 tonnellate è assolutamente inidoneo nonostante le cure e gli
accorgimenti usati per farlo funzionare.
I reparti carristi che debbono operare sotto il fuoco nemico non possono e
non debbono avere la preoccupazione che il loro mezzo non si metta in moto, che
spacchi con ingiustificabile frequenza il cambio, che si vuoti di acqua o che
perda olio e che quando a prezzo di stenti, di rimorchi e di ripieghi si è
avviato debba procedere solo in prima o seconda velocità con acrobazie di
pilotaggio inidoneo ad offendere e difendersi.
Nell’azione del giorno 17 a quota 209 ad Ovest di Tobruk si è salvato solo il
carro che, più efficiente degli altri, ha potuto marciare in terza evitando di
costituire facile preda del tiro nemico.
Si ritiene quindi che il carro M 13 perché possa veramente esplicare l’azione
che da essi tutti si attendono debba essere dotato – senza ricorrere a ripieghi
di sorta, tipo rialesature – di un motore potente ed efficiente degno della
nostra industria automobilistica che in tale campo non dovrebbe essere seconda a
nessuno.
Poco rassicurante risulta
ancora la descrizione dei mezzi corazzati che ci da Caccia Dominioni, nella qual
traspare in maniera inequivocabile l’inferiorità del parco mezzi corazzati
italiano:
La corazza del nostro M 13 varia dai 15 a 30 millimetri, contro i 57
millimetri del carro Grant: la sua velocità oraria massima, su strada, è di
trenta chilometri, il suo cannoncino da 47 può servire tutt’al più contro
qualche antico modello che il nemico ha da tempo giubilato, mentre l’industria
bellica italiana insiste serenamente a costruire in serie i tipi superatissimi
del tempo di pace. Dal carro M 13/40 al successore M 14/41, in un anno di tempo
è stata aumentata la corazza laterale di 5 millimetri, e la velocità su strada
di qualche chilometro. L’autonomia è stata portata da duecento chilometri a
duecentoventi. Nello stesso periodo tedeschi e inglesi hanno prodotto sempre
nuovi modelli, in poderoso aumento di potenza, a immediato contatto con
l’esigenza imposta dal campo di battaglia.
Inglesi e tedeschi hanno trovato, in perfetto accordo tra loro, una stessa
definizione del nostro carro: bara d’acciaio.
L’unico mezzo che diede una
buona prova fu il semovente 75/18.
Questo materiale semovente, verosimilmente efficace, è in sostanza il carro
M13 che monta un obice da 75/18. la torretta è parte della sovrastruttura del
carro sono state eliminate e sistemata una nuova corazza frontale, come pure
lamiere laterali senza il portello d’ingresso. La camera di combattimento è
coperta da una lamiera di 9,9mm. In ordine di combattimento, il pezzo pesa circa
11 tonnellate. Lungo 5,06 m., largo 2,20m. e alto 1,85 m., presenta una sagoma
alquanto schiacciata. Il motore, inconsueto, è a gasolio: cioè brucia una
miscela di benzina e petrolio. Su strada, l’autonomia è di 200 Km. si ignora
quella in terreno vario. La corazzatura è robusta . frontale 25mm rinforzata con
un'altra piastra da 25mm, laterale25 mm. L’equipaggio è di tre uomini. Il
cannone ha un brandeggio di 45° e un elevazione da -15° a +25°. È lungo 18
calibri e ha una gittata di 7,6 Km. Le munizioni comprendo una granata ordinaria
da 6,3 Kg., una perforane da 6,39Kg. Una riservetta di 29 colpi è presente, ma
molti altri possono essere stivati.
Questo pezzo di artiglieria
venne invece usato come un vero e proprio carro armato in quanto il cannone che
montava era capace di perforare qualsiasi corazza.
Questa la testimonianza del
comando del 132° reggimento artiglieria corazzata :
Nei fatti d’arme a cui abbiamo partecipato, il gruppo ha svolto azione
d’appoggio per batterie e di accompagnamento per pezzo, attenendosi per quanto
possibile alle norme emanate dall’Ispettorato, norme che sono state inviate in
visione al Comandante dell’artiglieria dell’Ariete. In complesso, il semovente è
stato giudicato una felice attuazione, maneggevole (assai più del carro medio),
poco visibile, capace di svolgere azioni fino alle medie distanze e poi di
frammischiarsi con i carri e di combattere con loro.
I problemi però non si
fermarono solamente ai mezzi corazzati, ma anche la parte logistica risultava
fortemente deficitaria.
Come già detto la natura del
territorio e le nuove tecniche di conduzione della guerra costringevano le
truppe ad appoggiarsi alla motorizzazione per poter fronteggiare il nemico, al
fine di poterlo inseguire adeguatamente in caso di avanzata o per potersi
ritirare velocemente in caso di offensiva nemica.
Purtroppo tale conduzione
della guerra avrebbe necessitato di un numero ben maggiore di autocarri rispetto
a quello messo realmente a disposizione delle varie divisioni.
Consapevole ne era anche il
ministero della guerra che il 25 maggio 1940 annotava:
Coi provvedimenti in corso, e con altri in via di proposta, al 10 giugno le
forze della madrepatria continentale, Sicilia e Sardegna, saranno approntate […]
circa gli autocarri comunico:
·
Per mobilitarsi al completo l’Esercito deve requisire, in cifra
tonda, 20.500 autocarri.
Quelli esistenti in paese ed in condizioni di essere utilmente requisiti sono
16.500, di cui 3.900 esonerati. Restano disponibili per l’Esercito 12.600 circa;
·
Ne deriva che anche requisendo tutti gli autocarri efficienti e
requisibili l’Esercito si trova in deficienza di quasi la metà.
Allo stato attuale delle cose, con le requisizioni effettuate e preventivate
(circa 8.000 autocarri) e raggiungendo le proporzioni di cui sopra si avranno
bensì le truppe e alcuni servizi in condizione di vivere e di combattere
staticamente, ma non in condizione di operare in movimento.
Per poter permettere ciò occorrerebbe completare( come automezzi) le unità e
contemporaneamente costituire, sia pure in formazione ridotta, gli autoreparti
di C. d’A. e gli auto gruppi di armata e del’A.C.E..
Per l’attuazione dei provvedimenti di cui sopra sono soltanto disponibili, in
via teorica, 4.500 automezzi ( 12.500 – 8.000 ) con i quali non solo non è
possibile aumentare la percentuale delle unità,ma non si possono neppure
costituire tutti gli auto gruppi previsti, per i quali soltanto occorrerebbero
6.500 automezzi.
La situazione diviene ancora più seria, ove si consideri che la disponibilità
pratica degli autocarri requisibili sarà sensibilmente inferiore al previsto (
4.500 ), in causa dei ritardi nella presentazione, riparazione, ecc..
Per migliorare la situazione ( non per risolverla integralmente ) non si vede
altro mezzo che quello di requisire non solo gli autocarri requisibili e non
ancora requisiti, ma anche i 3.900 autocarri attualmente esonerati, o almeno
3.000 di essi.
A soffrirne maggiormente
ovviamente furono tutti coloro che impegnati in prima linea patirono la mancanza
dei più elementari rifornimenti come acqua cibo e carburante.
Esauriente a tal proposito
risulta la ricostruzione di un ufficiale, riportata da Montanari, che afferma:
L’organico del Btg. Non corrisponde affatto né in mezzi né in uomini alle
necessità della guerra in colonia […] Nel Btg. per servire 46 carri armati con
184 combattenti vi sono circa 170 uomini con 15 automezzi. Detti autocarri sono
appena sufficienti a trasportare i 170 uomini; come si trasportano tutti i
materiali, le parti di ricambio, il carburante, i lubrificanti, l’acqua e i
viveri per centinaia di chilometri e per decine di giorni?
nel Btg. M 13 esiste un officina con la squadra riparazione e ricuperi di 21
uomini, dei quali in realtà appena due o tre sono dei meccanici meritevoli di
tale nome[…].
Ancora più imbarazzante
risultava invece il paragone con l’alleato germanico, che pur incontrando le
stesse difficoltà di quello italiano risultava meglio equipaggiato. Questa la
testimonianza riportataci sempre da Montanari:
Dopo l’occupazione di Mechili, il maggiore tedesco comandante della colonna
della quale avevo fatto parte per due giorni, saputo che avevo raggiunto tale
località con 14 carri su 40 così esprimeva:
‹‹avete fatto un miracolo con i
vostri mezzi primitivi! Io ne ho portati 8 su 64››.
Però si affrettava a soggiungere che, poche ore dopo, circa 50 carri lo
avevano raggiunto, ricuperati e riportati in linea dal suo servizio di ricupero
del Btg.; per gli altri non aveva preoccupazione perché il servizio di recupero
di reggimento avrebbe provveduto.
‹‹Il mio Btg. Riusciva a
ricuperare con inaudita fatica 6 carri che poi dovevano essere nuovamente
abbandonati nella tappa successiva››..
Diversa figurava invece la
situazione degli armamenti individuali. Il fucile mod.38 sarebbe dovuto essere
l’arma individuale usata dalla fanteria. Tale fucile derivante dal mod. 91,
usato in occasione della prima guerra mondiale, risultava più corto e con un
calibro maggiorato da 6,5 a 7,35). I fucili in calibro 7,35 si sarebbero
dimostrati una buona scelta e la nuove munizioni (che era caricata a
nitrocellulosa pura) avrebbero offerto prestazioni migliori potendo contare su
un tiro più teso, una maggiore velocità iniziale a pressioni inferiori ed una
minore dispersione di colpi, oltre cha a un maggior potere invalidante.
Nelle intenzioni la nuova
munizione 7,35X51mm avrebbe dovuto costituire il caricamento standard per fucili
e fucili mitragliatori, mentre le mitragliatrici pesanti avrebbero dovuto
impiegare la munizione 8X59mm. Gradatamente avrebbero quindi dovuto essere
rimodernati tutti i fucili di vecchia produzione, disponendo così con spesa
limitata, di materiale aggiornato ed al passo con i tempi. Ma con l’entrata
dell’Italia in guerra fu però evidente che si sarebbero prodotti notevoli
inconvenienti logistici dovuti sia alla contemporanea presenza in servizio di
armi individuali nei due calibri sia alla non totale distribuzione della nuova
arma a tutti i reparti.
I comandi decisero quindi di
rinunciare a dotare l’esercito del mod.38 in calibro 7,35 in favore del più
tradizionale e già in dotazione mod.91/38 in calibro 6,5.
Scelta questa che dotò i
soldati italiani di un arma individuale con un potenziale inferiore.
Nel ‘41 venne prodotta
un’ulteriore versione più corta e sempre con calibro 6.5, mentre alcuni reparti,
come quelli di cavalleria, ricevettero in dotazione il moschetto, più corto del
fucile mod. 91/38, ma sostanzialmente identico.
Per quanto riguardava gli
ufficiali e sottoufficiali essi potevano invece contare sulla pistola Beretta
mod. 34 cal. 9, piccola e compatta, un’ottima arma che garantiva un’affidabilità
elevata, tanto da essere ampiamente usata anche nel dopoguerra.
Le truppe italiane
disponevano inoltre del fucile mitragliatore “Breda 30” con calibro 6,5 e dal
peso di 10,6 Kg, e di tre tipi di mitragliatrici: la “Fiat 14” con calibro 6,5,
la “Fiat 35” con calibro 8, e l’ottima “Breda 37” anch’essa con calibro 8. Da
segnalare infine l’utilizzo persino della “Schwarzlose”, mitragliatrice di preda
bellica.
Migliore risultò comunque il
M.A.B. (moschetto automatico Beretta) 38A, buona arma, che in dotazione alla
Folgore fu utilizzato con pregevoli risultati dimostrandosi affidabile ed
efficace.
Per quel che riguarda invece
le bombe a mano esse erano di tre modelli: la S.R.C.M.,
la Breda e la O.T.O.
Tutte avevano la caratteristica di esplodere al contatto col terreno, questo
elemento però si dimostrò essere svantaggioso per l’impiego in Africa in quanto
il terreno soffice oltre a impedirne la detonazione poteva renderle degli
ordigni inesplosi pericolosi per entrambi gli schieramenti.
Le armi a tiro curvo erano
invece il mortaio d’assalto Brixia da 45 mm e il mortaio da 81 mm, entrambi
costruiti dal 1935. Il primo era usato per l’accompagnamento e l’arresto su
brevi distanze, il secondo era invece il classico mortaio con un gittata che
poteva raggiungere i 4 km.
Per quanto riguarda obici e
cannoni, bisogna elencare i pezzi per la fanteria da 65/17 e il pezzo da 47/32.
Quest’ultimo fu sicuramente il più usato, con funzioni di accompagnamento e
controcarro, e si dimostrò discreto agli inizi del conflitto, ma con
l’avanzamento tecnologico avversario, soprattutto in funzione controcarro, si
dimostrò inadeguato ed inefficace.
Superfluo invece è descrivere
i pezzi di artiglieria divisionale, di corpo d’armata e d’armata, basti dire
soltanto che i cannoni si dimostrarono spesso inadeguati e in numero
insufficiente.
Ricapitolando, le forze
armate lamentavano le seguenti deficienze, illustrate in questo documento
datato primo novembre 1939:
Regio Esercito
Deficienze essenziali:
1.
Quadri: gravi deficienze quantitative per gli ufficiali in
servizio permanente ( molte unità ne sono prive o ne hanno appena 1, spesso
subalterno soltanto) e qualitative per gli ufficiali di complemento
2.
Artiglierie: Tutte di materiale che risale al 1914 – 1918. solo
nel maggio 1940 si cominceranno ad avere nuovi materiali ( 14 batterie)
3.
Munizioni: Notevoli deficienze;
4.
Automezzi: Notevoli deficienze ( dal 10 al 50% per ogni grande
unità)
5.
Carri
armati: Mancano
carri leggeri per le divisioni tipo Libia e carri medi delle divisioni
corazzate. ( si avranno i primi 100 carri medi al 1° maggio 1940).
6.
Carburanti Disponibili solo per mesi 4 e ½.
7.
Vestiario ed equipaggiamento: Manca il fabbisogno per 15
divisioni, per la M.V.S.N., per la Dicat. Inoltre nessuna scorta
8.
Difesa contraerea: Deficienze gravissime. Sono disponibili., per
tutto il territorio della Madrepatria, appena 225 batterie antiquate, con scarse
munizioni. Nelle terre d’oltremare si hanno 30 batterie, pure antiquate e con
scarse munizioni, di cui 13 in Libia, 14 in Egeo e 3 in Albania. Per cominciare
ad avere i nuovi materiali si deve attendere l’estate 1940 e si avrà il
fabbisogno previsto, al completo, solo nell’estate 1942.
Regia Marina
Deficienze essenziali:
1.
L’aumento delle 4 corazzate nel 1940 non potrà costituire un apporto in
piena potenza, per ottenere la quale occorre trascorra almeno un anno di tempo
dall’entrata in servizio (addestramento, addestramento dei complicati organi,
specie artiglierie, materiali).
2.
Il quantitativo della nafta è scarso, anche ritenendo di poter sormontare
le gravissime difficoltà di rifornimento, occorre tenere conto che la capienza
complessiva dei depositi è ben poco aumentabile con le costruzioni in atto.
3.
per commisurare l’efficienza della difesa contraerea all’importanza
delle località militari e marittime è giudicato necessario potenziare detta
difesa con: 40 btr. da 90/50 – 200 p. (materiale modernissimo); 200 mitragliere.
Regia Aeronautica
Deficienze essenziali:
1.
Carburanti e
Lubrificanti
sufficienti per 2 mesi al 15 ottobre e poco più di 2 mesi al 1° maggio 1940.
2.
Munizioni di
caduta e di lancio
scorte sufficienti per 3 – 4 mesi.
3.
Personale
al 15 ottobre si ha una deficienza di 319 equipaggi; al 1° maggio la deficienza,
rispetto agli equipaggi addestrati al 15 ottobre, sale a 1124.
4.
Materiale
speciale di aeronautica:
Difettano autoveicoli (400 al 15 ottobre e 300 al 1° maggio); alcune officine
auto portate; alcune migliaia di fusti per manovra carburanti e lubrificanti.
5.
Difesa
contraerei: quasi
nulla per gli obbiettivi di interesse aeronautico (50 mitragliere da 20, 590
mitragliere da 8 di scarsa efficacia).
Esplosivi per le forze
armate:
la fabbricazione degli
esplosivi in tempo di guerra, per tutte e tre le forze armate, potrà consentire
di disporre soltanto della metà e dei ¾ del fabbisogno, rispettivamente per gli
esplosivi di lancio e di scoppio, purchè giungano le materie prime. Qualora
queste non giungessero, la produzione si ridurrebbe, rispettivamente a 1/7 ed a
poco meno della metà.
Il tutto si riflesse
immediatamente sui primi soldati richiamati, come conferma questo rapporto
riservato datato 11 settembre 1939:
La parziale mobilitazione iniziatasi negli scorsi giorni , e che è in corso
di completamento, ha fatto rilevare una strana disorganizzazione in tutti i
servizi militari. Il pubblico che è a conoscenza di tutti gli inconvenienti
verificatisi e che ancora si verificano, non fa che mormorare contro gli organi
responsabili. Molta gente non ha ritegno a dire a voce alta che siamo in pieno
caos, che in queste condizioni non possiamo fare una guerra e che l’esercito
assomiglia a quello di “franceschiello”, ecc..
E’ un fatto che anche i militari richiamati non fanno che lagnarsi: rancio
che non viene confezionato, mancanza di indumenti e di coperte, mancanza di
abiti, ecc.
Si vedono girare per la città soldati con la giacca sotto il braccio, altri
semi vestiti da militari e da borghesi; altri che non avendo trovato alloggio in
caserma o negli accantonamenti se ne sono andati a dormire al ricovero
“Massoero”.[…]
Nell’accampamento di Piazza Palermo il rancio di dieci soldati distribuito a
cento! Chi non trova posto sulla paglia va a dormire nei portoni e sulle aiuole!
Gli ufficiali si lagnano perché devono provvedere con denaro proprio ad ogni
spesa, compresa quella di cancelleria.[…].
Reparti dislocati verso la frontiera che non ricevono la razione pane perché
mancano forni militari! Che non hanno sussistenza sanitaria; che mancano di
tutto.
In alcuni reparti gli ufficiali sono stati costretti a pagare l’importo del
rancio con denaro per permettere ai soldati di andare all’osteria! Mancano
coperte, paglia, rancio, ecc..[…]
A Ceva molti alpini si sono assentati per qualche giorno per correre alle
proprie case a mangiare ed a dormire.
Con il passare dei mesi le
circostanze migliorarono, ma le condizioni restavano comunque critiche. Il
concretizzarsi di tale situazione era ovviamente da ricercarsi nel settore
economico produttivo italiano e sulla scarsità di materie prime. Come affermava
il Ministro delle Finanze Riccardi nel febbraio del 1940:
Mancano quindi all’appello 2 miliardi e 245 milioni. Per le riserve auree
esistenti questo è uno sforzo estremo. Perciò bisogna ridurre gli acquisti, i
fabbisogni non strettamente indispensabili per le spese militari e il fabbisogno
interno, perché Annibale non è alle porte, ma ha già varcato la soglia.
L’industria italiana è quella che è e, attratta dalle allettanti commesse di
carattere militare, non produce per esportare. Queste sono le ragioni che mi
spingono a perorare la causa delle limitazioni di consumo nel mercato interno.
[…] se non si esporta non si possono avere i mezzi di pagamento e perciò i
programmi debbono aderire a questa realtà. Noi, per esportare, non potendo
aumentare la produzione , dobbiamo ridurre i consumi interni, dobbiamo ridurre i
programmi […].
Ora questi problemi li affido alla comprensione dei camerati militari e mi
auguro che essi si compenetrino di questa realtà. O si hanno i mezzi per
acquistare le materie prime, altrimenti bisogna subire la situazione qual è. Non
ci sono più scorte in Italia; dall’epoca delle sanzioni si stanno bruciando le
riserve. Non c’è il gioco delle importazioni che si può fare solo attraverso una
politica di esportazione.
Era evidente quindi ce
l’Italia non sarebbe mai stata pronta, in breve tempo, per una conduzione
efficacie della guerra. A tal proposito le parole del Generale Favagrossa,
commissario generale per le fabbricazioni di guerra:
[…] E poiché dai dati in mio possesso non vedo la possibilità di assicurare
la quantità di materie prime necessarie per ottenere dagli impianti attuali e
futuri il massimo rendimento […]
Rappresento infine l’opportunità che le forze armate rivedano i dati forniti,
mantenendosi – sia per la parte che riguarda la preparazione di partenza come
per il fabbisogno di guerra di un anno – più aderenti alle possibilità delle
industrie ed ala disponibilità di materie prime.
Non è evidentemente possibile protrarre la preparazione di partenza fino al
1944, anzi fino al 1948 se si vuole avere prima di entrare in guerra le scorte
per almeno un anno: termini che sarebbero altresì superati qualora non si
disponesse delle materie prime necessarie per lo sfruttamento massimo degli
impianti.
Possiamo quindi evincere da
ciò come non solo le forze combattenti, ma anche quelle logistiche, che nella
conduzione di un conflitto hanno egualmente un ruolo fondamentale, risultassero
chiaramente mal equipaggiate e incapaci se non a prezzo di inestimabili
sacrifici a tener testa alle truppe nemiche.
La vittoriosa avanzata
tedesca in Europa spinsero comunque l’Italia ad entrare nel conflitto con la
consapevolezza di non essere adeguatamente pronti ma con la speranza che la
guerra sarebbe durata pochi mesi.
CAPITOLO II
OPERAZIONI MILITARI IN
AFRICA
SETTENTRIONALE SINO
ALL BATTAGLIA DI EL
ALAMEIN
L’AVANZATA SINO A SIDI
EL BARRANI
Il 10 Giugno 1940, come
proclamò Benito Mussolini dal balcone di palazzo Venezia, le dichiarazioni di
guerra furono consegnate agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna.
In quel momento l’Italia
disponeva di 73 Divisioni nelle quali erano inquadrati 106 reggimenti di
fanteria, 12 di bersaglieri, 10 di alpini, 12 di cavalleria, 5 di carri armati,
32 di artiglieria e 19 del genio: a questo potenziale di uomini si aggiungevano
circa 220 battaglioni di Camicie Nere, seguiti poi da atri 81 battaglioni
costieri, 51 territoriali e 29 compagnie costiere. Di tale novero, circa 85.000
uomini risultavano in forza alla Milizia Artiglieria Contro Aerei, inquadrati in
22 legioni.
La milizia Artiglieria Marittima, subordinata alla regia marina, si articolava
invece su 10 legioni.
In Africa settentrionale si
trovavano invece dislocate la 10a e la 5a armata.
La 10a armata,
comandata dal Generale di corpo d’armata Berti risultava composta da:
·
1a
Divisione coloniale libica (comandata dal Generale di divisione Sibille)
·
XXI° Corpo
d’armata (comandato dal Generale di corpo d’armata Dalmazzo) composto da:
o
62a
Divisione fanteria Marmarica (comandata dal Generale di divisione
Tracchia)
o
63a
Divisione fanteria Cirene (comandata dal Generale di divisione Spatocco)
·
XXII° Corpo
d’armata (comandato dal Generale di divisione Pitassi Mannella) composta da:
o
64a
Divisione fanteria Catanzaro (comandata dal Generale di divisione
Spinelli)
o
4a
Divisione M.V.S.N
(comandata dal Luogotenente Generale Marzari).
L’armata era schierata in
Cirenaica, regione più a ovest della Libia.
La 5a armata,
comandata dal Generale di corpo d’armata Gariboldi risultava invece composta da:
·
2a
Divisione coloniale libica (comandata dal Generale di divisione Pescatori)
·
X°
Corpo d’armata (comandato dal Generale di divisione Barbieri) composto da:
o
25a
Divisione fanteria Bologna
o
60a
Divisione fanteria Sabratha
o
55a
Divisione fanteria Savona
·
XX° Corpo
d’armata (comandato dal Generale di corpo d’armata Cona) composto da:
o
17a
Divisione fanteria Pavia
o
27a
Divisione fanteria Brescia
o
61a
Divisione fanteria Sirte
·
XXIII° Corpo
d’armata (comandato dal Generale di corpo d’armata Bergonzoli) composto da:
o
1a
Divisione Camicie nere 23 Marzo (comandata dal Luogotenente Generale
Antonelli)
o
2a
Divisone Camicie nere 28 Ottobre (comandata dal Luogotenente Generale
Argentino)
Questa armata era invece
dislocata nella parte centrale della Libia denominata Tripolitania.
A differenza di ciò che aveva
chiesto Mussolini questa forza si dimostrò tutt’altro che offensiva, mettendo
in luce tute le proprie difficoltà e limitazioni.
La guerra d’aggressione,
propagandata sin dall’inizio e che sarebbe dovuta essere condotta assalendo il
nemico, si dimostrò solo un abbaglio e ben pesto le truppe italiane, causa la
scarsa “coordinazione” dei vari comandi e la pessima rete di telecomunicazioni,
assunsero un atteggiamento difensivo.
Sul fronte egiziano l’Italia
iniziò a subire l’iniziativa inglese, guidata dal General, Sir
Archibald Wavell, comandante in capo del Medio Oriente, che con piccole e veloci
azioni offensive iniziò a colpire tutti i posti confinari, situati lungo il
fronte,dalla costa sino a Giarabub.
Dopo solo quattro giorni dall’inizio del conflitto caddero in mano nemica il
presidio di Sidi Omar e le ridotte di Bir Scegga e di Capuzzo situate in
territorio libico.
Dopo la prima settimana di
ostilità resisteva solamente l’isolato caposaldo di Giarabub e la guerra che i
comandi italiani avevano prospettato offensiva si dimostrò tutt’altro che
attuabile.
Differente invece la
situazione del fronte tunisino, dove la Francia, piegata dalla fulminea avanzata
tedesca, non fu in grado di opporre alcun schieramento offensivo. Il 25 giugno
vista l’insostenibilità di qualsiasi azione militare il governo di Parigi decise
di siglare un armistizio con il governo di Roma.
Se da una parte la resa della
Francia faceva pendere gli equilibri in Europa da parte dell’asse, dall’altra
non portò particolar benefici alle truppe italiane impegnate in Africa
Settentrionale. Infatti, visti gli accordi raggiunti con lo stato transalpino,
secondo cui si garantiva l’integrità coloniale francese, si poneva fine a
quell’aspettativa di invasione del territori tunisini tanto caldeggiata da Italo
Balbo che secondo le sue stese parole sarebbe servita a :
“[…] rapinare materiale francese col quale risolverei gran parte del
mio problema”.
Impossibile dire se un
ingresso in Tunisia da parte di truppe italiane avrebbe cambiato le sorti della
guerra in Libia, resta però la considerazione che materiali e armamenti francesi
sarebbero potuti essere utilizzati contro gli inglesi sul fronte egiziano.
Stava di fatto che con la
Francia fuori da giochi e con i bombardamenti su Londra che facevano presagire
un imminente invasione dell’Inghilterra, Mussolini, per non sfigurare di fronte
all’alleato germanico e per poter avanzare future pretese coloniali in caso di
pace , decise di mobilitare i vertici militari stanziati in Africa per scagliare
un offensiva in territorio egiziano.
Purtroppo tale piano subì
notevoli ritardi sia a causa dei già citati problemi tecnico logistici che le
truppe italiane dovevano affrontare, sia per la morte dl governatore della Libia
Italo Balbo colpito per errore dalla contraerea italiana installata sulla nave
San Giorgio il 28 giugno.
Con l’arrivo in colonia il 2
luglio di Rodolfo Graziani, nuovo governatore, iniziarono i preparativi per
lanciare un offensiva contro le truppe inglesi schierate sul confine.
L’offensiva venne lanciata il
giorno 13 settembre, dopo due mesi di controversa preparazione e confuse
discussioni tra Graziani, Badoglio e Mussolini.
Le truppe del Commonwealth si
limitarono ad un’attività di osservazione e di disturbo,
così il giorno 16 dello stesso mese i soldati italiani poterono entrare
indisturbati nel piccolo abitato di Sidi el Barrani situato in territorio
egiziano. Il 18 settembre i comandi italiani dichiararono concluse le operazioni
offensive che si fermarono dopo un avanzata di soli 80 km, distanza che aveva
già messo in luce tutte le limitazioni e difficoltà di un esercito poco
attrezzato per condurre una guerra di movimento votata all’attacco.
La sosta a Sidi el Barrani,
per consolidare la linea dei rifornimenti e per organizzare le forze in caso di
ulteriore avanzata, durò più del previsto.
Tutto ciò irritò non poco
Benito Mussolini che, intuiti probabilmente i pericoli di un eventuale protrarsi
delle operazioni militari,
confidava in un rapido arrivo ad Alessandria.
Questo le parole che il Duce
del Fascismo rivolse a Graziani proprio in quei giorni:
Caro Graziani,
A distanza di 40 giorni dalla presa di Sidi el Barrani, io mi pongo il
quesito: questa lunga sosta a chi ha giovato? A noi od al nemico? Non esito un
minuto solo a rispondere: ha giovato di più, anzi esclusivamente, al nemico[…].
Era ormai evidente sia agli
alti vertici militari che ai più alti vertici politici che una conduzione
aggressiva avrebbe richiesto un equipaggiamento ed una coordinazione tra i
reparti che il Regio Esercito non disponeva.
LA CONTROFFENSIVA
BRITANNICA
I mesi di Ottobre e Novembre
videro l’ intensificarsi degli scontri lungo il fronte tra pattuglie armate
britanniche e avamposti italiani.
Le continue pressioni da
parte di Mussolini per una nuova offensiva spinsero il Maresciallo Graziani ad
ammassare il grosso della Xa armata fra Bardia e Sidi el Barrani. Se
questo spostamento da una parte aumentava la forza d’urto che l’Italia poteva
utilizzare contro le truppe inglesi, dall’altro rendeva vulnerabili le retrovie
e del tutto inadeguato il sistema difensivo in caso di controffensiva.
Tale situazione non sfuggì
però agi attenti comandi militari di Londra che, vista la scarsità e
inconsistenza delle fortificazioni italiane,
decisero di iniziare ad ammassare nuove forze per poter lanciare una
controffensiva.
Fu così che nel mese di
dicembre, le forze del Commonwealth toccarono le 300.000 unità.
Il 7 dicembre violente
incursioni aeree inglesi contro i soldati italiani precedettero di due giorni
l’inizio dell’operazione che i britannici denominarono “Compass” e con la quale
avrebbero dovuto riprendere l’abitato di Sidi el Barrani respingendo le truppe
di Graziani in Libia.
I comandi italiani,
sottovalutata l’entità del pericolo portato dall’operazione Compass
e alle prese con i già elencati i problemi di ordine logistico, ricevettero un
duro colpo e furono costretti, nonostante un strenua resistenza, ad abbandonare
il caposaldo di Sidi el Barrani per attestarsi, il giorno 12, sul confine
Libico-Egiziano tra Sollum e Halfaya.
Il giorno 14 Graziani, visto
che la posizione raggiunta non offriva un adeguata difesa da una possibile
avanzata inglese, decise di far ripiegare ulteriormente i propri soldati nei
pressi della città di Bardia, la quale solo due giorni dopo venne cinta
d’assedio dalle forze britanniche.
Le difese della cittadina di
Bardia, situata sulla costa, erano del tutto inferiori a quelle che invece
poteva offrire più a ovest la cittadella di Tobruk, ma si decise comunque di
tentare una difesa visto che la caduta in mano nemica di una città coloniale
italiana avrebbe gettato delle ombre sulla conduzione delle operazioni militari
africane.
Gli ultimi giorni del 1940
videro Bardia colpita da violenti bombardamenti che precedettero l’offensiva
terrestre lanciata invece il 3 Gennaio del 1941. L’opposizione italiana pur
dimostrandosi coraggiosa non riuscì a frenare l’avanzata inglese
e già il giorno 4, sotto l’incessante incalzare del nemico, le munizioni a
disposizione degli assediati iniziarono a scarseggiare e con esse venne meno
anche l’acqua.
Declinata qualsiasi offerta
di resa da parte degli inglesi le difese italiane resistettero sino a quando i
carri Matilda
assieme all’incessante martellamento dell’artiglieria non posero fine
all’assedio il giorno 5 gennaio. In tre giorni di combattimento la decima armata
perse oltre 45.000 uomini tra morti, feriti e prigionieri
il 21 gennaio le truppe del
Commonwealth nella loro avanzata in territorio libico, posero sotto assedio la
cittadella di Tobruk, che vedeva al suo interno asserragliati 22.000
uomini con 340 cannoni schierati lungo 54 chilometri di cinta difensiva.
La “battaglia di Tobruk” durò solo tre giorni, dal 21 al 23 Gennaio e anche qui
le difese si dimostrarono inadatte a respingere l’offensiva nemica. La caduta di
tale “fortezza” costò al regio esercito gravi perdite sia in termini umani che
di mezzi e materiale. Persino l’unità San Giorgio, appartenente alla
Regia Marina, dovette auto affondarsi per non cadere in mano nemica ,dopo che si
era prodigata valorosamente, con continui cannoneggiamenti, per la difesa della
città.
A questo punto le forze
italiane incapaci di opporre un adeguata difesa iniziarono a ripiegare verso
ovest incalzate dal nemico. Il 30 Gennaio fu perso l’abitato di Derna, evacuato
il giorno 29, mentre il 6 febbraio anche Bengasi cadde in mano inglese.
Proprio Bengasi fu vittima
durante l’occupazione delle truppe britanniche di devastazione e saccheggi che
colpirono soprattutto la popolazione civile.
A testimonianza dei massacri
perpetrati soprattutto da truppe australiane venne pubblicato già nel 1941 un
libro dal titolo “56 giorni di civiltà inglese a Bengasi”, la cui
prefazione fu scritta dal podestà di Bengasi e in cui si trova la drammatica
testimonianza di Caterina Cortesani, responsabile del reparto di chirurgia
dell’ospedale e qui sotto riportata:
[…] una sera verso la fine di febbraio il medico di guardia dovè salvare,
facendole riparare in ospedale, tre ragazze dai 12 ai 15 anni che in quei pressi
stavano per subire violenza da alcuni soldati ubriachi: un'altra sera, in
medicheria, ho assistito alle cure prestate dal chirurgo di servizio ad un
borghese, poi deceduto, colpito a pistolettate da alcuni australiani ubriachi
alla Berka, dopo che lo avevano letteralmente spogliato dei soldi e degli
oggetti preziosi. […].
[…] una sera la sottoscritta ha narcotizzato per un grave intervento
laparatomico un giovane ufficiale, sottotenente M., successivamente deceduto,
colpito da una raffica di mitragliatrice alla caserma Torelli, concentramento
ufficiali, durante la passeggiata pomeridiana, da un soldato inglese in vena di
allegria. Altre due volte ho dovuto prestare la sua assistenza ai medici per
soldati di concentramento colpiti a pistolettate solo perché cercavano fuori
orario pane e acqua da bere. […]
Valoroso ma incapace di
arrestare l’avanzata britannica fu invece il sacrificio della Xa
armata che nella Battaglia di “Beda Fomm” riuscì’ solamente a rallentare
l’avanzamento dei carri inglesi.
Il giorno 9 febbraio le
divisioni britanniche arrivarono ai confini della Tripolitania, precisamente ad
El Agheila, ma qui decisero di porre fine alla loro vittoriosa avanzata. Non
tutti i generali britannici furono d’accordo sulla bontà di tale decisione, ma
gli alti vertici militari decisero saggiamente di fermarsi per poter consolidare
la propria linea dei rifornimenti che si estendeva in territorio libico per più
di 300 km..
L’Italia in poco più di sei
mesi aveva pagato la propria impreparazione perdendo un terzo del territorio
libico e lasciando sul campo migliaia tra morti, feriti e civili sfollati.
L’ARRIVO DEI RINFORZI
GERMANICI
Fin dall’autunno del 1940 ci
furono proposte da parte del cancelliere tedesco Adolf Hitler per poter inviare
uomini nel teatro operativo del mediterraneo, ma Benito Mussolini, fedele alla
sua linea di guerra parallela a fianco dell’alleato germanico, declinò sempre
l’offerta ritenendo le forze italiane capaci di poter tener testa a quelle
britanniche. La drammatica situazione che si era però venuta a creare costrinse
il governo italiano ad accettare l’invio tedesco in Libia di truppe fresche e
meglio equipaggiate
Il giorno 12 febbraio sbarcò
a Tripoli Erwin Rommel, generale della Wermacht, che vista la difficile
situazione, iniziò subito a prendere accordi di natura tattico organizzativa con
il nuovo comandante in capo Generale Gariboldi, subentrato a Graziani.
Il giorno 14 invece
iniziarono ad affluire in Africa i primi soldati tedeschi, inquadrati nel C. T
.A. (Corpo Tedesco d’Africa).
Si incominciarono così a
predisporre tute le misure per un adeguata difesa della Tripolitania e per
organizzare una futura controffensiva verso Bengasi.
L’offensiva italo – tedesca
iniziò il 4 marzo e senza problemi venne subito riconquistato l’abitato di el
Mugta, così anche le truppe del Commonwealth furono costrette a ripiegare.
Nel frattempo però il giorno
21 le truppe italiane dislocate a sud nei pressi dell’oasi di Giarabub, e che da
tempo resistevano con ogni mezzo all’assedio inglese, dovettero arrendersi.
L’accaduto se da una parte
preoccupò gli alti comandi militari italiani che memori dell’operazione Compass
suggerivano un atteggiamento difensivo, dall’altro non scoraggiarono Rommel che
invece, notata la dispersione delle truppe inglesi, decise che era giunto il
momento di incalzare nuovamente le prime linee britanniche per ricacciarle fuori
dalla Libia.
La decisione si rivelò quanto
mai azzeccata e anche in questo caso, come era già successo agli italiani nella
seconda metà del 1940, la lunga linea di rifornimenti non sufficientemente
potenziata costrinse Londra al ritiro delle proprie truppe che, incapaci di
approvvigionarsi adeguatamente e dovendo subire la forza d’urto nemica, furono
costrette a cedere il passo alle truppe italo tedesche.
Fu così che la “riconquista”
della Libia proseguì il 24 marzo con la ripresa di el Agheila situata ad est
lungo la via Balbia.
Mentre le ricognizioni aeree
segnalavano un movimento retrogrado delle brigate inglesi l’avanzata di Rommel
non conosceva sosta e il giorno 31 ritornò in mano italiana anche Marsa el Brega.
Con l’inizio di Aprile e con la rioccupazione di Agedabia, le truppe italo
tedesche si attestarono nei pressi di Bengasi la cui riconquista avvenuta il
giorno 4 fu salutata con sollievo dalla popolazione civile rimasta in città.
Avanzando sia lungo la via
litoranea che attraverso il deserto lungo la pista del Gebel, le forze dell’Asse
fecero ripiegare gli inglesi fino a Sollum in territorio egiziano.
A questo punto Rommel
interruppe l’avanzata per risolvere due questioni aventi la massima priorità: la
riconquista della cittadella di Tobruk, aggirata dall’avanzata, le cui difese
davano riparo a 35000 inglesi; e l’aumento delle difese sulla linea Bardia –
Sollum che sarebbero dovute servire in caso di contrattacco britannico.
Due furono gli attacchi che
le forze dell’Asse portarono alla piazzaforte di Tobruk, il primo tra il 14 ed
il 17 aprile, il secondo tra il 30 Aprile e il 4 Maggio, ma entrambi fallirono.
Gli alti comandi, abbandonata
così l’idea di uno scontro frontale per riprendere la cittadella, decisero di
porla sotto assedio.
A tal proposito però, intuendo che gli inglesi avrebbero contrattaccato per
rompere l’assedio di Tobruk, le forze dell’asse costituirono un apposita linea
difensiva più a ovest nei presi di Ain el Gazala, dove attestarsi per impedire
l’avanzata nemica.
La reazione inglese non si
lasciò attendere e già il 15 maggio, con l’operazione “Brevity” le truppe
guidate dal General Wavell cercarono di avanzare in territorio libico, ma
questa volta le difese approntate dallo schieramento italo tedesco ressero e i
britannici furono costretti al ritiro.
Stessa sorte toccò
all’operazione “Battleaxe” che costò persino il posto al comandante inglese
sostituito da General sir Auchinleck.
Respinti i contrattacchi
britannici le truppe dell’asse approfittarono per poter riordinare truppe e
servizi,
consolidando così la propria linea dei rifornimenti.
Fu così che sino a novembre a
situazione sul fronte africano risultò praticamente immutata.
Emblematiche furono le parole
di Rommel, commentando le operazioni appena concluse affermò
“nella guerra moderna non era mai stata intrapresa fino allora un’offensiva
così impreparata."
Sino a quel momento il
bilancio delle truppe dell’asse in Africa, dall’arrivo di Rommel, risultava
alquanto positivo, ma le lacune dovute all’insufficienza di mezzi e materiali
adeguati avrebbe messo a nudo, da li a poco, tutte le debolezze dello
schieramento italo tedesco.
L’OPERAZIONE CRUSADER
Dal novembre 1941 le forze
dell’asse iniziarono ad approntare tutte le misure necessarie per espugnare
definitivamente le difese di Tobruk. Più precisamente la cacciata degli
assediati dalla cittadella avrebbe permesso allo schieramento italo – tedesco di
dirottare sul fronte egiziano uomini e mezzi impegnati nell’assedio.
Ciò nonostante i comandi
italiani manifestarono forti preoccupazioni nei confronti dell’alleato tedesco
sulle misure necessarie a riacquisire il controllo di Tobruk. Infatti secondo il
Maresciallo d’Italia Cavallero un offensiva se da una parte avrebbe reso
possibile la cacciata degli inglesi dalla Libia, dall’altra avrebbe lasciato
pericolosamente scoperto il fronte ad un contrattacco britannico.
La “volpe del deserto”, non
si fece però impressionare dalle preoccupazioni italiane e fedele alla propria
tattica offensiva ma allo stesso tempo sicuro della linea difensiva costituita
a Ain El Gazala, decise di iniziare i preparativi per la riconquista di
Tobruk. I timori italiani però questa volta si dimostrarono fondati e
l’attacco fissato da Rommel a Tobruk per il 20 Novembre non ebbe mai inizio a
causa dell’ennesima offensiva britannica denominata questa volta “Crusader”.
Questa volta le truppe di Auchinleck, riorganizzate nell’ 8a Armata
potevano contare su un totale di sette divisioni equipaggiate con 770
carri armati,
tra cui spiccavano i nuovi
Crusader (che
diedero appunto il nome all’operazione), i carri da fanteria
Matilda II , i
Valentine e
gli americani
M3 Stuart.
Inoltre Il supporto aereo poteva essere garantito da 1.000 aeroplani, di vario
genere, della
R.A.F..
A fronteggiarli c’erano
invece la
15ª e
21ª Panzer Division
(che disponevano di 260
panzer) , la
90a Divisione leggera, che però aveva sofferto di pesanti
perdite durante gli scontri precedenti, le divisioni di
fanteria
italiane Savona, Pavia, Bologna, Brescia, Trento,
la Divisione motorizzata Trieste e la Divisione corazzata Ariete
equipaggiata con 154 carri armati. A contrastare la superiorità della R.A.F.
c’erano invece 120 velivoli della Luftwaffe e 200 appartenenti alla Regia
Aereonautica.
L’offensiva, che ebbe inizio
il
18 novembre,
ebbe come primo obiettivo il permettere al XXX° Corpo d'armata di dirigersi
verso
Bardia,
presidiata da forze italiane, col compito di ricongiungersi con le forze
intrappolate a
Tobruk che nel
frattempo avrebbero dovuto rompere l'assedio. Tuttavia l'offensiva britannica
almeno inizialmente non riuscì e le forze corazzate inglesi subirono pesanti
perdite nello scontro tra carri armati nei pressi di
Sidi Rezegh,
poco distante da Tobruk, mentre il XXX° Corpo d'armata rallentava la propria
avanzata fiaccato dall’intenso fuoco dei pezzi da 88 mm.
schierati lungo la linea.
Cruenti furono anche gli
scontri nei pressi di Bir El Gobi dove la divisione corazzata Ariete in
una battaglia tra carri distrusse 50 carri armati britannici a fronte della
perdita di 34 dei suoi. Sempre a Bir el Gobi si distinse anche il reggimento
Giovani Fascisti, che riuscì ad impegnare il nemico, garantendo così una più
sicuro ripiegamento delle forze italo tedesche. Infatti pur riuscendo
inizialmente a respingere l’urto nemico le forze dell’Asse, resesi conto della
superiorità tecnologica e logistica del nemico, scelsero di ripiegare sino alla
linea difensiva di Ain el Gazala.
Il
21 novembre,
la volpe del
deserto, per alleviare la pressione sulle forze italiane e sulle sue divisioni
di fanteria leggera, raccolse tutti i carri armati ancora disponibili, e
sfruttando il supporto aereo della Luftwaffe, lanciò un contrattacco lungo la
frontiera egiziana per cogliere alle spalle le forze Alleate.
Gli inglesi pur temendo il
peggio decisero di non arretrare mantenendo le posizioni e sferrarono un
ennesimo contrattacco contro le forze di Rommel con la 4ª Divisione indiana. A
questo punto gli italo tedeschi non furono più in grado di mantenere la linea
difensiva visto che il
27 novembre,
la 2a Divisione neozelandese era riuscita a formare un collegamento
con la guarnigione asserragliata a Tobruk , a prezzo di pesanti scontri con i
bersaglieri
italiani, rompendo così l’assedio. Le forze comandate da Cunningham e Auchinleck
continuarono a premere sulle linee italo-tedesche, che furono costrette a
ripiegare ancora più a ovest sino a Marsa el Brega, lasciando così la cirenaica
in mano nemica. Pur essendo penetrati nuovamente in territorio libico
l’operazione “Crusader”, che ebbe un enorme costo in termini di uomini e mezzi,
non ottenne il suo obbiettivo principale che era quello di distruggere
definitivamente le divisioni moto-corazzate dell’Asse.
Dal canto loro le forze italo
tedesche pur trovandosi in condizioni di inferiorità sia numerica che
tecnologica riuscirono a contenere l’avanzata del nemico, tema questo che d’ora
in poi sarà comune a tutta la campagna d’Africa sino alla resa di Capo Bon.
L’ULTIMA AVANZATA
ITALO-TEDESCA
L’avanzata scaturita
dell’operazione “Crusader” mise però in grave difficoltà l’imponente impianto
logistico che le forze inglesi avevano mobilitato per poter conseguire il loro
obbiettivo. Infatti Le truppe britanniche, dopo essere penetrate in Libia,
risultavano troppo sparse lungo il fronte, mentre le linee di rifornimento non
approvvigionavano efficientemente uomini e mezzi che non erano ancora riusciti a
rinforzare le posizioni appena guadagnate.
I comandi italo tedeschi,
conoscendo dopo l’offensiva del 1941 i problemi scaturiti da una così lunga
avanzata, decisero di contrattaccare evitando così che il nemico potesse
consolidare le proprie posizioni. L’attacco ebbe inizio il giorno 21 gennaio
1942 alle ore 8:30, e le truppe inglesi, causa i problemi sopra elencati e la
velocità con cui venne sferrato l’assalto, furono costrette ad un veloce
ripiegamento verso nord-est. La “Volpe del deserto” sfruttando il momento decise
di incalzare le truppe del Commonwealth al fine di poterle definitivamente
distruggere. Il giorno 22 fu ripresa Agedabia e nelle giornate tra il 23 e 24
furono attaccate le divisioni inglesi dislocate a Giof el-Matar (est di
Agedabia).
Il contrattacco causò forti
perdite alle forze britanniche, che lasciarono sul campo circa cento pezzi
d’artiglieria, più di cento mezzi, tra corazzati ed autoblindo, e mille
prigionieri. Ciò nonostante le divisioni motocorazzate inglesi riuscirono a
ritirarsi evitando quella “rotta” tanto sperata da Rommel.
Diversa invece fu la sorte
della 2ª Brigata corazzata britannica, che intercettata dall’Afrikakorps
durante il tentativo di ripiegamento nei pressi di El-Cherruba, fu completamente
annientata.
Il proseguire dell’avanzata, messo in difficoltà dagli scarsi rifornimenti di
carburante costrinse i comandi italo tedeschi a non inseguire direttamente le
forze inglesi che stavano dirigendosi verso El-Mechili, ma di spostarsi invece
verso Bengasi.
Dopo aver riconquistato per
la seconda volta la cittadina libica e approvvigionate le truppe, Rommel diramò
l’ordine di riprendere l’avanzata in direzione di El-Mechili, che trovandosi a
metà strada tra Tobruk e Bengasi rappresentava un punto strategico troppo
importante per essere lasciato in mano inglese.
Come era già successo in
precedenza l’idea di un avanzata così in profondità suscitò i timori dei comandi
italiani, che giudicando l’operazione alquanto rischiosa avrebbero preferito
attestarsi a difesa delle posizioni raggiunte.
Ecco cosa intendeva fare il
Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero responsabile del comando supremo:
dobbiamo metterci in una situazione tattica tale da poter sfruttare gli
autocarri e avere l’appoggio dei caccia.
Questi sono i miei concetti a Maraua, campo avanzato protetto con caccia.
Intanto aprire il porto di Bengasi, ricuperare i nostri pezzi di artiglieria, di
cui abbiamo otturatori e alzi, e mandare quello che occorre per investire
Tobruk. Fino a che non siamo in grado di fare questo è bene mantenere una
situazione difensiva idonea.
Io non mi sento di portare la fanteria più avanti. […]
Affermo che se Rommel intende portare le fanterie più avanti mi oppongo nel
modo più assoluto. Più avanti ammetto solo forze mobili. Prego far sapere tutto
ciò con molto tatto al gen. Rommel. Non abbiamo alcuna intenzione di legargli le
mani.
Però considerati i buoni
risultati conseguiti da Rommel al comando supremo fu ordinato comunque di
portare il Corpo d’armata e di manovra sino a El Mechili. A questo punto le
truppe dell’Asse, per evitare che un avanzata troppo ardita si dimostrasse
incapace di mantenere le posizioni raggiunte, decisero di fermarsi per potersi
riorganizzare e potenziare le proprie linee di difese. A tale scopo tutto il
fronte, sino alla costa fu minato.
Questo il punto che Rommel
fece in data 14 febbraio in un telegramma inviato al comandante Cavallero:
<<io giudico la
situazione come segue: il nemico si è ritirato con tre divisioni(XIII Corpo)
sulla linea Bir Achein-Acroma. A nord, sulla posizione avanzata Bir Achein-Ain
Gazala, stanno 3 brigate. Dinnanzi a queste vi sono elementi esploranti. Nella
fortezza di Tobruk ed immediatamente a sud stanno 2 divisioni. […]
La massa delle divisioni nemiche ha subito, durante gli ultimi tre mesi,
perdite notevoli. Per completarle e in corso il trasporto di personale e di
materiale. L’affluenza di nuovi reparti non si è ancora verificata. Le gravi
perdite subite e la perdita delle basi di rifornimento in Cirenaica, dovute al
nostro contrattacco, costringono per ora il nemico alla difensiva>>.
[…]
Le posizioni raggiunte dall’Armata corazzata nel settore Agedabia – Bengasi
ed a cavallo di Srontar, come pure nel settore Mechili-Tmim, sono favorevoli per
le azioni che sono attese nei prossimi mesi ed in particolare dopo che sarà
effettuata la posa, ora in corso, delle mine in alcuni tratti del terreno a noi
antistante e delle piste che conducono a Msus e ad Agedabia.
L’arma aerea ha ora a disposizione nuovamente tutti i campi della Cirenaica,
soprattutto Martuba e Derna.
Inoltre il possesso della Cirenaica ci consente di estendere le nostre basi
di rifornimento e ci ha permesso di ristabilire il diretto collegamento con la
Grecia.
Iniziò così un lungo periodo
di stasi operativa che si sarebbe protratto sino alla fine di maggio.
Il giorno 30 aprile gli alti
comandi decisero di pianificare una nuova offensiva contro le linee nemiche.
L’avanzata che avrebbe dovuto portare le truppe dell’asse a Tobruk si sarebbe
concretizzata con un accerchiamento delle forze britanniche impegnate al centro
del loro schieramento da un attacco di fanteria.
Le operazioni iniziarono il
26 maggio con un intenso bombardamento delle linee nemiche a cui seguì il
pianificato attacco di fanteria. Purtroppo qualcosa nel piano italo tedesco non
funzionò e le forze corazzate, che avrebbero dovuto accerchiare il nemico, non
riuscirono nel loro intento a causa di una forte concentrazione di truppe
britanniche nei pressi di Bir Hakein. Qui dopo aspri scontri, che videro
impegnate le divisioni Trieste ed Ariete, le truppe dell’Asse, non
riuscendo a sfondare le linee nemiche furono costrette a ripiegare.
La crisi di rifornimenti che
stava colpendo le forze di Rommel però non impedì che il 1 giugno si sferrasse
un attacco alla piazzola di Got el Ualeb la cui conquista permise di liberare la
pista Capuzzo, punto strategico fondamentale che avrebbe consentito alle truppe
corazzate di muoversi con più facilità verso il confine egiziano.
A questo punto le armate
italo tedesche furono costrette ad un atteggiamento difensivo,
al fine di poter potenziare le proprie difese e dar modo alle forze schierate di
approvvigionarsi di benzina, acqua e munizioni.
Questa sosta però diede la
possibilità ai comandi inglesi, che disponevano ancora di ingenti forze, di
scagliare subito un contrattacco contro le linee nemiche.
Scattò così il giorno 5
giugno l’operazione Aberdeen che però non riuscì ad avanzare neanche di un metro
visto che i comandi italo tedeschi avevano predisposto efficaci difese. Gli
inglesi non desistettero e due giorni dopo impegnarono nuovamente il nemico, ma
anche in questo caso i risultati furono deludenti.
Respinti i tentativi di
assalto nemico non restava altro che sfondare la linea difensiva di Ain el
Gazala per poter poi cingere d’assedio Tobruk.
Bir Hakeim (in
arabo "Pozzo del vegliardo") risultava l'estremo baluardo di questa linea
fortemente difesa e pesantemente minata dalle truppe britanniche ed alleate che,
dalla costa, si snodava per 70 km nel deserto libico. Questo caposaldo
rappresentava inoltre un notevole ostacolo per le forze dell'Asse
che per garantirsi i rifornimenti necessari erano costrette ad aggirarlo da sud,
con un notevole dispendio di tempo e risorse. A difesa della cittadella c’erano
inoltre una
brigata della
Legione Straniera
francese (i cui effettivi erano principalmente formati da
ex combattenti
repubblicani
spagnoli) e un migliaio di volontari della
Brigata Ebraica
che non si sarebbero arresi facilmente visto che non essendo riconosciuti dalla
Società delle Nazioni
come forze combattenti, ma come esuli politici, non sarebbero stati tutelati
dalla
Convenzione di Ginevra
una volta divenuti prigionieri. Gli scontri furono durissimi e il giorno 11
giugno Bir Hakeim alzò bandiera bianca arrendendosi alle truppe di Rommel. Da li
a poco anche la linea difensiva di Ain el Gazala sarebbe caduta permettendo così
alle truppe italo tedesche di continuare la loro trionfale avanzata.
L’operazione che aveva sbaragliato le linee nemiche suscitò l’ammirazione di
Mussolini, che vedeva riaccese così le sue speranze di un arrivo ad Alessandia.
Queste le parole di elogio che il Duce rivolse al Generale Bastico:
[…] vivo elogio ai comandanti ed alle truppe italiane e tedesche tutte che ai
successi conseguiti in venti giorni di duri combattimenti, eroicamente sostenuti
in Marmarica, hanno oggi aggiunto quello più vasto di Ain el Gazala. A voi e ed
al Ge. Rommel, valoroso condottiero delle truppe sul campo di battaglia, il mio
particolare compiacimento.
A questo punto le divisioni
italo tedesche puntarono direttamente verso la piazzaforte di Tobruk per
cingerla sotto assedio. Questa volta l’assedio ebbe i suoi frutti e già il
giorno 21 giugno le truppe inglesi asserragliate nella cittadella dovettero
arrendersi. La presa di Tobruk permetteva così di accorciare di qualche
centinaio di chilometri le linee di rifornimento che sin a quel momento
partivano da
Tripoli e
Bengasi. Con
l’8ª Armata in fuga verso l’Egitto i vertici militari dell’asse si trovarono di
fronte ad una difficile scelta: lanciare la famigerata operazione C3 per la
conquista di Malta, oppure inseguire in territorio egiziano le truppe inglesi
per poterle annientare. Il comando supremo italiano propendeva per la presa di
Malta che a dire di Cavallero:
L’operazione di Malta, oltre che a risolvere il problema dei traffici del
Mediterraneo, ci restituirebbe la piena disponibilità delle nostre forze aeree,
che sono oggi vincolate al settore mediterraneo e così rimarranno fino a che
Malta resti in possesso del nemico. Lo svincolo delle forze aeree, sommato con
gli altri vantaggi della presa di Malta, significherebbe per noi il riacquisto
della libertà di manovra, fattore di primordiale importanza per la vittoria.
Dall’altra parte lo stesso
cancelliere tedesco Adolf Hitler auspicava invece per una rapida avanzata in
Egitto ponendo in secondo piano il problema dei rifornimenti ostacolati da
Malta. Questa la lettera che in quei giorni il Fuhrer inviò al Duce:
il destino ci ha offerto una possibilità che in nessun modo si presenterà una
seconda volta sullo stesso teatro di guerra. Il più rapido e totalitario
sfruttamento di essa costituisce a mio avviso la principale prospettiva
militare. Fino ad ora ho sempre fatto tanto a lungo e completamente inseguire
ogni nemico battuto quanto è stato consentito dalle nostre possibilità. L’8ª
Armata inglese è praticamente distrutta. […] se ora i resti di questa Armata
britannica non venissero inseguiti fino all’ultimo respiro di ogni uomo
succederebbe la stessa cosa che ha fatto sfuggire il successo agli inglesi
quando giunti a poca distanza da Tripoli si sono improvvisamente fermati per
inviare rinforzi in Grecia. Soltanto questo errore capitale del Comando inglese
ha allora reso possibile che il nostro sforzo fosse premiato dalla riconquista
della Cirenaica. Se adesso le nostre forze non proseguono fino all’estremo
limite possibile nel cuore stesso dell’Egitto si verificherà innanzi tutto un
nuovo afflusso di bombardieri americani che, con aeroplani da lunga distanza,
possono facilmente raggiungere l’Italia. […] Ma l’inseguimento senza tregua del
nemico condurrà al disfacimento. Questa volta l’Egitto può, sotto certe
condizioni, essere strappato all’Inghilterra.[…]. La dea della fortuna nelle
battaglie passa accanto ai condottieri soltanto una volta. Chi non l’afferra in
un momento simile non potrà raggiungerla mai più. Il fatto che gli inglesi
abbiano, contro tutte le regole dell’arte bellica, interrotto la loro prima
marcia su Tripoli per cimentarsi in altro terreno ci ha salvato, Duce, ed ha
condotto in seguito gli inglesi alle più dure sconfitte. Se ora noi tralasciamo
di inseguire gli inglesi sino all’annientamento il risultato sarà che più tardi
avremo una quantità di preoccupazioni. Accogliete, Duce, questa preghiera
soltanto come il consiglio di un amico che da molti anni considera il suo
destino come inseparabile dal vostro e che agisce in conseguenza. Con felice
cameratismo. Hitler.
Non avendo sufficienti
materiali e mezzi per poter intraprendere entrambi le operazioni i comandi
militari e politici dell’asse, in preda al’euforia del successo in Africa
Settentrionale, decisero di accantonare l’operazione C3 per potersi concentrare
sulla distruzione delle armate inglesi in fuga verso l’Egitto. Il 25 giugno
l’avanzata proseguì riconquistando il caposaldo di Sidi el Barrani, mentre il
giorno 29 la presa di Marsa Matruh, cittadina costiera dell’Egitto, permise alle
divisioni corazzate di Rommel di proseguire l’assalto contro le forze inglesi.
Gli ultimi giorni di Giugno videro le stremate forze dell’asse raggiungere la
“strozzatura” di Alamein.
In questo punto la linea del
fronte risultava essere larga all’incirca cinquanta chilometri per la presenza
a nord del mare e a sud invece della depressione di El Qattara, che risultava
impraticabile per le divisioni corazzate.
LE TRE BATTAGLIE DI EL ALAMEIN
L’offensiva italo – tedesca
partì il primo luglio, quando le truppe guidate da Rommel tentarono di aggirare
le postazioni nemiche per poter continuare la loro avanzata. La disparità di
forze, la scarsità di rifornimenti e la particolare natura del terreno fecero si
che il piano adottato non potè essere portato a compimento, causando invece uno
stallo nell’avanzata delle divisioni corazzate dell’asse. La linea inglese forte
di 150.000 uomini equipaggiata con 1.114 carri armati aveva retto all’urto dei
circa 96.000 soldati italo tedeschi appoggiati da 585 carri.
I comandi dell’asse decisero
così che era giunto il momento di attestarsi a difesa delle posizioni guadagnate
sino a quel momento.
Questa decisione non scaturì
solamente dalla mancato sfondamento delle linee nemiche nei pressi di El
Alamein, ma sopratutto dalla drammatica condizione in cui versavano uomini e
mezzi, che logori dopo l’avanzata di inizio ’42, iniziavano a sentire il peso di
un inadeguata linea di approvvigionamento.
Queste le parole del
Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero datate 1° Agosto:
tutti i comandanti chiedono ufficiali che siano fisicamente efficienti e con
un minimo di preparazione. La fanteria è stanca, molto provata, non ancora
reintegrata con complementi. Ciò vale tanto per gli italiani che per i tedeschi.
Però non vi sono alternative. Le sostituzioni sono impossibili. Il soldato va
curato. Non si può da lui pretendere se non lo si cura, specie nel vitto e
nell’acqua. Soldati della “Bologna”, al passaggio del gen. Rommel, hanno chiesto
acqua. Ha richiamato l’attenzione sulla necessità di potenziare la difesa di
Marsa Matruk verso cui non sono da escludere tentativi di sbarco avversari. I
“Commandos” stanno svolgendo una attività che ci provoca difficoltà notevoli.
[…] La razione d’acqua da bere dei nostri soldati, in certi settori è ridotta ad
un litro al giorno. Al rancio caldo i tedeschi procedono con le cucine a nafta.
I carristi sono anche dotati di fornello a spirito. Il nostro soldato non ha
nulla di simile, l’impiego della legna è impossibile: occorrerebbe portarla dal
Gebel. […] la 90ª div. Germanica si è motorizzata integralmente a Tobruk con
materiale inglese.
Importante infatti fu per le
divisioni dell’asse il fatto che l’8° armata britannica in ritiro dalla fortezza
di Tobruk avesse lasciato indietro ingenti quantità di rifornimenti e mezzi
ancora in perfetto stato. A tal proposito è da citare anche la testimonianza di
Paolo Caccia Dominioni, comandante del 31° Battaglione Genio, il quale
afferma che i magazzini nella cittadella espugnata:
[…] sono molti e favolosamente ricchi; villaggi interi di magazzini
specialmente lungo la strada per Derna, e tra i forti Pilastrino, Solaro e
Arienti. Vi sono alte piramidi di birra in scatola, baracche strapiene di farina
bianchissima, di sigarette, di tabacco, di uniformi bellissime; e tonnellate di
corredo Kaki, con la meravigliosa tela a grossa trama che pare pesante e quando
la si mette sembra di portare un velo rinfrescatore. E marmellate, e fiumi di
whisky, e scatolame prezioso.
Basti inoltre ricordare che
solo il 60 – 65% di materiali arrivato nei porti libici dall’Italia giungeva
alle unità in linea in misura mai superiore al 40% degli invii originari.
Verso la metà di luglio il
General Auchinlek, comprendendo la difficile situazione in cui versavano le
truppe di Rommel, decise di passare alla controffensiva.
Tre furono gli attacchi
britannici che si susseguirono dal giorno 15 al 27 luglio, solo l’esperienza
accumunata in mesi di guerra e l’alto spirito di sacrifico permisero agli italo
tedeschi di non essere travolti.
Dopo questa serie di attacchi
e contrattacchi ne seguì una fase di stallo, in cui Rommel ebbe la possibilità
di ottimizzare al meglio le scarse risorse a propria disposizione. Il tempo però
dava anche la possibilità alle divisioni britanniche di rinforzarsi e questo
avrebbe reso vulnerabile lo schieramento dell’asse che rischiava di venir
travolto da un ennesima controffensiva nemica. Fu così che la volpe del deserto,
in un ultimo tentativo per poter far pendere le sorti della battaglia dalla
propria parte, elaborò un nuovo piano offensivo. Questa volta l’attacco,
programmato per la fine di Agosto, avrebbe previsto la penetrazione nello
schieramento nemico per poterlo aggirare e aggredirlo alle spalle. Purtroppo i
piani dei comandi italo tedeschi incapparono nella ormai cronica penuria di
rifornimenti che sarebbero serviti a muovere con efficienza le divisioni moto
corazzate. Infatti l’asse disponeva per tale offensiva solamente di 8.000
tonnellate di nafta,
contro le 30.000 necessarie per poter attuare l’attacco. Visto però che
l’attendere avrebbe in ogni modo rafforzato il nemico, che stava ammassando un
numero ragguardevole di uomini e mezzi, gli alti comandi decisero comunque di
sferrare l’attacco facendo affluire la nafta necessaria durante l’offensiva.
Rommel iniziò a muoversi
l’ultimo giorno di agosto, ma i mezzi corazzati rimasero intrappolati fin da
subito nei fitti campi minati, più profondi del previsto. Il primo settembre,
nei pressi di Alam el Halfa e dopo un giorno di sanguinosi combattimenti Rommel
decise di fermare l’avanzata.
Oltre all’accanita difesa
inglese il mancato sfondamento della linea nemica andava sopratutto imputato a
quei carichi di nafta, che intercettati durante il loro viaggio dall’Italia alla
Libia, vennero distrutti lasciando i serbatoi delle truppe corazzate dell’asse a
secco.
La situazione dei
rifornimenti alle truppe diventava così giorno dopo giorno sempre più disperata,
e i problemi non erano da imputare solamente alla mancata presa di Malta.
Come scrisse il Maresciallo
d’Italia Cavallero dopo un suo colloquio con il Duce:
il Duce ha rilevato che le deficienze prospettate derivano
dall’impreparazione degli anni che hanno preceduto l’entrata in guerra. Concorda
con la mia obiezione sul fato che se dopo il 1930 si fosse dato costantemente
impulso alla preparazione oggi la situazione sarebbe ben diversa. Sulla nostra
entrata in guerra, in anticipo sul preveduto, egli aggiunge : “ la storia non
può scegliere orari ed itinerari”.
A questo punto le truppe
italo tedesche vista l’impossibilità di avanzare decisero di adottare uno
schieramento prettamente difensivo, aspettando la controffensiva inglese. Nelle
sei settimane di stallo che ne seguirono i britannici radunarono 200.000 uomini
e 1.000 carri armati di modello recente, tra cui 270
Sherman
americani, pronti per essere utilizzati contro i circa 100.000 soldati dell’asse
appoggiati da più o meno 200 carri. La battaglia iniziò alle 21:40 del
23 ottobre
quando 900 pezzi campali britannici aprirono il fuoco lungo tutta la linea. Al
sostenuto sbarramento di artiglieria seguì poi un pesante bombardamento aereo,
mentre alle ore 22:00 ebbe inizio l’avanzata delle truppe di fanteria. I
risultati dell’offensiva, seppur condotta con ingenti forze, non furono quelli
sperati e le due linee d’attacco prospettate dal General Sir Bernard
Montgomery non riuscirono a sfondare le difese italo – tedesche. Nonostante i
rallentamenti subiti gli alleati, in netta superiorità numerica, decisero di
sferrare un altro attacco alla linea dell’asse. L'operazione, denominata
Supercharge, iniziò il
2 novembre
1942. La
pressione sugli italo tedeschi divenne insostenibile e Rommel, capito che ormai
era impossibile arginare l’avanzata inglese, decise di ripiegare. Gli ordini
provenienti da Roma e Berlino imposero di non arretrare nemmeno di un metro di
fronte al nemico e così fu fatto, ma ormai ogni difesa era impossibile e nella
notte tra il 3 e il
4 novembre
anche gli ultimi capisaldi dovettero cedere al dilagare di un nemico
numericamente superiore. Questo il testo del telegramma inviato da Hitler a
Rommel in quei giorni:
Il popolo tedesco segue con me l’eroica battaglia difensiva con immensa
fiducia nel vostro comando e nel valore delle truppe italo tedesche. Nella
situazione in cui ella si trova non c’è altro da fare che non arretrare di un
passo e lanciare nella battaglia ogni arma ed ogni combattente disponibile.
Notevoli rinforzi aerei le saranno apportati questi giorni. Anche il Duce e il
Comando Supremo faranno il massimo sforzo per darle i mezzi di continuare la
lotta. Nonostante la sua superiorità anche il nemico sarà al termine delle sue
forze. Non è la prima volta nella storia che la ferrea volontà ha il sopravvento
sui battaglioni più forti. Alle vostre truppe non resta altra via che la
vittoria o la morte. HITLER.
La disparità tecnologica e
numerica questa volta ebbe il sopravvento e inutili furono i sacrifici di intere
divisioni, come la Folgore e l’Ariete, che sino all’ultimo si
opposero al nemico con ogni mezzo sino all’estremo sacrificio.
Manco la fortuna, non il valore
Meglio di qualsiasi altra
parola questa frase, ancora oggi incisa sul sacrario militare di El Alamein,
sintetizza il sacrificio dei soldati italiani. Il ripiegamento verso Fuka, a
circa 90 chilometri ad ovest di El Alamein, fu drammatico, migliaia di soldati
italiani, non disponendo di automezzi su cui salire per potersi ritirare,
vennero lasciati a piedi nel deserto, mentre molti carri armati ormai privi di
nafta vennero distrutti.
CAPITOLO IIIª
LA PERDITA
DELLA LIBIA E
L’INGRESSO IN TUNISIA
LA PERDITA
DELLA TRIPOLITANIA
Giunti a Fuka Rommel cercò di
riorganizzare le forze per poter in qualche modo arginare la travolgente
avanzata britannica, ma lo sforzo risultò vano. D’altronde gli uomini e i mezzi
a disposizione non consentivano di più. Il XX° corpo contava due compagnie
bersaglieri e due pezzi dell’Ariete, altrettanto della Littorio,
il Iª Btg. E il IIª Btg. Del 66° Rgt. E quattro pezzi della Trieste, una
compagnia di formazione messa in piedi con i dodici carri efficienti delle due
divisioni corazzate e questo era tutto. Il XXIª corpo disponeva di un
battaglione della divisione di fanteria Lupi di Toscana, già destinato a
diventare il Iª Btg. Del 61° Rgt. Fanteria e del 205° Rgt. Artiglieria della
Bologna. La 15a Panzer aveva otto carri, duecento uomini, dodici
pezzi da campagna e quattro controcarri; la 21a Panzer poteva contare
su trenta carri, quattrocento uomini, venticinque pezzi da campagna e sedici
controcarro; la 164 a leggera era ridotta a seicento uomini. Non
esisteva più nemmeno un cannone da 88.
Disperso invece risultava tutto il X° Corpo d’armata.
Considerata la situazione il
giorno 5 novembre Rommel ordinò di abbandonare la posizione di Fuka per
ripiegare verso Matruh, abitato situato a circa 60 chilometri più a Ovest. Il
giorno seguente giunse notizia della fine della Folgore. Circondati dai
Bren carriers
nemici, ormai privi di munizioni, sfiniti, i resti della divisione paracadutista
consistenti in duecento ufficiali e tremila soldati furono costretti ad
arrendersi. La ritirata stava assumendo un ritmo disastroso a causa della
pressione incontenibile dell’8ª Armata britannica.
Drammatica è anche la
testimonianza del sottotenente Andreolli che osservava allibito :
[…] la valanga di automezzi, stracarichi di uomini emaciati e stanchi […] dal
deserto fuggiva una massa baluginante di automezzi e uomini malconci, mossi
unicamente dall’ansia di raggiungere la litoranea […].
Gli passò accanto un tre assi italiano, destinato evidentemente, data
l’emergenza, a fungere da ambulanza, il quale procedeva lentamente con un carico
di feriti ed ammalati le cui grida di dolore e le proteste si acuivano ad ogni
sobbalzo del veicolo soverchiando il rombo del motore.
Quando il giorno 6 Novembre
le truppe inglesi arrivarono a quaranta chilometri da Matruh i comandi italo
tedeschi decisero di sgomberare la cittadina per evitare un accerchiamento che
li avrebbe costretti ad una capitolazione. Iniziò così il ripiegamento lungo la
linea Sollum – Hafaya, situata sul confine libico egiziano. Sotto l’incessante
bombardamento della Desert Air Force enormi colonne lunghe decine di chilometri
ripresero la loro marcia verso ovest. Nonostante le enormi difficoltà le armate
italo tedesche raggiunsero il confine libico, punto strategico importante visto
che per salire sul tavolato di Sollum occorreva superare due passaggi obbligati
costituiti appunto dalla stretta di Sollum e dal passo Halfaya. Si iniziarono
perciò a pianificare i tentativi di difesa della Cirenaica. Qui Rommel aveva
contato di difendere le posizioni con la Divisione Giovani Fascisti, che
abbandonata a Siwa durante la battaglia di El Alamein, stava risalendo verso
Giarabub (situata a circa 300 chilometri a sud di Halfaya). Purtroppo le forze
attese dalla volpe del deserto non sarebbero mai arrivate in tempo e fu così che
egli decise di ripiegare ulteriormente verso ovest. Questo ulteriore
ripiegamento indispettì alquanto il comando supremo italiano che contava invece
sulla linea Sollum – Halfaya per poter riorganizzare le forze e costituire
efficaci difese nei pressi di El Alghelia. Intanto gli eventi si susseguirono e
il giorno 8 Novembre truppe anglo americane iniziarono a sbarcare in Algeria e
Marocco incontrando scarsa resistenza. La manovra per accerchiare le truppe
italo tedesche in Africa era ormai iniziata.
I comandi dell’asse corsero
ai ripari e il giorno 10 iniziarono a far affluire truppe in Tunisia. Come
affermava il capo del comando supremo italiano:
Così abbiamo occupato Francia, Corsica e Tunisia. Si è avuto in tal modo la
possibilità di avere il possesso del punto del’Africa più vicino all’Italia :
Tunisi. Le guerre puniche hanno avuto luogo per la posizione tunisina, il cui
possesso ha dato all’Italia il dominio nel Mediterraneo.
Dell’attuale situazione derivano parecchi compiti, di primissima importanza:
anche qui il problema dominante è quello di trasporti. […]
Il campo di battaglia in Tunisia ha aspetto europeo e quindi molti gravi
problemi africani come la mancanza di acqua li non si presentano. Dobbiamo
cercare di rigettare l’avversario verso Orano e dobbiamo puntare verso il
Marocco.
Abbandonato il confine libico
egiziano le divisioni dell’asse si diressero verso la linea difensiva di Ain el
Gazala, che già mesi prima aveva respinto l’offensiva britannica. Questa volta
però le condizioni erano diverse e le disparità di forze non avrebbero permesso
l’arresto delle truppe inglesi. Resosi conto che una difesa ad oltranza sia di
Tobruk che della linea di Ain el Gazala avrebbe portato solo al completo
annientamento delle forze italo tedesche, Rommel ordinò di continuare il
ripiegamento verso la Tripolitania. La deficienza di carburante però non
permetteva di puntare direttamente su Agedabia o almeno, su Bengasi, perché il
percorrere le malagevoli piste del deserto avrebbe condotto a maggiori consumi.
La ritirata doveva perciò seguire la via Balbia, il che, in compenso, avrebbe
reso possibile un miglior funzionamento dei servizi. Naturalmente occorreva
mandare a vuoto ogni tentativo di aggiramento, nonché evitare, con un opportuno
dispositivo, il pericolo di eventuali mosse avvolgenti britanniche lungo le
piste provenienti dal El Mechili. Per tali motivi senza attendere che la
pressione dell’8° Armata si sviluppasse a pieno, alle due del 14 Novembre Rommel
ordinò l’immediato abbandono delle posizioni di Ain el Gazala. Il gruppo di
combattimento del XX° Corpo e dell’ Afrika Korps vennero avviati sull’itinerario
interno del Gebel, gli altri reparti sulla via Balbia. La 90a leggere continuava
ad operare come retroguardia; avrebbe seguito anche essa la litoranea fermandosi
all’altezza di Beda Littoria Slonta per dare sicurezza al grosso dell’Armata
corazzata italo tedesca.
Dal canto suo Mongomery, non
potendo continuare lo “sfruttamento del sucesso” data la situazione logistica,
dispose di avanzare direttamente verso la città di Bengasi e l’abitato di
Antelat senza seguire la Balbia. In questo modo avrebbe cercato di colpire le
divisioni italo tedesche sul fianco.
Intanto il giorno 15 iniziò
lo sgombero della città di Bengasi, che proseguì sino al giorno 18.
La situazione per la
popolazione civile non ancora sfollata divenne drammatica, ecco la testimonianza
del paracadutista Raffaele Doronzo, in città quei giorni:
arrivati ad un angolo vedo nella via laterale due arabi che escono da una
villetta con un gran fagotto sulle spalle; come ci vedono buttano tutto a terra
e fuggono precipitosamente. Andiamo avanti ed arriviamo ad una palazzina a due
piani circondata da un giardino. Qualche bomba deve essere scoppiata nei pressi
perché ha tutti i vetri infranti e sui muri i segni delle schegge.
Entro e trovo una decina di persone fra cui alcune donne italiane, le prime
che vedo dal luglio scorso, e che mi sembrano terrorizzate. Vengo fatto salire
al secondo piano e poi sul terrazzo da dove puoi vedere tutto intorno. La
faccenda è davvero seria, da qualsiasi parte si guardi, vedi gruppi di arabi che
stanno mettendo a sacco le case intorno e mi rendo subito conto che non posso
far niente.
Contemporaneamente la
situazione dei rifornimenti si faceva sempre più critica. Alcune
cacciatorpediniere italiane, cariche di nafta e dirette verso Bengasi, dovettero
essere dirottate perché le manovre di attracco al porto sarebbero risultate
troppo pericolose.
Nel frattempo ad Agedabia le
forze comandate da Rommel, che avevano evitato l’accerchiamento inglese, si
incontrarono con la Divisione Giovani Fascisti che proveniva da Giarabub. Da qui
si decise di attestarsi sulla linea difensiva di el Agheila situata al confine
tra Cirenaica e Sirtica.
La Cirenaica
risultava così definitivamente persa. Le avanguardie inglesi occuparono in
sequenza Tobruk, Bomba, Derna, Bengasi , città care agli italiani che erano
costate sudore e sangue ai coloni giunti li dall’Italia.
Sino a quel momento le truppe
italo tedesche in ritirata avevano percorso ben 1.200 chilometri nel deserto
sotto i continui attacchi dell’aviazione britannica.
Il giorno 23 novembre Rommel
a colloquio con Bastico poteva affermare:
I resti delle forze di El Alamein sono schierati in zona Agedabia Mars el
Brega. L’ordine del Duce, approvato da Fuhrer, è di difendere la Tripolitania
sulle posizioni Agheila Marada. Questa è una linea molto sottile, che non può
essere rafforzata con le truppe che giungono dall’avanti. Il nemico ha quindi la
possibilità di rompere questa linea sottile e di aggirare dal sud. Io prevedo un
attacco lungo la rotabile Bir es Suera, e tutto quanto ripiega viene utilizzato
come riserva mobile, da impiegarsi nel punto ove avverrà l’attacco.
Quanto ordinato dal Duce verrà eseguito; però se il nemico dovesse attaccare
con ingenti forze, sarà l’annientamento degli ultimi resti dell’Armata.
Su questa linea il comando
supremo italiano faceva molto affidamento, soprattutto perché qui si poteva
contare sull’appoggio aereo delle forze schierate in Libia.
Rommel però non era molto
convinto di poter tenere la linea difensiva a lungo e propose di:
[…] ripiegare sulla linea di Buerat per lasciare al nemico la “lunga via
della sete” e vedere di guadagnare tempo fino all’arrivo dei rinforzi.
Non dobbiamo accettare battaglia; se l’accettiamo, anche battendosi da eroi,
è l’annientamento.
Di diversa opinione era
invece il Maresciallo d’Italia Cavallero che invece affermava:
[…] sulla difesa da impostare ad oltranza sulla linea di Marsa Brega( El
Aghila). In caso di cedimento andremo a finire agli Sciott
tunisini e rimarremo chiusi in un ridotto battutissimi.[…]
La situazione generale è che se abbandonate la linea di El Agheila per quella
di Buerat può darsi che non possiate tenere neanche questa. Il contraccolpo si
avrebbe anche in Tunisia. Se abbandoniamo la Tripolitania ci chiudiamo in un
assedio difficile da sostenere, con gravi difficoltà anche per i rifornimenti.
Tra le due posizioni venne
cercato un compromesso e alla fine fu deciso di durare finché possibile sulla
linea Marsa el Brega Marada e organizzare all’immediato suo tergo le forze
motocorazzate dell’Armata. Fu stabilito inoltre di ricostituire più indietro,
anche a Buerat, gli elementi ripiegati abbisognevoli di maggiore riassetto e
quindi inadoperabili sulle posizioni di El Agheila.
Quando fosse stato giudicato
necessario invece sarebbe stato il momento di spostare gradualmente a Buerat le
fanterie sostituendole ad El Agheila con forze mobili.
Questo lo schieramento
italiano ad El Agheila il primo dicembre 1942:
·
Divisione di
fanteria Pistoia composta da:
o
35°
Reggimento fanteria su tre battaglioni
o
36°
Reggimento fanteria su tre battaglioni
o
3°
Reggimento artiglieria su due gruppi da 100/17 e 2 da 75/27
o
Servizi: 51°
Sez. Sanità
o
In rinforzo :
un gruppo da 105/28, un gruppo da 75/27 e due batterie da 65/17
·
Divisione di
fanteria La Spezia composta da:
o
125°
Reggimento fanteria su tre battaglioni e una compagnia guastatori
o
126° Reggimento
fanteria su tre battaglioni e una compagnia guastatori
o
XXXIX
Battaglione esplorante
o
LXXX
Battaglione controcarri
o
80° Reggimento
artiglieria su un gruppo da 105/28 e tre da 65/17
o
LXXX
Battaglione misto genio
o
Servizi: 80°
Sez. Sanità e 180° Sez. Sussistenza
o
In Rinforzo:
Battaglione San Marco, VI Battaglione Camicie Nere e 8 batterie di vario
calibro
·
Divisione di
fanteria Trieste composta da:
o
65°
Reggimento fanteria su tre battaglioni e una compagnia mortai da 81mm
o
66°
Reggimento fanteria su due battaglioni, uno controcarro e una compagnia mortai
81mm
o
LII Battaglione
misto genio
o
21°
Reggimento artiglieria su un gruppo da 100/17 e due da 75/27
o
Servizi: 90ª
Sez. Sanità e 176° Sez. Sussistenza
·
Divisione
corazzata Giovani Fascisti composta da:
o
Reggimento
Giovani Fascisti su tre battaglioni fanteria e uno controcarro
o
8° Reggimento
Bersaglieri su tre battaglioni
o
136° Reggimento
artiglieria su un gruppo da 100/17 e tre da 65/17
o
XXV Battaglione
misto genio
o
Servizi: 53°
Sez. Sanità
o
In rinforzo: IX
Battaglione autonomo, due compagnie guardia alla frontiera e tre batterie di
vario calibro
Le intere forze dell’asse
ammontavano a 83.000 combattenti, di cui 33.000 italiani e 50.000 tedeschi. Esse
disponevano inoltre di 42 carri medi italiani e 54 tedeschi; 21 carri leggeri o
autoblindo italiani e 25 tedeschi; 179 pezzi da 47mm e 225 artiglierie campali
di vario calibro italiane e 162 pezzi controcarri (di cui 48 da 88mm provenienti
dalla 19° Divisione contraerea tedesca) e 69 campali di vario calibro tedeschi.
Difficile restava inoltre la
situazione dei rifornimenti calcolando che Rommel poteva disporre ogni giorno di
400 tonnellate di nafta se le proprie truppe risultavano in movimento e di 200
se stazionarie, mentre il 30° copro britannico ne riceveva giornalmente 1.000
tonnellate. Le armate italo tedesche disponevano quindi solo del carburante
necessario per un ulteriore ripiegamento.
Queste invece la valutazione
approssimativa delle perdite globali subite dal regio esercito dall’inizio della
battaglia di El Alamein sino allo schieramento sulla linea difensiva di El
Algheila:
·
Personale:
30.000 tra morti,
feriti e dispersi
·
Armi di
accompagnamento:
110 mortai da 81mm
·
Armi
controcarro e contraerei:
1.700 cannoni e mitragliere
·
Pezzi di
artiglieria: 380
·
Carri medi:
470
·
Carri
leggeri: 50
·
Autoblindo:
40
·
Automezzi:
5.300
·
Sanità:
430 tonn.
·
Viveri:
1.700 tonn.
·
Vestiario ed
equipaggiamenti:
1.600 tonn.
·
Munizioni:
11.000 tonn.
·
Genio:
5.000 tonn.
·
Chimico:
250 tonn.
·
Carburante:
700 tonn.
·
Automezzi
d’intendenza:
2.700, di cui più della età inefficienti
Dal canto suo Montgomery
aveva imposto una sosta alla propria armata, infatti egli conosceva bene il
significato strategico della stretta di El Agheila e non voleva fornire a Rommel
l’ennesima occasione per poter sferrare un contrattacco e riconquistare la
Cirenaica.
Ovviamente anche le truppe
del Commonwealth dovevano fare i conti con la delicata situazione logistica,
visto che l’avanzata da El Alamein aveva allungato di molto la linea dei
rifornimenti. Fu così che la pausa decisa dall’8ª Armata britannica permise di
riattivare i porti di Bengasi e Tobruk in modo da poter approvvigionare
adeguatamente gli uomini al fronte.
Stabilizzata la situazione
logistica gli inglesi ripresero la loro avanzata e all’alba del 14 dicembre fu
sferrato l’attacco contro la linea di El Agheila. Le probabilità di reggere
l’urto di due divisioni corazzate britanniche risultava praticamente nullo e fu
così che dopo un accanita resistenza Rommel decise di far ripiegare i propri
soldati verso Buerat.
La situazione diventava di
giorno in giorno sempre più difficile e si prospettava la perdita dell’intera
Libia. Categoriche erano quindi le istruzioni provenienti da Roma:
Su linea Buerat truppe A.C.IT. (armata corazzata italo tedesca) si fermino
con compito resistenza oltranza. Fate conoscere at Maresciallo Rommel che questo
est ordine categorico del Duce
Ma anche questa volta Rommel,
che probabilmente aveva un quadro più ampio della situazione, ribattè:
Se perdiamo anche questa battaglia il nemico andrà indisturbato fino a
Tunisi. E non cè nessuno che potrebbe sbarrargli la strada.
Inoltre in Tunisia il terreno
montuoso avrebbe potuto offrire condizioni assai migliori contro la
preponderanza dell’8ª Armata inglese.
Lo stesso Generale Bastico,
che si dichiarava d’accordo con gli ordini di Mussolini affermava che la difesa
ad oltranza su Buerat era possibile solamente se:
At patto che madrepatria compia subito uno sforzo eccezionale per far
giungere quanto est all’uopo indispensabile in rifornimenti e mezzi
Bisognava disporre di ingenti
rifornimenti che l’Italia purtroppo non era in grado di schierare. Inoltre gli
alleati avevano iniziato pesanti bombardamenti sia su Tunisi che su Biserta in
modo da rendere difficile se non impossibile lo sbarco di rinforzi.
Considerati tutti questi
fattori si decise che sarebbe stato inutile sacrificare immediatamente i resti
delle armate corazzate italo tedesche e si decise di resistere a Buerat il più a
lungo possibile evitando così l’intero annientamento.
Il 29 dicembre ebbe inizio lo
scontro a Buerat. Pur difendendosi con ogni mezzo disponibile le truppe italo
tedesche iniziarono il ripiegamento verso ovest. La situazione si faceva sempre
più critica e la possibilità che le truppe superstiti da El Alamein venissero
accerchiate da nemici provenienti da sud (Sahara libico) erano sempre maggiori.
Fu così che il comando supremo prese la dolorosa decisione di rinunciare alla
difesa ad oltranza della Tripolitania per ripiegare in Tunisia.
Questa la motivazione che
fornisce il Maresciallo d’Italia Cavallero:
noi stiamo mandando in Tunisia uomini e materiali e viveri, ma la rotta
diretta per Tripoli non è più possibile e non possiamo alimentare dalla sola
Tunisia due scacchieri. Le conseguenze sono chiare. Si è già orientati
sull’abbandono della Tripolitania. Tutto il personale civile dovrà rimanere sul
posto in modo da dare uno spettacolo di ordine e di organizzazione. Mete lontane
per noi sono Algeri e Marocco. L’abbandono della Tripolitania non è una ritirata
ma una manovra per il potenziamento della Tunisia.
Inoltre la zona intorno a
Tripoli risultava tatticamente svantaggiosa per una difesa ad oltranza. Infatti
il campo trincerato di Tripoli, approntato già in tempo di pace, poteva
sorreggere attacchi di fanteria, al massimo appoggiata da esigue aliquote di
carri e non era quindi idoneo a sopportare l’urto dell’8ª Armata Britannica. Per
di più bisognava calcolare anche un eventuale offensiva nemica proveniente dalla
Tunisia che avrebbe posto sotto assedio le truppe asserragliate in città.
Così mentre le forze di
Rommel ripiegavano verso la linea del Mareth, fu dato ordine di evacuare la
capitale della Libia.
Questa decisione, che come
abbiamo visto fu obbligata per i comandi Italiani, destò profonda impressione
sia nell’opinione pubblica italiana che nei soldati al fronte.
Questa la testimonianza del
Sottotenente Andreolli mentre le ultime colone di militari italiani
abbandonavano Tripoli:
la città era immersa in un sinistro silenzio, rassegnata alla resa; quegli
uomini che col pianto nel cuore percorrevano per ultimi le sue buie contrade
accusavano nel loro intimo una sensazione mai conosciuta: la ripugnanza.
Ciascuno la scorgeva nel volto dell’amico che gli era accanto; ripugnanza non
per la cara città libica bensì per coloro che a prescindere da ogni e qualsiasi
considerazione di carattere strategico, avevano deciso tale abbandono. Tripoli
non valeva nemmeno una fucilata!
“ Porca Vacca,” – si udì esclamare nel buio della cabina di guida
dell’automezzo –“ Facciamo schifo. Noi e chi ci comanda. Macché arditi del cielo
e della terra…
Sputiamoci in faccia a vicenda. “
Le autorità italiane ebbero
però cura di lasciare nella maggiore possibile efficienza ogni servizio
pubblico,impianti idrici ed elettrici, rinunciando a distruzioni che avrebbero
danneggiato l’avversario ma messo in profonda crisi i civili. Anche questa
volta come accadde a Bengasi, dopo l’abbandono delle truppe italiane e l’arrivo
di quelle inglesi, la popolazione civile subì violenze e saccheggi da parte
degli arabi.
Il 23 gennaio 1943 il
tricolore innalzato dai marinai di Cagni
nel 1911 venne ammainato e al suo posto salì l’Union Jack. Nella città provata
dai bombardamenti e dalle distruzioni entrarono le colonne corazzate britanniche
che si diressero immediatamente verso il fronte tunisino.
IL RIPIEGAMENTO SULLA
LINEA DEL MARETH
Dal 19 gennaio in poi iniziò
il deflusso dell’armata italo tedesca verso la Tunisia. Queste sono le cifre che
il comando supremo italiano forniva riguardo le perdite subite durante il
ripiegamento dalla Tripolitania:
·
Uomini:
2.019
·
Fucili
mitragliatori: 20
·
Mitragliatrici: 53
·
Fuciloni
controcarro: 6
·
Mortai da
81mm: 3
·
Pezzi da
20mm: 2
·
Pezzi da
47mm: 10
·
Pezzi
d’artiglieria: 13
·
Semoventi
75/18: 3
·
Carri “M”:
31
·
Automezzi
vari: 903
·
Motocicli:
51
Già il giorno 7 gennaio il
Maresciallo d’Italia Cavallero assieme al suo pari tedesco, generale Kesserling,
si recò a Medeine per visitare le fortificazioni francesi di Mareth. Questa
linea difensiva era stata definita la “ Maginot del deserto” , ma nulla
giustificava tale appellativo, né la robustezza naturale della posizione, né,
l’entità dei lavori di fortificazione eseguiti.
Parte della linea inoltre era
stata smantellata dalla Commissione Italiana di armistizio con la Francia che
aveva ordinato la demolizione degli ostacoli passivi, delle piastre e di tante
altri sistemi difensivi. Per renderla efficiente bisognava ripristinare le
vecchie strutture abbandonate e ammodernare quelle già esistenti. Il comando
supremo aveva previsto un periodo non inferiore a due mesi per il ripristino di
tutte le difese del Mareth L’opinione di Rommel però era assai critica a
proposito , infatti la volpe del deserto affermava:
Ritengo incerto il tener lontana dalla posizione di Mareth per due mesi
ancora l’8ª Armata, ora di molto superiore alle mie attuali forze disponibili.
Per accelerare i lavori
vennero predisposti all’incirca 10.000 lavoratori, tratti dalle unità dei
servizi a mano a mano che queste si rendevano meno indispensabili alle esigenze
dello scacchiere operativo.
Però proprio in quel periodo
per fortificare la testa di ponte n Tunisia gli alti comandi decisero di far
ripiegare a Sfax la 15° Panzer, lasciando così ancora più in difficoltà l’armata
italo tedesca in ripiegamento.
In conseguenza dell’ingresso
in Tunisia delle forze della Libia, si rendeva necessario ed urgente un
complesso e totale riordinamento delle forze dell’Asse operanti in Africa
Settentrionale.
Il Comando Superiore della
Libia assolto il difficile e grave compito di portare a termine lo sgombero
della Tripolitania, si rendeva disponibile; la permanenza del
Generalfeldmarschall Rommel, ammalato e depresso, al comando dell’Armata non
era considerata più opportuna né era d’altronde desiderata dal comando Supremo.
Queste le affermazioni a riguardo del Maresciallo d’Italia Cavallero:
[…] Rommel da quando ha lasciato El Alamein non ha più combattuto. Sono
contrario a dargli libertà di azione perché abbiamo visto come si è comportato
quando l’aveva.
Riferendosi al ripiegamento
dalle posizioni di El Agheila, poi continuava affermando:
[…] mentre è senza dubbio il migliore dei generale dell’Asse come uomo di
prima linea, non è un abile stratega.
Sorgeva la necessità inoltre
di costituire un comando superiore unico che riunisse le proprie dipendenze la
5ª Armata già operante in Tunisia e le forze ripieganti dalla Libia; occorreva
riordinare su nuove basi i servizi di intendenza, l’Aeronautica, la Marina, ecc.
Fu cosi che le forze armate
dell’Asse in Tunisia vennero riordinate in due Armate: 5ª Corazzata a nord, al
comando del Generaloberst Jűrgen von Arnim, già in sito; Armata corazzata
italo tedesca ( successivamente prima armata) a sud, al comando sino a nuovo
ordine del maresciallo Rommel (quindi del Generale d’Armata italiano Messe, il
cui arrivo dall’Italia era previsto per il giorno 31 gennaio).
Quando Messe giunse in
Africa, portò con se direttive precise da Roma. Esse imponevano:
1.
Vostro compito è difendere a qualunque costo fronte sud Tunisia nella
zona di Mareth.
2.
Linea difesa ad oltranza è posizione Mareth. La protezione del fianco
destro tra Gebel Ksour e Chott Gerid deve essere assicurata. Provvedimenti a
questo fine sono già in corso da parte del generale De Stefanis il quale ha
ordine di attenersi alle vostre istruzioni.
Per far ciò la prima Armata
disponeva di quattro divisioni di fanteria italiane (Trieste, Pistoia,
Spezia e Giovani Fascisti) e di due divisioni di fanteria
tedesche (90ª e 164ª ). Vi erano inoltre il D.A.K.
cui in quel momento era rimasta la sola 15° Divisione corazzata, la 19°
Divisione contraerei tedesca, il Gruppo Sahariano, le cui truppe
equivalevano ad una debole divisione, un reparto esplorante, reparti vari di
artiglieria e genio di armata, italiani e tedeschi. In tutto una forza di poco
più di 100.000 uomini.
Difficile però resta la
situazione dell’aereonautica che con i mezzi a disposizione difficilmente poteva
competere con quella nemica. Questa la situazione delineata da Messe riguardante
la disastrosa situazione della 5ª squadra aerea:
Macchi 200 – in carico 14, senza piloti
Macchi 202 – in carico 49, efficienti 18
Dall’Italia comunque
iniziarono ad arrivare rinforzi. In febbraio giunse in Tunisia il X°Btg. CC. NN.
“M”, che fu assegnato alla div. “GG. FF.”; quello stesso mese arrivò anche il
Btg. Complementi 364° e 367°, che vennero assegnati ai due corpi d’armata, il
365° Btg. venne assegnato al Raggruppamento Sahariano, e due
gruppi del 131° Rgt. Artiglieria della Div. Centauro.
Per quanto riguardava le
forze tedesche sotto il comando della prima armata esse risultavano al 50% della
forza organica e presentavano gravissime deficienze di materiali e mezzi. Fu per
questo motivo che a fine febbraio e nella prima quindicina di marzo giunsero in
Africa dalla Germania due compagnie di fanteria per la 164ª Divisione e due
compagnie per la 90ª , mentre la 15° Divisione corazzata ricevette un
battaglione.
La posizione di Mareth, dopo
la prima decade di Febbraio si era rapidamente rafforzata, specialmente nella
parte frontale, ove campi minati, reticolato , fosso anticarro, capisaldi di
primo scaglione erano diventati in marzo assai robusti.
Questa la situazione totale
della linea:
·
Fosso
anticarro: su m. 47.800 preventivati costruiti m. 40.500, in corso m. 5.000;
·
Allargamento, approfondimento fosso anticarro: su m. 17.500 preventivati
eseguiti m. 14.500, in corso m. 3.000;
·
Reticolato:
su km. 180 preventivati costruiti km. 154, in corso km.14;
·
Mine
anticarro: impiegate 99.500;
·
Mine
antiuomo: impiegate 70.000;
Verso il 15 febbraio, con il
rientro delle ultime nostre retroguardie dietro al linea di Mareth,
l’inseguimento britannico iniziato ad Alamein il 4 Novembre e protrattosi per
oltre 2.500 km., era finito.
CAPITOLO IV
OPERAZIONI MILITARI
IN TUNISIA
OPERAZIONI “FRŰHLINGWIND” E ”MORGENLUFT”
Dopo che le truppe erano
ripiegate dietro la linea del Mareth, il Generalfeldmarschall Kesserling
assieme Rommel, il Generale d’Armata Messe e il Generaloberst Von Arnim
decisero di prendere l’iniziativa nel settore centrale della Tunisia allo scopo
di guadagnare posizioni difensive strategiche e di allentare la pressione delle
forze americane provenienti dall’Algeria.
Fu così che vennero
pianificate le operazioni Frűhlingswind (vento di primavera) e
Morgenluft (brezza mattutino). Questi gli obbiettivi delle operazioni
descritti da Kesserling:
L’Armata corazzata italo tedesca, immediatamente di seguito alla suddetta
azione, dovrà attaccare a tenaglia su Gafsa annientandovi le forze nemiche colà
dislocate.
Garantita la conca di Gasfa, l’attacco dovrà essere continuato contro Tozeur
per raggiungere condizioni di sicurezza verso Ovest.
La conquista della conca di
Gafsa avrebbe permesso di allontanare il pericolo di un eventuale offensiva
nemica su Gabès, punto questo di ripiegamento nel caso in cui fosse caduta la
linea del Mareth.
Per mettere in atto questa
manovra Von Arnim disponeva di circa 150 carri armati, mentre Rommel solo di
50; entrambi avevano a disposizione una ventina di cannoni da 88mm. Il 14
febbraio le unità corazzate di Rommel (10ª e 21ª Panzer Division) si
lanciarono all'attacco nei pressi di Sidi Bou Zid travolgendo le avanzanti
formazioni americane e distruggendo in poche ore una cinquantina di carri
statunitensi. Intanto nel settore di Gafsa le truppe americane del General
Robinett, che avevano ripiegato su Feriana, lanciarono un contrattacco per poter
interdire l’azione tedesca. Il tentativo fu vano e le forze americane furono
dapprima bloccate da un potente fuoco di sbarramento dei cannoni da 88mm. e poi
definitivamente arrestate dai reparti corazzati. Visto che la situazione si
stava complicando le forze statunitensi decisero di attestarsi sul passo di
Kasserine.
L’azione di Rommel aveva
avuto successo, nelle mani dell’asse erano cadute sia Gafsa che Sbeitla, mentre
queste erano le cifre che forniva la 21° Panzer riguardanti le perdite nemiche:
·
Prigionieri: 2546
Mezzi e materiali
catturati o distrutti:
·
Carri armati
: 183
·
Veicoli :
280
·
Pezzi da
campagna: 18
·
Cannoni
controcarri: 3
·
Cannoni
contraerei:1
Forti del successo i comandi
italo tedeschi decisero di proseguire l’azione offensiva verso ovest al fine di:
[…] intesa a colpire sul fianco lo schieramento nemico […] ed a minacciare
alle spalle il 5° Corpo britannico.
Venne deciso così di
continuare le operazioni puntando sull’abitato di Le Kef, situato più a nord.
La volpe del deserto decise di attuare una manovra a tenaglia passando sia per
Kasserine – Thala che per Sbiba Ksour, fu così che il 20 febbraio i reparti
della 10ª e 15ª Panzer Division iniziarono il loro attacco.
Le truppe alleate posizionate
sul passo di Kasserine furono letteralmente travolte dal’avanzata italo -
tedesca e dovettero darsi alla fuga per non essere annientate. Queste le parole
del Generale the Hon sir Harold Alexander:
mi accorsi che la situazione era ancor più critica di quanto non avessi
immaginato ed un ispezione nel settore di Kasserine mi mostrò chiaramente che,
nell’inevitabile disordine della ritirata, le truppe americane francesi e
britanniche erano state mescolate in modo inestricabile, che non esisteva alcun
piano difensivo organico e che l’incertezza più completa regnava nei comandi
delle grandi unità.
Nella disperata battaglia si
distinsero per valore e combattività i bersaglieri del 7° Reggimento, inquadrato
nella divisione italiana Centauro, impegnati in durissimi scontri corpo a corpo
contro le truppe alleate: il Colonnello Bonfatti, comandante del reggimento,
cadde in combattimento mentre guidava i suoi bersaglieri all'assalto delle
posizioni nemiche.
Nonostante la schiacciante
vittoria Rommel risultava molto preoccupato affermava:
[…] la loro dovizia di armi controcarri e di mezzi corazzati era così enorme
che potevamo guardare con poche speranze di successo alle future battaglie
manovrate.
Inoltre era sempre più grande
il timore che Montgomery, riorganizzate le proprie forze, scagliasse un
massiccio attacco contro la linea del Mareth. Fu per queste ragioni che Rommel
inviò questo telegramma al comando supremo:
i continui rinforzi fatti affluire alle forze nemiche durante la giornata del
22/2, le sfavorevoli condizioni atmosferiche che impediscono di manovrare fuori
delle strade carrozzabili e le crescenti difficoltà che presenta il terreno
montuoso per l’impiego delle truppe celeri, lasciano prevedere che la
continuazione dell’attacco con le limitate forze a disposizione non ha
probabilità di successo. L’armata ha ordinato per tanto, d’intesa con l’OBS, la
cessazione dell’attacco ed il ritiro delle truppe attaccanti nelle ore
pomeridiane, dopo aver inflitto però gravi perdite al nemico ed averne infranto
lo schieramento.
Questa decisione è stata provocata anche dal fatto che la situazione sul
fronte di Mareth esige un veloce spostamento, in quella zona, delle truppe
mobili delle due armate, per poter colpire fulmineamente il nemico non ancora
pronto per l’attacco sulle posizioni di raccolta per ottenere in tal modo un
differimento dell’attacco.
Il 25 febbraio le forze alleate, grazie al ripiegamento italo tedesco,
rioccuparono il passo di Kasserine. Le loro perdite durante la battaglia erano
state gravi: 10.000 morti (di cui solo 6.500 del 2° Corpo d'Armata americano)
contro i 2.000 delle forze dell'Asse.
L’AZIONE CAPRI
Dopo aver allentato la morsa
nemica ad ovest, occorreva concentrarsi sul fronte sud dove si trovava dislocata
la Iª Armata comandata da Messe.
Queste le forze dell’armata
al 20 febbraio:
·
XX° Corpo
d’Armata composto da:
o
Truppe di Corpo
d’Armata: 2.700 uomini
o
Div. Giovani
Fascisti : 4.200 uomini
o
Div. Trieste:
5.650 uomini
o
90ª Div.
Leggera: 4.300 uomini
·
XXI Corpo
d’Armata composto da:
o
Truppe di Corpo
d’Armata: 2.800 uomini
o
Div. Spezia:
9.000 uomini
o
Div. Pistoia:
7.450 uomini
o
164ª Div.
Leggera: 5.600 uomini
·
Truppe di
Armata composte da:
o
Div.
Centauro: 5.000 uomini
o
Raggr.
Mannerini: 5.000 uomini
o
Raggr.
Roncaglia: 2.000 uomini
o
Altre truppe:
4.000 uomini
o
Gr. Carr.
Nizza: 300 uomini
o
Gr. Carr.
Monferrato: 300 uomini
·
Altre truppe
tedesche:
o
15° Panzer:
5.200 uomini
o
1° Brigata
Luftwaffe: 1.550 uomini
o
Rgt. Gren.
Afrika: 1.200 uomini
o
Gruppi
esploranti : 1.050 uomini
o
19° Div.
Flak : 6.850 uomini
o
Altre truppe:
1.200 uomini
Si disponeva così di 76.350
uomini, 80 carri armati efficienti, 87 autoblindo, 536 pezzi controcarro e poco
più di 200 pezzi d’artiglieria di vario calibro.
Così che il 28 di quello
stesso mese il Generalfeldmarschall Rommel emanò le direttive per la
progettata offensiva che venne denominata azione Capri. Essa aveva come compito
l’annientamento con manovra avvolgente delle forze nemiche in corso di
schieramento tra Medeine e le posizioni di Mareth.
Questi i punti della suddetta
operazione illustrata dal Generale Messe:
[…] l’attacco sarà svolto dai seguenti gruppi di forze:
a) Colonna “Adler” – tenente generale Ziegler ( D.A.K. con 10°, 15° e 21°
Divisione cr.)
sboccherà con 15° e 21° Divisione dai passi del Gebel Tabaga e colla 10°
dalla strada di Ksar Hallouf puntando decisamente sulla linea delle alture da
Zemlet Lebene e Metameur.
Raggiunta tale linea, sulla quale occorre affermarsi di slancio, la colonna
convergerà con la massa verso nord per annientare le forze nemiche,
principalmente le artiglierie, schierate avanti alla nostra posizione avanzata.
La 10° Div. cr. Provvederà in particolare, una volta raggiuntala zona di
Metameur, alla protezione verso sud ed est. […]
b) Colonna “Bari” – generale Von Sponeck ( gruppi d’attacco delle divisioni
fanteria Spezia, 90ª leggera, Trieste ciascuna di 2 Btg. e 2 gruppi).
Attacco frontale con obbiettivo la linea di q. 214 di Zamlet Lebene Mussa –
Uadi Hachichana – Uadi El Mertoum.
La divisione “GG.FF.” svolgerà analoga azione regolando il movimento della
propria destra su quello della Trieste.
Era evidente che per la
riuscita dell’operazione erano necessarie tempestività e sorpresa assoluta. La
tempestività soprattutto era necessaria perché, essendo l’affluenza delle forze
avversarie in corso, occorreva attaccare non troppo presto, per non fare una
puntata nel vuoto, e non troppo tardi, per non trovarsi di fronte a uno
schieramento eccessivamente consistente rispetto le forze attaccanti.
A tal fine tutti i movimenti avvennero di notte mantenendo un rigoroso silenzio
radio. Purtroppo Ultra già dal 28 forniva ai britannici informazioni
riguardanti gli ordini e gli spostamenti di truppe organizzati da Rommel.
All’operazione partecipavano 141 carri, 50 apparecchi italiani Mc. 202, 60
caccia ME. 109, 30 Jacobs, 20 Stukas, oltre alla fanteria delle divisioni
corazzate e aliquote di quattro divisioni di fanteria.
Il giorno 6 alle 6:00
l’azione Capri ebbe regolare inizio senza preparazione d’artiglieria e con
uomini del genio che si prodigarono all’apertura dei varchi nei campi minati e
agli adattamenti necessari a permettere lo sbocco delle colonne dalle posizioni
di partenza.
Il contributo di Ultra anche
questa però volta fu determinante e le truppe dell’asse trovarono i britannici
pronti a respingere l’attacco. Nonostante ripetuti assalti le unità comandate da
Rommel non riuscirono a sfondare le linee nemiche.
All’operazione partecipò
anche il Sottotenente Andreolli assieme agli altri uomini della Folgore
inquadrati nella divisione Trieste. Questo il suo racconto:
A notte inoltrata, lasciate le sue posizioni arretrate, dov’esso era
dislocato quale unità di preziosa riserva, scavalcava le prime linee dei fanti,
superava i campi minati attraverso i varchi segnati dai minatori e si attestava
nella terra di nessuno in attesa della prima salva della nostra artiglieria ch
significava l’inizio dell’attacco. in quel buoi più profondo ogni uomo,
trovatosi così pericolosamente allo scoperto, era appostato in vigile attesa,
immobile col dito sul grilletto; era solo, con un combinato di ansia,
nervosismo, eccitazione ed impazienza. Il tempo trascorreva lento fino a quando,
all’alba, partivano le prime bordate delle artiglierie italo tedesche.
[…] riecheggiava nello stesso istante dai ranghi l’urlo lacerante Folgore!
Che dava l via ad una corsa pazza verso il nemico; gli uomini avanzavano più
celermente possibile col fine ultimo di agganciarlo, aggredirlo e travolgerlo.
Le granate comunque fischiavano e scoppiavano sul loro groppone, ma essi
passavano imperturbabili sotto i rosoni delle schegge, urlavano come forsennati,
imprecavano contro il nemico, lo insultavano sprezzanti con motti blasfemi,
oscenità e bestemmie.
[…] qualcuno invero cadeva, ma le fila si ricomponevano per non rompere lo
schieramento.
[…] il sole era ormai all’orizzonte, ma di fanteria non si vedeva nemmeno
l’ombra; evidentemente la sorpresa era mancata ed esse si erano ritirate
passando la patata bollente all’artiglieria.
[…] nell’animo di quegli uomini si faceva largo la delusione; si chiedevano
dov’era finito il nemico, come mai, malgrado la loro pazza corsa sotto il fuoco
essi non fossero riusciti ad agganciarlo.
Il resoconto di Andreolli
continua poi con la drammatica descrizione dello scontro tra uomini della
Folgore e una colonna di carri armati inglesi che si era avvicinata alle
loro posizioni, sorte questa che era già toccata ad El Alamein e che aveva
segnato in maniera indelebile le gesta dei paracadutisti italiani. Queste le
parole del sottotenente:
dall’ansa sbucava d’improvviso il primo carro armato, un Matilda, per cui
senza indugio il comandante urlava secco :
“Fuoco, fuoco; dategli addosso; se non lo fermiamo siamo fottuti; se lo
fermiamo blocchiamo quelli che lo seguono; dai Folgore!”
I paracadutisti sparavano allora contro il carro con tutte le loro armi,
bombe a mano compre, mentre l’equipaggio del carro rispondeva con raffiche di
mitraglia.
[…] ad un tratto il carro si fermava sebbene gli altri cingolati lo
pungolassero alle spalle. Forse l’equipaggio aveva intuito di essersi buttato in
un vespaio; quei colpi sparati dai paracadutisti servivano solo a togliergli il
fango di dosso, ma temeva di essere raggiunto dopo tante “carezze” dal colpo di
un grosso calibro o di saltare su una mina postagli sotto i cingoli da qualche
ardimentoso. Per cui il carro arretrava fino all’ansa defilandosi alla vista
degli assalitori.
Visto l’andamento degli
scontri dovuti alla mancata sorpresa i comandi italo tedeschi decisero di porre
termine all’azione Capri il giorno successivo al suo inizio. La distruzione
delle forze nemiche in fase di schieramento di fronte alla linea del Mareth non
era avvenuta e dunque adesso non restava altro che prepararsi all’offensiva che
Motgomery stava preparando.
LA BATTAGLIA DEL MARETH
Come abbiamo visto sin
dall’ingresso in Tunisia i comandi italo tedeschi impegnarono i loro sforzi per
rendere efficiente la linea del Mareth.
Tale linea difensiva però
risultava ben poca cosa contro l’impressionante mole di forze che i britannici
stavano facendo affluire in Tripolitania. Lo stesso Rommel non fidandosi a pieno
delle difese approntate auspicava un ripiegamento verso nord sulle posizioni di
Gabès. Ma le direttive provenienti da Roma erano categoriche, e come era
successo già durante il ripiegamento da El Alamein esse recitavano:
La posizione di Mareth deve essere difesa in maniera decisiva con tutte le
forze e mezzi. È particolarmente importante che anche la posizione avanzata sia
difesa se necessario fino all’ultimo, anche se le forze parzialmente impiegate
su predette alture venissero distrutte e questo perché esse sono per il
complesso della difesa di decisiva importanza. È necessario che ogni uomo
comprenda bene la necessità di una difesa sino all’estremo.
Queste comunque erano le
forze schierate lungo la linea del Mareth, da nord a sud, alla data del 15
marzo:
·
XX° Corpo
d’Armata, comandato dal Generale di corpo d’armata Taddeo Orlando e composto da:
o
Div. Fanteria
Giovani Fascisti, comandata dal Generale di divisione Nino Sozzani,
formata da:
§
8° RGt.
Bersaglieri articolato su tre battaglioni
§
Rgt. Giovani
Fascisti articolato su quattro battaglioni
§
136°
artiglieria articolato su cinque gruppi
§
XXV battaglione
misto genio
§
IX battaglione
autonomo
§
Due battaglioni
mitraglieri
§
Tre gruppi
75/27
§
XLVIII gruppo
c.a. da 75/46
o
Div. Fanteria
Trieste, comandata dal Generale di divisone Francesco La Ferla, formata
da:
§
65° Rgt.
Fanteria articolato su tre battaglioni
§
66° Rgt
Fanteria articolato su tre battaglioni
§
21° Artiglieria
articolato su cinque gruppi
§
LII battaglione
misto genio
§
CII gruppo da
77/28
o
90ª Divisione
di fanteria leggera, comandata dal Generalleutnant Theodor Von Sponeck,
formata da:
§
155°
Grenadiere articolato su due battaglioni
§
200°
Panzergrenadiere articolato su due battaglioni
§
361°
Panzergrenadiere articolato su due battaglioni
§
190ª
Artiglieria articolato su tre gruppi
§
Un battaglione
pionieri
§
Un battaglione
collegamenti
§
III/47
Panzergrenadiere.
o
Truppe di copro
da’armata:
§
16° Raggr.
Artiglieria di corpo da’armata
§
XXIV
battaglione misto genio
§
IV Autogruppo
·
XXIª Corpo
d’Armata, comandato dal Generale di corpo d’Armata Paolo Berardi e composta da:
o
Div. fanteria
Spezia, comandata dal Generale di divisione Gavino Pizzolato, formata da:
§
125° fanteria
articolato su tre battaglioni
§
126° fanteria
articolato su tre battaglioni
§
80° artiglieria
articolato su cinque gruppi
§
XXXIX
battaglione esplorante
§
LXXX
battaglione controcarro
§
LXXX
battaglione misto genio
§
battaglione
Tobruk
§
VI battaglione
camicie nere
§
due gruppi da
77/28
§
un gruppo
contraerea
o
Divisone
fanteria Pistoia, comandata dal Generale di divisione Giuseppe Falugi,
formata da:
§
35° fanteria
articolato su tre battaglioni
§
36° fanteria
articolato su tre battaglioni
§
3° artiglieria
articolato su quattro gruppi
§
LI battaglione
misto genio
§
CCCL
battaglione mitraglieri
§
XXXI
battaglione guastatori
§
CCCXXXII gruppo
da 75/27
§
CCCXXXV gruppo
da 149/12
o
164ª Div.
fanteria leggera, comandata dal Generalleutnant Kurt von Liebenstain,
formata da:
§
220°
Grenadiere articolato su due battaglioni
§
382°
Grenadiere articolato su due battaglioni
§
433°
Panzergrenadiere articolata su due battaglioni
o
Truppe di corpo
d’Armata:
§
24° Raggr. Art.
di copro d’Armata
§
XXVII
battaglione misto genio
§
LXV battaglione
collegamenti
§
III Autogruppo
§
CCLXXXV gruppo
da 149/12
Dietro la prima linea, si
trovavano:
o
Raggruppamento Sahariano,
comandato dal Generale di divisione Alberto Mannerini, formato da:
§
350° fanteria
articolato su due battaglioni
§
290ª
artiglieria su sei gruppi
§
LV battaglione
Savona
§
XVI e CXVI
battaglioni Pistoia
§
Un battaglione
della guardia alla frontiera
§
Un battaglione
misto genio
§
Gruppo
squadroni Novara
§
Sette compagnie
sahariane
o
15°
Panzergrenadiere, comandato dal Generalleutnant Willibald Borowietz,
formata da:
§
115°
Panzergrenadiere articolato su tre battaglioni
§
8° Panzer
articolato su due battaglioni
§
33° artiglieria
articolato su tre gruppi
§
288°
Panzergrenadiere Afrika
§
Battaglione
Luftwaffenjäger
Inoltre per evitare un
accerchiamento proveniente da sud elementi leggeri della Iª Divisione furono
messi a presidio dei passi di Kreddache e di Ksar el Hallouf.
Questa volta gli inglesi
erano convinti di porre fine alla presenza italo tedesca in Africa
settentrionale. La conferma la si ha in queste parole pronunciate da Montgomery
prima dell’attacco:
Nella battaglia che sta per cominciare l’8ª Armata:
o
Distruggerà il nemico che le sta di fronte sulle posizioni di
Mareth;
o
Irromperà attraverso la soglia di Gèbes
o
Proseguirà poi verso Nord su Sfax, Sousse e finalmente Tunisi
Non ci fermeremo né rallenteremo la marcia finché Tunisi non sarà stata presa
ed il nemico non abbandonerà la lotta o sarà respinto in mare
A giustificare questi
entusiasmi cerano le certezze di conoscere le posizioni difensive, grazie alle
informazioni fornite loro da ufficiali francesi scappati dalla Tunisia, e la
consapevolezza di dover combattere contro uomini logorati da una ritirata di
ben 2.500 km.
Infatti l’8ª Armata
britannica intendeva ripetere l’operazione messa in atto mesi prima ad El
Alamein, svolgendo due attacchi, uno principale nella zona costiera e uno
concomitante nel settore meridionale desertico.
Il 16 Marzo alle ore 20:30
l’artiglieria britannica iniziò ad aprire il fuoco contro le difese italo
tedesche di Mareth, mentre alle ore 23:00 partì l’attacco del’intera Brigata
Guards inglese assieme ad alcune aliquote della 50ª divisione che si cagliò
contro le posizioni tenute dalla 90ª Div. leggera e dalla divisone Giovani
fascisti situate rispettivamente al centro e al nord dello schieramento. Nello
stesso momento altri reparti dell’8°Armata attaccarono lungo tutta la linea.
Inizialmente le linee italo tedesche sembrarono cedere all’urto inglese, ma con
il passare delle ore gli uomini della Iª Armata riuscirono a mantenere le loro
posizioni. Particolar prova di coraggio diede il Iª Battaglione 66° Rgt.
inquadrato nella Divisione Trieste comandato dal capitano Politi. Queste
le parole di elogio spese da Messe nella sua relazione sulla battaglia inviata a
Mussolini:
Dislocato in posizione avanzata, senza la protezione del fosso anticarro,
senza reticolato, esposto agli attacchi nemici da ogni direzione , con un fronte
enorme in confronto alle esigue sue forze , si battè eroicamente per nove giorni
consecutivi, senza cedere un palmo di terreno sotto la pressione nemica,
riconquistando entro due ore l’unica posizione strappatagli dal nemico in un
violento attacco, catturando prigionieri, armi, materiali: non contò mai i
propri sacrifici di sangue.
Non di meno fecero anche i
superstiti della Divisione Folgore inquadrati nel 285° Battaglione, che
non solo respinsero gli attacchi nemici ma riuscirono a portare con successo
persino un contrattacco contro posizioni conquistate dal nemico.
Questi sono i fatti descritti
dal Sottotenente Andreolli presente in quei terribili giorni:
Posto fine ai preliminari, i paracadutisti iniziavano ad avanzare strisciando
cauti sul terreno pullulante di mine attestandosi, da ultimo, a breve distanza
dalle posizioni occupate dal nemico. […] Approntato lo schieramento, attendeva
quanto basta per prendere coraggio e, per quanto possibile, studiare
l’avversario. Quando ritenne giunto il momento ideale, balzava in piedi,
lanciava il grido Folgore! E si buttava sul nemico per primo, disarmato ma
munito della sua inseparabile bacchetta bianca. Come forsennati i paracadutisti
lo seguivano, scaraventavano sui nemici una pioggia di bombe a mano che li
lasciava storditi, forse con morti e feriti; […] a prescindere dai fanti ,
uccisi o feriti dalla carica avversaria, che era riuscita a fare breccia nella
nostra prima linea, purtroppo l’azzeccato contrassalto presentò amari risvolti;
esso aveva richiesto un sensibile contributo di sangue anche tra i nostri
paracadutisti.
Tra i feriti più gravi v’era lo stesso comandante di compagnia che, colpito
alla testa e perduta pure immediatamente la vista , ebbe la forza, col volto
irrorato di sangue, di rimanere al comando fino alla fine del combattimento
portando con l’esempio i suoi uomini al successo.
Il comandante a cui Andreolli
fa riferimento era il Tenente paracadutista Ludovico Artusi, che prima
dell’assalto aveva esclamato “vinco o non torno” e le cui azioni appena
descritte gli valsero la medaglia d’argento al valor militare con la seguente
motivazione:
Comandante di una compagnia, inviata in rinforzo ad un Battaglione per
rioccupare una posizione raggiunta dall’avversario, impavido, alla testa dei
suoi uomini, sotto intenso fuoco li trascinava in un travolgente vittorioso
contrassalto che permetteva di rioccupare di slancio la posizione perduta.
Rimasto gravemente ferito alla testa, rifiutava ogni soccorso ed additando ai
suoi uomini le posizioni avversarie, gridava con le forze residue: Folgore,
abbiamo vinto.
Viva l’Italia
El Mareth 23 Marzo 1943.
D’altronde le direttive del
comando d’armata erano ben precise:
[…] reazione massima ed immediata; schiantare ad ogni costo ogni tendenza ad
accettare la situazione che il nemico tenta di imporci. La notizia della perdita
di una quota deve giungere al Comando insieme a quella del contrattacco in
corso; questa mentalità dev’essere in tutti, specialmente nei comandi di
battaglione e compagnia; tutti i mezzi devono essere posti in atto per esaltare
la volontà di esistenza di ciascuno: dalla medaglia sul campo alla immediata
traduzione davanti al tribunale di guerra.
Ciò nonostante la disparità
delle forze in campo era troppo grande per essere equilibrata dal coraggio dei
singoli. Agli uomini dell’Asse mancavano sia mezzi che rifornimenti per poter
condurre la battaglia. La deficienza di carburante impedì persino all’aviazione
di colpire con efficacia le colonne nemiche avvistate che si muovevano verso
Mareth. Intanto il giorno 17 anche le truppe americane iniziarono a premere ad
ovest nei pressi Gafsa dove era schierata la Divisione Centauro. Lo scopo
degli alleati era sfondare dai due lati lo schieramento italo tedesco per
poterlo circondare ed annientarlo.
Quando le forze di Montgomery, dopo sei giorni di lotta spaventosa, che ha
ammucchiato i cadaveri inglesi di fronte ai nostri capisaldi, che ha annientato
unità di primissimo ordine come la brigata “Guardie”, come battaglioni “Black
Watch” e “Durham Light” delle divisioni 50° e 51°, che ha ridotto in briciole i
150 carri della 23° brigata corazzata d’appoggio, che ha reso vano il dispendio
di oltre un centinaio di migliaia di colpi d’artiglieria, che ha ingoiato mezzo
milione di bombe della R.A.F. disperse su tutte le linee nelle immediate
retrovie, si sono guardate intorno cercando deluse i mirabolanti successi
promessi ma non conseguiti, hanno rinunziato alla lotta su questa “infernale”
linea di Mareth per correre dietro al miraggio d’una soluzione migliore verso
l’ala occidentale del nostro schieramento.
Gli scontri sulla linea del
Mareth si stavano dimostrando molto più dispendiosi, in termini di uomini e
mezzi, di quello che avevano preventivato i comandi britannici. Fu per questo
motivo che il giorno 23 marzo, il General Montgomery decise di cambiare
strategia e di aggirare le posizioni difensive passando da Sud e puntando su El
Hamma.
Quando iniziarono ad essere
avvistate le prime colonne nemiche che passando da sud si dirigevano
direttamente verso El Hamma i comandi dell’asse corsero ai ripari. In quel
settore c’era solamente il Raggruppamento Sahariano, che da solo in campo aperto
non sarebbe stato mai in grado di reggere l’urto dell’offensiva britannica,
inoltre la Centauro necessitava di immediati rinforzi se non si voleva che gli
americani avanzassero da ovest. Fu per questo motivo si decise di iniziare un
ripiegamento dalle linee del Mareth verso la stretta di Gabès, inviando la 21°
Panzer verso Gafsa. Per evitare una rotta però occorreva nascondere al nemico
l’intenzione di ritirarsi, garantendo il più possibile le posizioni di El Hamma
in modo da rendere possibile il recupero del XX° e del XXIª Corpo d’Armata
schierato sulla linea difensiva. Per questo motivo il movimento retrogrado fu
organizzato a scaglioni, sfruttando al meglio gli scarsi automezzi disponibili.
La notte del 26 marzo visto
il susseguirsi degli eventi fu deciso di dare inizio al ripiegamento verso Gabès
sulla linea degli Chotts.
IL RIPIEGAMENTO SULLA
LINEA DEGLI CHOTTS
Il giorno 26 quindi, come
stabilito, iniziò lo sganciamento della linea difensiva di Mareth che stava per
essere aggirata. Il movimento di ripiegamento fu organizzato in tre scaglioni
diversi, con un intervallo minimo di 24 ore l’uno dall’altro, causa
l’insufficienza di mezzi a disposizione della Iª Armata. Infatti a differenza
degli altri eserciti quello italiano, oltre a risultare il più scarsamente
munito di automezzi, soffriva anche di un organizzazione poco adatta ad una
guerra di movimento. Più precisamente i mezzi non erano assegnati ai singoli
reparti situati sulla linea del fronte, ma bensì essi venivano gestiti
dall’intendenza e dai comandi superiori i quali decidevano volta per volta
l’invio di colonne presso le unità che ne facevano richiesta. Tale situazione
rese quindi ancora più difficile il ripiegamento di intere divisioni visto che
le colonne di automezzi dovevano affrontare lunghi tragitti sotto il fuoco
nemico prima di poter giungere ai reparti schierati in linea. La preoccupazione
maggiore però dei comandi italo tedeschi era quella di resistere il più
possibile nel settore di El Hamma in modo da permettere al XX° e al XXI° Corpo
d’armata di ritirarsi dalla linea del Mareth. Proprio in quei giorni le
ricognizioni avevano rilevato una colonna di oltre 3.000 mezzi britannici
diretti proprio in quella direzione, per questo motivo Messe ordino di far
affluire a rinforzo del Raggruppamento Sahariano la 164ª Divisone leggera, e il
battaglione Luftwaffe del 125° reggimento. Alle ore 17:00 del giorno 26 Marzo
forze corazzate e di fanteria appartenenti all’8° Armata britannica iniziarono
ad attaccare da sud la 164ª Divisone nei pressi di Kebili – El Hamma in modo
da tagliare fuori definitivamente le truppe italo tedesche in ritirata da
Mareth. Lo scontro si dimostrò durissimo sin dalle prime battute quando le
truppe del Commonwealth riuscirono a penetrare nelle difese per ben 5 Chilometri
e solo l’arrivo di due battaglioni della 90ª Divisione leggera e due
della divisione Pistoia riuscì nuovamente a ristabilire la situazione. Se
gli inglesi fossero riusciti a passare in quel punto non ci sarebbe stato scampo
per gli uomini del XX° e del XXIª Corpo d’armata che si sarebbero trovati
circondai dagli uomini di Montgomery. D’altronde gli ordini difesa di El Hamma
parlavano chiaro:
Difesa del nodo di El Hamma onde impedire qualsiasi ulteriore progresso
nemico a cavallo della rotabile Kebili – El Hamma. Se necessario occorrerà
sacrificare sino all’ultimo uomo;
[…] contrastare in ogni modo qualsiasi penetrazione verso est e nord – est,
onde coprire il ripiegamento delle truppe di Mareth, assicurando comunque la
libera disponibilità della rotabile Matmata – Gabès.
Anche in questo caso il
valore e la dedizione degli uomini impegnati in questa difficile situazione
riuscì a costo di enormi sacrifici di sangue a respingere l’assalto nemico. Tra
i caduti da registrare anche il Generale di divisione Pizzolato, comandante
della Divisione Spezia e incaricato del comando delle truppe sulle
posizioni di Hamma – Gabès.
Nel frattempo il ripiegamento
verso la linea degli Chotts continuava in maniera ordinata. Questa la situazione
descritta da Messe in data 28 Marzo:
·
La Divisione “Pistoia” al completo ripiega sulla linea Akarit.
·
2 Btg. della 90ª divisione ripiegano analogamente su linea
Akarit schierandosi in linea, a cavallo della litoranea
·
La divisone “Spezia” ritira sulla linea Akarit tutte le proprie
forze, eccetto i Rgt. su due Btg. ed un gruppo d’artiglieria.
Sempre più critica però
risultava la situazione nel settore di El Hamma. Il ripiegamento dalla linea del
Mareth non era ancora completato e bisognava quindi resistere ai sempre più
violenti attacchi britannici.
Il giorno 28 però la difesa
ad oltranza sulla linea Gabès – Hamma non era più necessaria ai fini del
ripiegamento dell’armata dalla linea del Mareth, così alle truppe dell’asse
schierate in quella zona non restava altro che ripiegare verso gli Chotts,
mantenendo sempre il contatto con il nemico cercando di rallentarlo il più
possibile.
Ad Hamma però, visti
l’incrementarsi degli attacchi inglesi, si venne a creare una pericolosa sacca
in cui rimasero intrappolati il gruppo squadroni Novara, il 350° Rgt. e
il 125° Spezia. In questa situazione drammatica pesarono nuovamente come
ad El Alamein la mancanza di automezzi, infatti mentre il 350° Rgt. fu capace di
ripiegare a bordo di una colonna di automezzi il raggruppamento Novara
riuscì solamente a caricare sui pochi autocarri le armi e alcune dotazioni per
impedire che cadessero in mano nemiche, lasciando così gran parte degli uomini a
piedi nel deserto. Stessa sorte costò anche al 125° Rgt che continuò la difesa
ad oltranza. Il giorno 30 finalmente il ripiegamento sia dal Mareth che da el
Hamma si concluse con il consolidamento lungo la linea degli Chotts.
Il movimento retrogrado
avvenne con successo evitando che le preponderanti forze nemiche riuscissero a
circondare e ad annientare la Iª Armata. D'altronde la riuscita dell’operazione
fu data anche dalla resistenza che la divisone Centauro, rinforzata dalla
10ª Divisone Panzer, diede ad ovest contro le truppe americane.
Le perdite italo tedesche
però furono gravi, considerata la già scarsità di uomini e di mezzi di cui
l’Asse disponeva. Queste le cifre fornite da Messe:
·
Reparti
italiani:
o
Div. fanteria
Giovani Fascisti persi: il X/8° bersaglieri e il V/7° bersaglieri
o
Div. fanteria
Trieste persi: complessivamente una compagnia
o
Div. fanteria
Spezia persi: compagnia comando, I e II/125° fanteria
o
Div. fanteria
Pistoia persi: complessivamente cinque compagnie e cinque batterie
o
Raggruppamento Sahariano
persi: Btg. Savona, Btg. guardia alla frontiera, VI Btg. CC.NN., gruppo
Squadroni Novara, una compagnia controcarri, una compagnia mortai da
81mm, due compagnie sahariane e sedici batterie in gran parte da posizione
·
Reparti
tedeschi:
o
164ª Divisione
fanteria leggera persi: due battaglioni, un battaglione de
reggimento Panzergrenadiere Afrika, altre forze pari a due battaglioni e
dieci batterie.
In totale 16 battaglioni, 31
batterie, 91 carri armati e 7.000 prigionieri.
Ferme però restavano le
intenzioni del comando della Iª Armata:
L’armata si è notevolmente assottigliata e mancano il tempo e, forse, anche
la disposizione per reintegrarla delle gravi perdite subite. Comunque la ferma
decisione di lottare sino all’estremo è in tutti.
Dal canto loro anche le forze
britanniche subirono notevoli perdite. La 23ª Brigata corazzata inglese venne
cancellata dallo scacchiere tunisino, mentre davanti alle posizioni italo
tedesche vennero contati almeno 150 – 200 carri armati nemici immobilizzati o
distrutti. Anche i reparti di fanteria sopportarono gravi colpi, l’intera 50ª
Brigata” Guards” venne ritirata dalla campagna mentre la 51ª Divisione
subì perdite tali da impedirle di continuare i combattimenti lungo la linea
degli Chotts.
La valorosa difesa degli
italo tedeschi suscitò preoccupazioni anche nei comandi inglesi per quel che
concerneva il proseguire delle operazioni. Queste le parole di Lord Strabolgi:
Come abbiamo visto i soldati italiani agli ordini del generale Messe si erano
tenuti saldamente insieme ed avevano combattuto con accanimento nelle ultime
fasi della campagna tunisina. Si poteva ragionevolmente prevedere che se
chiamati a combattere gli invasori sul suolo della loro Patria essi avrebbero
risposto in pieno.
LA BATTAGLIA
DEGLI CHOTTS
Le truppe italiane si
attestarono quindi nei pressi di Gabès e più precisamente nella strozzatura
esistente tra l’estremità orientale dello Chotts el Fedjdadj ed il mare. La
linea, lunga all’incirca venticinque chilometri, correva ad est lungo la riva
nord del fiume Uadi Akarit, le cui ripide pendenze costituivano un sufficiente
ostacolo contro l’avanzata nemica. Ciò nonostante le garanzie di solidità
fornite dalle posizioni erano limitatissime, soprattutto nei tratti pianeggianti
ai lati delle alture di Djebel el Roumana.
Lo schieramento sulla linea
Akarit – Chotts presentava, rispetto a quello sulla linea di Mareth una
diminuzione di ben 22 battaglioni e 39 batterie,
inoltre cera da considerare che la Divisione Spezia, la 164ª e il
raggruppamento Sahariano, che avevano sopportato gli scontri dei El Hamma,
risultavano fortemente indeboliti. Non migliori erano le condizioni delle altre
grandi unità. Questa la situazione complessiva: la Divisine Giovani Fascisti
riuscì a mettere insieme sei piccoli battaglioni: i suoi Iª e IIª. L’XIª ed il
LVII/8° bersaglieri(con il quale si era fuso il V/7° bersaglieri), il IX°
battaglione autonomo ed il battaglione M ( con il quale si era fuso il VIª
battaglione camicie nere). La 90ª Divisione leggera aveva due battaglioni
del 155° e due del 200° Panzergrenadiere, questi ultimi in riserva
d’armata. la Trieste conservava i suoi sei battaglioni tra cui il 285°
Folgore. La Spezia aveva il 126° fanteria su tre battaglioni ed il
125° fanteria sul suo IIIª battaglione originario, più il battaglione Tobruk
del reggimento S. Marco ed il 39 battaglione esplorante. La Pistoia
disponeva dei suoi sei battaglioni ed inoltre del XXXI guastatori e del gruppo
Muller( III/115° Panzergrenadiere). Seguiva la 164ª leggera con due
battaglioni del 361° Panzergrenadiere, il II/125° fanteria, il I/382°
fanteria ed il II/433° Panzergrenadiere.
Il raggruppamento Mannerini
aveva sopportato le maggiori perdite. Adesso aveva il Iª e II/350° fanteria, il
I/36° bis, un battaglione mitraglieri ed i resti del Iª gruppo Novara,
nonché, all’estrema sua destra, il IIIª gruppo Monferrato ed un gruppo compagnie
sahariane. Anche l’artiglieria era mal messa: pur se potenziata al massimo, i
risultati furono molto limitati, mancando il tempo per ricostruire e schierare i
nuovi reparti in via di formazione.
Ad indebolire ulteriormente
lo schieramento ci fu l’invio ad ovest, nel settore della Centauro, del
battaglione Panzergrenadiere Afrika, del battaglione Luftwaffe,
il Iª battaglione della 90ª Divisione leggera e della 21° divisione corazzata.
Anche i questo caso come per
le situazioni precedenti il Comando Supremo confermò il concetto di resistenza
ad oltranza
[…] Sia ben chiaro che è preciso intendimento di questo Comando Supremo che
si resista tenacemente sulla linea degli Chotts. Dev’essere evitato che si
ingeneri nei Comandi, e soprattutto nelle truppe, la sensazione che le attuali
posizioni abbiano solo funzione di ritardo.
Le posizioni quindi dovevano
essere abbandonate solamente su esplicito comando del Gruppo Armate.
Gli inglesi, dopo aver
saggiato con puntate offensive le difese situate sull’uadi Akarit, decisero di
sferrare un massiccio attacco per respingere ulteriormente le forze della Iª
Armata. Alle prime ore del giorno 6 ebbe inizio l’assalto alle posizioni italo
tedesche preceduto da un martellante fuoco d’artiglieria. Gli sforzi britannici
si concentrarono quasi subito nel settore di Djebel el Roumana, dove era più
facile sfondare le difese visto che il tratto piano di quella zona permetteva il
passaggio dei mezzi cingolati. Dopo sole poche ore di combattimenti la
situazione si dimostrò subito critica e le truppe del Commonwealth, eliminati il
39° battaglione esplorante, il battaglione Tobruk ed il III/125° si accingevano
a penetrare nello schieramento dell’asse per rinchiuderlo in un sacca. Questa
l’ennesima testimonianza fornita da Andreolli:
Fin dal primo istante ogni uomo era stato bloccato nella sua buca dalle
granate eruttate all’orizzonte da un serpente di fuoco. I tiri parossistici
dell’artiglieria si abbattevano sulle postazioni seppellendo uomini ed armi od
avvolgendo tutto in una nube di fumo dall’acre odore di cordite.
La situazione si faceva sempre più drammatica e con le prime luci del giorno
si rivelava in tutta la sua gravità. La linea era stata letteralmente sconvolta,
trasfigurata, segnata da enormi crateri su cui si accaniva senza sosta un
assordante tambureggiamento di artiglieria che copriva ordini, urla,
imprecazioni e lamenti. In molte postazioni individuali erano stati posti fuori
uso i difensori; in altre uomini accovacciati con le armi in pugno tradivano un
espressione che rasentava la follia; ognuno era solo con se stesso, privo di
qualsiasi collegamento a filo, a voce od a vista che fosse. […] ogni uomo,
affossato, attendeva invano un attimo di tregua mentre con le unghie scavava
infaticabilmente nella sabbia alla ricerca di una maggiore protezione. Le ore
passavano lente, ma l’artiglieria nemica non dava segni di stanchezza. […].
Ma la situazione se pur
compromessa non era ancor irrimediabilmente perduta e come scrisse lo stesso
sottotenente:
Diversamente procedevano le cose nel settore della compagnia autonoma, un po’
defilata, comandata da un anziano esperto abruzzese. Lì la fanteria nemica, che
procedeva baldanzosa, veniva affrontata dai paracadutisti usciti d’impeto dalle
loro buche. Dallo scontro scaturivano tante azioni spietate, ma dalla
scenografia episodica: vedi il caso del paracadutista più anziano della
compagnia, padre di cinque figli, che veniva raggiunto da una scheggia di
granata che gli spappolava il braccio. Il suo comandante gli si buttava al
fianco, gli sussurrava qualche parola di conforto e nel contempo gli recideva
col pugnale i pochi filamenti di stoffa e di carne, che ancora trattenevano il
braccio al corpo gettandolo lontano
Quell’abruzzese protagonista
di questo drammatico episodio era il tenente Rolando Giampaolo, comandante della
compagnia autonoma formata da altri superstiti della divisione Folgore e
inquadrata nella divisione di fanteria Trieste. Assieme ai suoi uomini il
tenente Giampaolo si stava prodigando per cercare di arginare l’avanzata nemica,
questo il suo racconto:
Con la mia compagnia venni assegnato alla difesa della quota 102,
l’osservatorio di corpo d’armata: io mi trovavo alla destra del battaglione
Granatieri ( che alla sua sinistra aveva il battaglione Folgore) mi saldavo con
la divisione La Spezia. Furono giorni di combattimento durissimi e di dolorose
perdite. Si distinsero tra gli altri, il già paracadutista libico G. Battista
Corlassoli che ebbe il braccio destro amputato da una scarica di Thompson ( fu
decorato di M.A.V.M.
e M.B.V.M),
il Caporal Magg. Mondin, il parac. Ghedin, il parac. Vidoni portaferiti,
studente universitario nato a Istanbul, colpito a morte mentre soccorreva un
ferito. Io riuscì a salvare parte della mia compagnia grazie ad una efficace
serie di contrassalti ed anche al terreno in quel punto a noi favorevole.
A prezzo di un enorme tributo
di sangue e successivamente con l’aiuto dei mezzi corazzati tedeschi, giunti in
rinforzo, i soldati italiani riuscirono a respingere l’assalto nemico rompendo
la sacca in cui erano caduti. Per il valore dimostrato al tenete Giampaolo venne
concessa la medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione:
comandante di compagnia paracadutisti contrassaltava truppe avversarie che
con l’appoggio di mezzi corazzati erano riuscite ad occupare in forze una nostra
importante posizione e dalla quale minacciavano di aggirare tutto lo
schieramento della Divisione. Con azione decisa e violenta guidava i suoi uomini
e, dopo rapido combattimento all’arma bianca, annientava il nemico, catturando
numerosi prigionieri e distruggendo alcuni mezzi corazzati.
Uadi Akarit 6 Aprile 1943.
Il valore dimostrato e lo
spirito di sacrificio però non avrebbero permesso un ulteriore difesa contro le
preponderanti forze inglesi che premevano sempre di più contro gli uomini della
I ° armata, fu cosi che il giorno 7 venne dato l’ordine di iniziare a ripiegare
verso nord lungo la linea di Enfidaville.
La Iª Armata fornì un ordine
di grandezza circa le perdite subite: la fanteria della Spezia era ridotta ad
una compagnia e mezza (tatticamente irrilevante), quella della Trieste a tre
battaglioni incompleti. Non definibili ma forti le perdite della Pistoia e della
90ª leggera; ancor più pesanti quelle delle artiglierie, specie in materiali, a
causa della deficienza di mezzi di traino. L’8° Armata lamentò 1289 perdite e 32
carri distrutti o danneggiati.
Alexander nel suo rapporto
osservò che, per quanto la battaglia non fosse durata che un giorno, i
combattimenti furono:
i più accaniti e selvaggi che avessimo sostenuti dopo El Alamein […] gli
attacchi ed i contrattacchi si susseguirono sulle colline ed i tedeschi come gli
italiani dettero prova di un intrepida determinazione e di un morale senza
uguali.
IL RIPIEGAMENTO SULLA
LINEA DI ENFIDAVILLE
La manovra iniziata il giorno
7 aveva l’obbiettivo di far arretrare lo schieramento italo tedesco dalla linea
degli Chotts sino ad Enfidaville. Il comando Gruppo Armate si proponeva di far
ripiegare la prima armata gradualmente lungo una successione di tappe durante le
quali gli uomini di Messe avrebbero dovuto mantenere sempre il contatto con le
forze di Montgomery in modo da rallentargli la strada. Tale manovra, che in
gergo militare viene definita “manovra elastica”, appunto perché al movimento
retrogrado viene associato una leggera spinta in avanti, veniva così concepita
dagli alti comandi per dare la possibilità al D.A.K e ai resti della divisione
Centauro, in ripiegamento ad occidente, di raccordarsi con la Iª Armata
impedendo al nemico di rinchiuderli in una pericolosa sacca. Questa decisione
però fu duramente contestata da Messe il quale riteneva che lo svolgersi del
ripiegamento articolato in più tempi e su più linee difensive, avesse potuto
mettere in serio pericolo l’esistenza stessa dell’armata da lui comandata. Le
motivazioni che lo spingevano a criticare in qualche maniera gli ordini del
comando gruppo armate riguardavano essenzialmente la forza d’urto che possedeva
l’8° Armata britannica, infatti nella sua relazione egli scrive:
Di fronte ad una Armata ultra motorizzata, potentemente corazzata,
estremamente mobile come è quella inglese, accettare combattimenti a fondo su
linee successive, che distano in media l’una dall’altra dai 40 ai 60 Km., sembra
a mio giudizio esporre le nostre truppe a successivi sfaldamenti fino
all’esaurimento totale.
Però anche la situazione
tattico strategica e la morfologia del territorio tunisino erano fonti di
preoccupazioni nei pensieri di Messe. Ecco cosa scrive a riguardo:
Dalla linea degli Chotts a quella di Enfidaville corrono, in linea d’aria,
circa 250 Km. di terreno assolutamente piatto, dove invano si cercherebbe un
serio ostacolo naturale, utilizzabile ai fini anche di un semplice tempo di
arresto alle colonne nemiche; anzi la vasta pianura affatto compartimentata
neppure dalla vegetazione e dalle colture costituiva un ambiente ideale per
l’impiego della massa corazzata nemica, forte di circa 400 carri, non appena
fosse riuscita a sboccare dalle nostre posizioni sugli Chotts: massa corazzata
che poteva trovare limiti al proprio raggio d’azione solo in contingenti
difficoltà logistiche, in funzione dell’aumentare della distanza dai depositi
campali, affrettatamente portati in avanti, ma che appunto perciò anelava alla
battaglia quanto prima possibile. […] è noto infatti che i carri nemici hanno
un’autonomia di movimento teorica in terreno vario, che oscilla tra gli 80 Km.
per i tipi meno recenti come il carro “ Matilda” da 28 tonnellate, ed i 160 Km.
per i tipi più moderni come il carro” generale Shermann” da 31 tonnellate […] Da
ciò, e da altri fattori che non vale qui la pena elencare, era lecito dedurre
che per sottrarre le nostre truppe non motorizzate al contatto dei carri nemici,
occorreva arretrarle di un balzo, autotrasportandole ad una distanza non
inferiore ai 100 Km. dalla linea degli Chotts e proteggerle durante la marcia
con retroguardie motocorazzate che rallentassero ed impacciassero per quanto
possibile i movimenti nemici.
Ciò nonostante da buon
militare il comandante della Iª Armata si impegnava a:
[…] per mia parte profondamente e disciplinarmente ligio alla lettera e allo
spirito degli ordini impartiti da detto comando.
Malgrado tutto la manovra
ordinata dal gruppo armate ebbe inizio regolarmente il giorno 7 e i dubbi
paventati dal comando della Iª Armata furono subordinati dall’esigenza di non
abbandonare i resti della Centauro e del D.A.K. provenienti dalla zona di
Maknassy e incalzati dalle truppe statunitensi.
Solo un ritardo nelle
comunicazioni permise ai resti della Divisone Trieste, Spezia e
alla divisione Giovani Fascisti di ripiegare direttamente su
Enfidaville, sottraendosi così alla manovra elastica impartita dal comando
gruppo Armate. Questo il telegramma che Messe inviò a Von Arnim illustrandogli
appunto l’impossibilità di seguire totalmente gli ordini a lui impartiti:
N° 3.046 /Op. Risponde 4.126 odierno. Ordini ripiegamento sono stati da me
impartiti ieri sera ore 20:30 in base preavviso ricevuto tramite Capo S.M.
tedesco et non potendo supporre che ordine Gruppo Armate avrebbe contenuto
prescrizioni dettagliate circa dislocazione dipendenti divisioni.
Schieramento previsto da Gruppo Armate importava d’altronde incroci di notte
non eseguibili. Comunque 879/43segreto giunto ore 23:45 quando non era più
possibile dare contrordini. Soluzione adottata per “GG.FF.”” era necessaria per
poter ricuperare automezzi per autotrasporto truppe lasciate indietro. Resti
“Trieste” et “Spezia” ripiegati su linea definitiva perché eccessivamente logori
et in condizioni di non essere reimpiegabili se non dopo riordinamento. Messe.
Il movimento retrogrado
perciò fu organizzato a tappe, impedendo infiltrazioni nemiche all’interno dello
schieramento italo tedesco. La prima linea difensiva venne approntata nei pressi
di Skirra, all’incirca 25 chilometri più a nord degli Chotts. Qui giunsero il
giorno 7 aprile, incalzati dalle truppe britanniche la 90ª Divisione
leggera, la Divisone Pistoia, la 15ª Divisone corazzata, la 164ª
Divisone leggera e ciò che restava del raggruppamento Sahariano. La
difesa della nuova linea, vista l’enorme disparità delle forze dei due
schieramenti, si protrasse solamente per poche ore. Alle 00:35 del 8 aprile
venne dato l’ordine di ritirarsi 20 chilometri più a nord verso Achichina.
Purtroppo nessun ordine in tale senso pervenne al raggruppamento Sahariano che
arrivato sulla prima linea difensiva in ritardo, si rese conto di essere ormai
accerchiato completamente dal nemico. Gli uomini comandati dal generale
Mannerini pur opponendo una valorosa resistenza furono costretti a cedere
all’assalto di un intera Divisione Neo Zelandese. Da segnalare il cavalleresco
comportamento del General Freyberg, che riconoscendo il valore con cui
si erano battuti gli uomini del Raggruppamento Sahariano, riconsegnò al
Generale Mannerini la pistola che gli era stata sottratta all’atto della
cattura.
Nel frattempo gli uomini
della Iª Armata, che si erano raccordati con il D.A.K., continuarono a difendere
le nuove posizioni sino al pomeriggio del 9, quando dopo ripetuti attacchi
nemici ripiegarono ancora verso nord nei pressi di Nakta. La pressione nemica si
faceva sempre più forte e visto che il compito di impedire alle forze anglo
americane di tagliare la Iª Armata dal D.A.K. era stato assolto, i comandi del
gruppo armate scelsero di far ripiegare il grosso delle forze direttamente verso
Enfidaville, lasciando in retroguardia solamente reparti corazzati e
motorizzati. Il giorno 13 sotto continui bombardamenti nemici gli uomini della
Iª armata, del D.A.K e i resti della Centauro si assestarono lungo la linea
difensiva di Enfidaville. Questo il resoconto fornitoci da Messe riguardo lo
stato delle proprie unità in ripiegamento dagli Chotts:
·
Divisione
Giovani Fascisti: perso un battaglione passato alla divisione Trieste
durante la battaglia degli Chotts, rimaneva con 5 battaglioni e 27 pezzi;
·
Divisone
Trieste: perso tre battaglioni e acquistato uno dalla Giovani Fascisti,
rimaneva con 4 battaglioni e 29 pezzi;
·
Divisione
Pistoia: rimasta solamente con due battaglioni in riordinamento e 28 pezzi:
·
Divisone
Spezia: pressoché distrutta;
·
Divisone
Centauro: pressoché distrutta;
·
90ª
Divisione leggera: rimasta con 4 battaglioni e poca artiglieria;
·
164ª Divisione:
rimasta con scarsi 2 battaglioni pressoché senza artiglieria;
·
15ª corazzata:
rimasta con una quindicina di carri, 3 battaglioni di fanteria molto provati e
tre gruppi d’artiglieria;
·
Artiglieria di
corpo d’Armata e d’Armata italiana: rimasta con 7 pezzi da 105 e 10 pezzi d 149;
·
Artiglieria
contraerea tedesca: rimasta con 7 batterie;
·
Artiglieria
d’Armata tedesca: rimasta con un paio di batterie pesanti;
Ovviamente tali forze
risultavano alquanto inadatte a sostenere altri scontri decisivi contro gli
anglo americani, fu così che gli alti comandi impartirono i seguenti ordini:
N° 3.086/Op. E’ necessario che tutti i reparti o frazioni di essi che
giungono nella zona di Enfidaville siano al più presto riordinati e messi in
grado di immettersi nelle unità di provenienza.
E’ pertanto opportuno che voi stabiliate dei centri di raccolta per ciascuna
divisione (basi, per elementi isolati o poco consistenti, zone più vicine alla
nuova posizione per reparti ancora omogenei ed efficienti) e dei posti di blocco
per l’avviamento a detti centri. […]
Criterio fondamentale è quello di formare nel più breve tempo possibile
reparti in condizione di poter rientrare in azione.
CAPITOLO V
TAKROUNA
LA LINEA DI
ENFIDAVILLE
La linea difensiva istituita
dagli alti comandi italo tedeschi a nord di Enfidaville poteva contare su alcuni
rilievi ed asperità del terreno che in parte avrebbero compensato la disparità
di mezzi presenti tra i due schieramenti. Infatti le parti scoscese di questi
modesti rilievi e i letti profondi dei numerosi Uadi,
che caratterizzano la zona, costituivano una serie di efficaci ostacoli naturali
capaci di metter in difficoltà le manovre dei cingolati Alleati. Inoltre dalle
alture era possibile intercettare gli spostamenti nemici e controllare le varie
vie di comunicazione della zona, oltre che a guidare il tiro delle artiglierie.
Come ci descrive il generale
Messe la linea difensiva fu suddivisa in vari settori entro i quali le zone
pianeggianti, che si offrivano maggiormente a infiltrazioni nemiche, venivano
coperte dai massicci che fungevano da veri e propri bastioni difensivi e da
punti di raccordo tra i vari settori.
Questi i settori della linea
partendo da est:
·
Un primo
settore di circa 7Km., perfettamente in piano, includente l’ampio abitato di
Enfidaville, appoggiato sulla sinistra alla sebka,
sulla destra dall’importante pilastro del Takrouna;
·
Ad ovest di
questo, altro settore di circa 6 Km., pure completamente piano ( se si esclude
la modestissima altura del Dj. El Katiss al centro) tra i pilastri laterali del
Takrouna e di Dj. Garci, anche questo assai importante;
·
Più ad ovest
ancora un settore di 3 – 4 Km. in parte pianeggiante ed in parte sviluppato sui
bassi ondeggiamenti del terreno tra Abd el Rahmane e Dj. Es Srasiff;
·
Un ultimo
settore di 6 – 7 Km. leggermente mosso, antistante all’ampia conca di Saouaf,
facilmente percorribile, come gli altri, ad ogni mezzo, eccetto in
corrispondenza dello sperone dello Srasiff e di quello di Dj. El Dib.
Un efficace difesa però non
poteva fare affidamento solamente sugli ostacoli che offriva il territorio
tunisino, era quindi necessario sviluppare alcune opere difensive capaci di
consolidare l’intera linea. Per far ciò il comando italo tedesco predispose una
forza lavoro di 5.000 uomini, a cui vennero però sottratti dalle 500 alle 1.000
unità per essere impiegati come combattenti. I lavori che nei primi giorni si
svolsero in relativa tranquillità, subirono un forte rallentamento nei giorni
successivi causato dalle sempre più frequenti incursioni aeree. Ciò nonostante
l’avanzamento dei lavori fu possibile grazie ala scelta di operare con il favore
delle tenebre evitando così il più possibile i bombardamenti alleati. Grazie al
lavoro incessante di questi uomini la linea difensiva poté contare alla data
del 20 aprile su una posa di 5.000 metri di reticolato, 1.700 mine anti carro,
5.000 mine anti uomo e 9.000 metri di fosso anticarro.
I comandi lavorarono anche
sulla riorganizzazione dei reparti che in ripiegamento dagli Chotts stavano
affluendo verso le nuove posizioni difensive. Gli elementi di fanteria,
artiglieria, genio e servizi della disciolta Divisione Centauro passarono
a rimpinguare i ranghi della Pistoia, mentre ciò che rimaneva dei mezzi
corazzati venne assegnato in parte al Rgt. Lodi e in parte al gruppo
corazzato comandato dal Generale Piscicelli. Alla divisione Spezia giunse in
rinforzo l’84° battaglione complementi, mentre l’82° battaglione, anch’esso
complementi, andò a rinforzare la pianta organica della Trieste che
ricevette anche il 281° battaglione mortai. Per diretto ordine del Comando
Supremo invece fu costituito dall’Aeronautica il reggimento Duca d’Aosta,
articolato su 2 battaglioni di circa 400 uomini, ciascuno su 2 compagnie
fucilieri e 2 compagnie mitraglieri. Il reggimento che era comandato dal
Colonnello pilota Gabrielli raccoglieva tra le sue fila paracadutisti della
regia aeronautica, parte del battaglione Loreto e avieri provenienti dai
vicini campi d’aviazione.
Inoltre per sfruttare al
meglio le caratteristiche di armamento dei vari reparti, il comando Gruppo
Armate studiò anche una fusione tra reparti italiani e tedeschi. Fu così che
alla 90ª Divisione leggera venne assegnato il LXII battaglione
bersaglieri e il II battaglione Giovani Fascisti, alla divisione Trieste
il II/361° ed il battaglione Luftwaffe, alla 164ª il 350° e il II/115°
della 15° Divisione corazzata, alla Spezia il comando e il II/47°, alla
divisione Giovani Fascisti il battaglione I/361° della 90ª ed il
III/47°.
Per quel che riguardava
l’artiglieria invece fu completato un gruppo da 75/27/11, un gruppo da
75/27/906, un gruppo da 75/46, un gruppo da 77/28, una batteria da 65/17, due
batterie Milmart. Dalla 5° squadra aerea vennero recuperati invece 8 batterie
contraeree da 20mm.,e 3 batterie contraeree da 12,7mm.
A metà aprile gli uomini
della Iª Armata potevano esser stimati intorno alle 11.3000 unità, 70.000
italiani e 43.000 tedeschi.
Questo invece lo schieramento delle unità lungo la linea di Enfidaville partendo
da oriente:
·
XX Corpo
d’Armata comandato dal Generale di corpo’armata Taddeo Orlando, formato da:
o
90ª
Divisione leggera comandata dal Generalleutnant Theodor von Sponeck,
formata da:
§
I e II/200°
Panzergrenadiere
§
I e II/155°
Grenadiere
§
LVII/8°
bersaglieri
§
II/1°
Giovani Fascisti
§
900°
battaglione pionieri
§
Due batterie da
campagna ( 9 pezzi)
o
Divisione
Fanteria Giovani Fascisti comandata dal Generale di divisione Guido
Boselli, formata da:
§
I/1° Giovani
Fascisti
§
XI//8°
bersaglieri
§
IX battaglione
autonomo
§
III/47°
Panzergrenadiere
§
I e II/361°
Panzergrenadiere
§
Cinque gruppi
di artiglieria (41 pezzi)
o
Divisione
Fanteria Trieste, comandata dal Generale di divisione Francesco La Ferla,
formata da:
§
III/ 65°
fanteria
§
I/66° fanteria
§
II/66° fanteria
(resti del IV battaglione granatieri)
§
III/66°
fanteria( resti della Divisione Folgore)
§
X battaglione
Camicie nere “M”
§
Battaglione
paracadutisti (Luftwaffenjäger)
§
82° battaglione
complementi
§
Cinque gruppi
di artiglieria ( 30 pezzi)
·
XXI Corpo
d’Armata comandato dal Generale di corpo d’armata Paolo Berardi, formato da:
o
Divisione
Fanteria Pistoia comandata dal Generale di Divisione Giuseppe Falugi,
formata da:
§
II/35° fanteria
§
II e III/36°
fanteria
§
340°
battaglione mitraglieri
§
Iª gruppo
corazzato Novara
§
Due gruppi di
artiglieria (15 pezzi )
o
164ª
Divisione leggera comandata dal Generalleutnant Kurt von Liebenstain,
formata da:
§
II/115°
Panzergrenadiere
§
II/115°
fanteria Spezia
§
I/382°
Grenadiere
§
I e II/433°
Panzergrenadiere
§
220° gruppo
esplorante
§
Due gruppi da
campagna ( 14 pezzi)
o
Divisione
Spezia, comandata dal Generale di Divisone Arturo Scattini, formata da:
§
III/125°
fanteria
§
I/126° fanteria
( già 84° battaglione complementi)
§
II/126°
fanteria (già 350° guardia alla frontiera)
§
III/126°
fanteria
§
106°
battaglione contro carri
§
252°
battaglione mortai da 81 mm.
§
281°
battaglione mitraglieri guardia frontiera
§
I/47°
Grenadiere
§
Cinque gruppi
di artiglieria (20 pezzi)
Nelle immediate retrovie era
schierata la riserva d’Armata composta da:
§
5° bersaglieri
su XIV e XXII battaglione
§
Reggimento
Duca d’Aosta su due battaglioni
§
I/35° fanteria
Pistoia
§
15° Panzer
Division comandata dal Generalleutnant Willibald Borowietz , formata da:
§
I/115°
Panzergrenadiere
§
8°
Panzerregiment
§
Gruppo
corazzato al comando del Generale Piscicelli
LA SITUAZIONE
POLITICO – STRATEGICA
Come già avvenne per le
precedenti linee difensive anche in questo caso da Roma pervennero ordini di
resistenza ad oltranza contro gli attacchi nemici. Questa volta però si era
consci che la difesa ad oltranza era l’unica maniera per permettere alle truppe
dell’asse di restare ancora in Africa settentrionale. Queste le parole di
Mussolini a riguardo:
Ho parlato a lungo con il Fűhrer, BISOGNA resistere fino a quando è
possibile. Il Fűhrer ha fatto un esempio: Stalingrado. Ventidue quartieri della
città erano nelle nostre mani, solamente due erano rimasti per l’occupazione
definitiva. I russi non hanno mollato, abbiamo avuto un rovescio della
situazione. BISOGNA resistere non solo fino a mezzogiorno, ma anche fino ad un
quarto dopo mezzogiorno.
Se resistiamo possono crearsi situazioni strategiche nuove. Se cediamo gli
americani e gli inglesi libereranno tre armate più le divisioni francesi.
BISOGNA resistere. Questo deve essere l’unico pensiero della gente sul posto;
nessuna speranza, solo quella di resistere fino alla fine. In questo senso ho
dato già gli ordini all’eccellenza Messe.
Già a metà marzo, quando si
era ancora sulla linea del Mareth, il comandante del comando supremo, generale
Ambrosio, aveva espresso le sue considerazioni sulla campagna africana. Egli
aveva affermato infatti che :
1.
Il possesso della Tunisia è subordinato ad un deciso predominio aereo e
ad un continuo ed adeguato afflusso dei rifornimenti. Queste due condizioni ora
non sussistono […]
2.
La prospettiva di cui sopra, cioè l’eventualità che la Tunisia non possa
essere mantenuta, comporta di considerare subito due questioni:
a.
Se convenga gettare mezzi e uomini nella fornace Tunisia, facendo il
gioco del nemico, oppure riservare gli uni e gli altri per i gravi compiti
avvenire. […]
aggiungendo che:
La Tunisia è ormai
perduta è solo questione di tempo.
A Roma però non si voleva
cedere di fronte all’avanzata nemica neanche di un metro e si decise di
utilizzare sino all’ultimo mezzo nella “fornace Tunisia”.
Mussolini consapevole della
grave situazione e con il sospetto di un disimpegno tedesco sul fronte tunisino,
ormai quasi irrimediabilmente compromesso, si recò a colloquio da Hitler per
essere rassicurato sul da farsi, ma soprattutto per proporre al Fűrher un pace
di compromesso con l’Unione Sovietica. In quello stesso periodo anche Romania e
Ungheria, membri del patto tripartito e impegnate sul fronte russo,
manifestarono le loro difficoltà nel continuare a combattere contro un nemico
che sembrava disporre di risorse inesauribili.
A riguardo l’intento del Duce
era:
[…] se fosse possibile arrivare ad una seconda pace di Brest – Litovsk (e
questo si può fare dando alla Russia dei compensi nell’Asia centrale), essa deve
essere stipulata in modo tale che sia realizzata una linea difensiva che
distrugga qualsiasi iniziativa nemica con il minimo impegno per le forze
dell’Asse.
Ovviamente tutto ciò avrebbe
permesso di utilizzare le forze impegnate sul fronte Russo in Tunisia al fine di
poter controbattere la superiorità dimostrata sino a quel momento dalle forze
anglo americane.
L’idea di Mussolini trovò
l’approvazione anche dei più fedeli collaboratori di Hitler quali Goering e Von
Ribbentrop, che vedevano nell’idea del Duce un efficace metodo per chiudere il
fronte orientale che si stava rivelando molto più problematico di quanto
stimato.
Un tentativo in tal senso fu
fatto dallo stesso Ribbentrop che affermò:
Sono del parere che il Fűhrer abbisogni di un deciso alleggerimento per la
condotta della guerra, e prego perciò che mi si diano immediatamente pieni
poteri per mettermi in comunicazione con Stalin, attraverso la signora
Kollontay, ambasciatrice sovietica a Stoccolma, al fine di concludere la pace,
e ciò, se necessario, contro la rinuncia alla maggior parte dei territori
conquistati ad Oriente.
Al mio accenno a una rinuncia ai territori orientali, il Fűrher reagì subito
in forma violenta. Balzò in piedi, rosso in volto, m’interruppe e mi disse con
inaudita violenza che desiderava parlare con me esclusivamente dell’Africa e di
null’atro. La forma della sua intemperanza mi rese per il momento impossibile
una ripetizione della mia proposta.
Anche il tentativo di
Mussolini, che ormai non godeva più del carisma che lo aveva caratterizzato
durante la conferenza di Monaco del 1939, andò a vuoto. La guerra che aveva
voluto Hitler contro le armate di Stalin era sostanzialmente di natura
ideologica e difficilmente avrebbe potuto trovare soluzione in un compromesso
politico.
Per rassicurare l’Italia il
Fűrher disse a Mussolini:
Duce, le garantisco che l’Africa sarà difesa. La situazione è grave ma non
disperata. Di recente ho letto la storia dell’assedio di Verdun nella prima
guerra mondiale; Verdun resistette con successo agli attacchi dei migliori
reggimenti tedeschi. Non vedo perché questo non dovrebbe accadere anche in
Africa. Col vostro appoggio, Duce, le mie truppe faranno di Tunisi la Verdun del
Mediterraneo.
La Germania
assicurò inoltre di impegnarsi sino in fondo con l’Italia nella difesa della
Tunisia, soprattutto perché lo scacchiere africano assumeva una valenza molto
più importante nel panorama strategico europeo. Infatti esso serviva soprattutto
a :
1.
Legare le forze anglo – americane dell’esercito, della marina e
dell’aviazione ed il tonnellaggio in Nord Africa che sarebbero altrimenti
disponibili per altre operazioni.
2.
Mantenere lo sbarramento della strada per la Sicilia per costringere così
ulteriormente il nemico ad un impiego di tonnellaggio che in relazione con i
successi della nostra guerra dei sottomarini potrebbe notevolmente influire
sulla condotta generale della guerra.
3.
Rendere difficile un immediato attacco al Sud Europa per il quale
Tunisi sarebbe il migliore trampolino. Ogni giorno di resistenza a Tunisi è un
grande guadagno che potrebbe portare ad una situazione completamente nuova per
risultati attualmente non ancora prevedibili.
Ma la situazione si faceva di
giorno in giorno sempre più critica e gli sviluppi sul fronte orientale non
prospettavano nessun miglioramento in favore delle truppe dell’Asse.
Buone notizie inoltre non
giungevano neanche dalla Marina e l’Ammiraglio Girosi in una lettera del 27
marzo affermava:
Non è più possibile adoperare i pochi cacciatorpediniere rimasti in altre
missioni di trasporto truppe, che inevitabilmente provocherebbero nuove perdite.
Occorre anche ridurre l’attività per la posa delle mine. Ogni sforzo sarà fatto
per ripristinare l’efficienza dei cacciatorpediniere danneggiati, attualmente in
riparazione,al fine di poter al più presto possibile disporre anche di nove
unità per l’accompagnamento, minimo indispensabile, delle tre corazzate tipo
Vittorio Veneto.
Il trasporto truppe sarà ripreso coi cacciatorpediniere ex francesi: i primi
due potranno essere in linea entro tre settimane, gli altri due seguirono a
breve intervallo di tempo.
Per poi puntualizzare il
giorno 28:
E’ assolutamente sconsigliabile, da ogni punto di vista, insistere nel voler
trasportare truppe in Tunisia per via di mare […]. La probabilità di passare si
fa ogni giorno sempre più scarsa. Il rischio è ancora accettabile per il
materiale, ma non lo è per gli uomini. Ogni trasporto truppe affondato
corrisponde negli effetti materiali ad una battaglia perduta ed ha riflessi
ancor più gravi nel campo morale. Nell’attuale situazione marittima tutti i
trasporti di truppe per la Tunisia debbono esser affidati alla via aerea […]
Fu deciso così di
organizzare, in collaborazione con la Luftwaffe, trasporti aerei per la Tunisia,
ma la situazione rimaneva alquanto grave. Mediante rotta aerea potevano essere
trasportati in Africa solamente 1.500 uomini al giorno, numero troppo esiguo per
poter contrastare in modo efficace le forze nemiche. Lo stesso von Arnim,
frustrato dalla situazione che si stava creando rispose a chi lo accusava di
guardarsi troppo alle spalle, dicendo:
E’ esatto, mi guardo sempre alle spalle, ma è per vedere se arrivano navi e
non ne vedo arrivare. Non è con l’ottimismo che carico i miei cannoni […] Se
non ricevo niente sulla nuova linea (Akarit) entro due giorni sarò morto.
Queste invece le cifre del
materiale giunto alla Iª Armata in aprile:
·
Per l’Esercito:
L battaglione bersaglieri
(quasi completo)
LI battaglione bersaglieri
(Iª compagnia circa)
58 autocarri
13 autoblindo del “Reco Lodi”
196 fucili mitragliatori e
mitragliatrici
10 mortai da 81 mm.
35 mitragliere da 20 mm.
23 pezzi controcarro da 47
mm.
13 pezzi piccolo calibro
6 pezzi medio calibro
5.606.700 cartucce armi
portatili
103.100 bombe a mano
73.000 bombe da mortaio
297.300 colpi da 20 mm.
102.200 colpi da 47 mm.
175.860 colpi piccolo calibro
41.000 colpi medio calibro
47.500 colpi contra aerea
4.241 tonnellate di
carburanti
100 tonnellate di
lubrificanti
1.005 tonnellate di materiale
genio (mine, esplosivo, attrezzi, sacchi a terra, reticolato, ecc..)
·
Per
l’Aereonautica:
186 tonnellate di carburante
153 tonnellate di materiale
vario
·
Per la Marina:
284 tonnellate di materiale
vario
·
Per tutte le
forze tedesche in Tunisia:
13 pezzi d’artiglieria
38 pezzi corazzati
165 automezzi
8.360 tonnellate di
carburante
9.938 tonnellate di materiale
vario
Rifornimenti che costrinsero
gli uomini ad economizzare qualsiasi risorsa, dalla benzina per i pochi
automezzi rimasti, alle munizioni da utilizzare contro il nemico.
Pur riscontrando difficoltà
sempre crescenti, in ogni combattente impegnato in terra d’Africa vi era orami
la convinzione che la difesa del suolo Tunisino equivaleva alla difesa della
propria patria. Questo il discorso pronunciato da Messe alla vigilia
dell’attacco anglo americano alla linea di Enfidaville:
Il nemico sta per attaccarci ancora una volta per tentare di ributtaci dalle
nuove posizioni occupate.
Voi lo conoscete il nemico; è lo stesso al quale avete resistito
vittoriosamente sulle posizioni di Mareth, rimaste inviolate in virtù del vostro
valore, è lo stesso al quale avete opposto nuova, accanita resistenza agli
Chotts, lo stesso infine che invano ha cercato, durante il ripiegamento, di
accerchiare e distruggere questa Iª Armata che egli apprezza e teme.
Noi lo attendiamo sulle posizioni raggiunte, che vengono migliorate e
rinforzate col lavoro incessante di ogni ora, con l’animo determinato a non
lasciarlo passare.
E’ qui che i soldati d’Italia e di Germania difendono la Patria lontana, il
loro focolare dalla minaccia d’invasione straniera.
Non dobbiamo arretrare di un passo; è questo un imperativo categorico che
proviene dalla nostra coscienza di soldati.
Nella esaltazione del supremo dovere che tutti ci avvince, noi sapremo
moltiplicare le nostre forze ed il nemico non passerà. Le linee sulle quali ci
siamo fermati diverranno un bastione insuperabile contro cui ogni slancio sarà
inesorabilmente spezzato.
Soldati italiani e tedeschi della Iª Armata
In un’ora decisiva per i destini dei nostri paesi alleati, affido a voi
questa precisa consegna: resistere sul posto fino all’estremo.
La vittoria e la riconoscenza della Patria saranno il giusto premio al vostro
valore.
IL CAPOSALDO DI
TAKROUNA
Il punto centrale e più
avanzato della linea difensiva di Enfidaville era costituito dall’altura di
Takrouna. Questo colle roccioso, che sulla propria cima vedeva sorgere un
paesino costituito da casette di fango, rappresentava un importante punto
strategico visto che da li era possibile controllare la via che conduceva a
Tunisi. L’importanza del caposaldo di Takrouna è evidenziata anche in questo
stralcio del XX Corpo d’Armata:
1.
quale elemento di fiancheggiamento delle due cortine costituite dal
fronte della Divisione Trieste e dal fronte delle divisioni GG. FF. e 90ª ;
2.
quale pilastro per la manovra difensiva sul fronte del Corpo d’Armata,
data al sua possibilità di resistenza ad oltranza;
3.
con gli effetti morali e materiali della sua azione alle spalle di
un nemico che tentasse di penetrare lungo le soglie più importanti dello
schieramento difensivo.
La difesa del baluardo del
Takrouna venne affidato al I/66° fanteria, già distintosi sulla linee di Mareth
e di Akarit. Per rimarcare l’importanza del presidio, al capitano Politi,
comandante del battaglione, venne dato il nome in codice di Galliano, mentre al
Takrouna venne assegnato il nome di Macallè. In questa maniera si volle
rievocare, esaltando il morale degli uomini che si apprestavano alla difesa
estrema, un importante fatto d’arme avvenuto nella guerra coloniale etiopica del
1895 – 1896. In quell’occasione il forte di Macallè, presidiato da 1.200 uomini
agli ordini del maggiore Galliano, cedette all’assedio in cui era posto
solamente dopo duri e sanguinosi scontri, meritandosi ala fine l’onore delle
armi.
Fu con questo spirito che il
Iª/66 fanteria approntò tre capisaldi difensivi lungo le pendici del Takrouna:
·
sulle pendici più basse , fronte a est, per sorvegliare le
provenienze dal Dj. Bir che si presentavano come le più agevoli per la scalata
del colle, era schierata la 2° compagnia, suddivisa in quattro centri di fuoco,
al comando del capitano Renato Ricci.
·
Più in alto all’incirca a mezza costa, e con fronte a Nord era
dislocata la 1° compagnia anch’essa suddivisa in quattro centri di fuoco, agli
ordini del capitano Gastone Giacomini.
·
Più in alto ancora, sulle pendici che guardavano ad ovest e a
sud, si trovava la 4° compagnia comandata dal capitano Francesco Sardo e
suddivisa pur essa in quattro centri di fuoco.
A presidiare la vetta venne
destinato un plotone del 47° fanteria tedesco, che però giunse sul posto solo la
sera del 19, vigilia della battaglia, e non fu in grado di approntare alcuna
opera difensiva adeguata..
A rendere un po’ più agevole
la difesa c’era infine anche l’aspra natura del terreno, descritta pure dal
comandante della Divisone Trieste generale La Ferla:
Takrouna si difende con le bombe a mano e con armi automatiche appostate in
caverne a sbarramento dei pochi impervi accessi che potrebbero farne tentare al
nemico la scalata.
Le ampie numerose caverne naturali rendono possibili la protezione dei
depositi e dei rincalzi anche sotto il fuoco tambureggiante dell’artiglieria
nemica.
La configurazione del terreno e la scarsa profondità diminuiscono
sensibilmente l’efficacia del tiro dell’artiglieria nemica.
La configurazione del terreno rende inoltre possibile la postazione di “pezzi
traditori” e la protezione contro il tiro nemico degli altri pezzi.
Per rimarcare la difesa ad
oltranza del Takrouna al Capitano Politi e al comandante del 47° tedesco vennero
affidate le bandiere di guerra italiane e tedesca, che come esige l’etica
militare devono essere difese sino all’ultimo uomo. Questo l’ordine di servizio
a riguardo:
Z.O., 18 Aprile 1943 – XXI E.F.
All’eccellenza Generale d’Armata Giovanni Messe
Comandante Iª Armata
Questa mattina in nome della Patria e Vostro, alla presenza di una
rappresentanza in armi del presidio di Takrouna, ho consegnato le bandiere
italiana e tedesca al comandante del caposaldo che ha preso impegno che esse
verranno difese fino all’ultimo uomo, come Vostra consegna.
Il generale comandante
F. la Ferla.
A completare lo schieramento
difensivo contribuiva inoltre l’altura del Dj Bir, situata sulla sinistra del
Takrona e presidiata da una compagnia del 47° reggimento tedesco. Il compito dei
questa postazione era quello di proteggere il versante est del Takrouna.
Per impedire l’avanzata
nemica il I/66° disponeva di una sezione di artiglieria da 65/17, comandata dal
tenente Sapuppo e dislocata sulle pendici nord e una batteria da 87, 6 p.b.,
preda bellica, dislocata al disopra del primo centro di fuoco tenuto dalla Iª
compagnia.
Diretti sulle posizioni del
Takrouna c’erano gli uomini del 28° battaglione maori, appartenenti alla 5°
Brigata inquadrata nella 2° divisone neozelandese, che disponevano di:
each having under command one six-pounder anti-tank
troop, one platoon of machine guns, a detachment of engineers, and two or three
Crusader tanks to crush gaps in cactus hedges. The inter-battalion boundary ran
north and south practically through the peak of
Takrouna, which
nevertheless was the responsibility of 28 Battalion, although 21 Battalion was
to be prepared to assist if required
Alle ore 22:30 del 19 Aprile
le artiglierie nemiche aprirono il fuoco contro le la linea di Enfindavile,
concentrandosi soprattutto sul settore del Takrouna. Quando alle 06:00 del 20 il
fuoco dell’artiglieria cessò, ebbe inizio il temuto assalto della fanteria.
Ad essere investito per primo
dal violento urto della fanteria Neo zelandese fu il caposaldo di Djebel Bir,
che dopo una strenua resistenza dovette cedere alle preponderanti forze nemiche.
Così facendo i britannici gettarono le basi per poter sferrare il loro attacco
nel settore sud- est del Takrouna. Nel frattempo una minaccia agli uomini del
I/66° veniva portata anche dal settore sud – ovest dove altre compagnie neo
zelandesi sferrarono un pesante attacco contro gli uomini comandati dal capitano
Ricci. Proprio in questo settore lo scontro si rivelò da subito molto violento.
Ecco cosa scrive nella propria relazione il generale Taddeo Orlando:
La configurazione del terreno (del Takrouna) pieno di anfratti e di roccioni,
permette al nemico, che si trova fermato dalla pronta reazione dei pezzi da 88 e
dei centri di fuoco della 2ª compagnia, di infiltrarsi nei ridossi meridionali
del massiccio e di tentarne la salita da sud – ovest. Ma qui cade sotto il fuoco
preciso della 4° compagnia che ne fa strage (il cappellano conterà più tardi
oltre 150 morti) e cattura alcuni prigionieri, tutti ubriachi.
L’attacco fu respinto, come
conferma il Major-General W.G. Stevens:
So on the west side of
Takrouna,
although the scene of much courageous fighting, the brigade attack had failed
Ciò nonostante le
preponderanti forze nemiche continuarono la loro pressione mettendo in grave
difficoltà i difensori. Sempre il generale Taddeo scrive:
L’azione nemica si fa sempre più violenta. Si vedono affluire su autocarri
ingenti rinforzi che, sebbene decimati dal tiro preciso della nostra artiglieria
diretto efficacemente dall’osservatorio di Takrouna, riescono tuttavia ad
alimentare l’attacco
La situazione della 2° compagnia si fa di momento in momento più grave.
Sebbene ferito il tenente Fortunato (comandante della batteria da 87,6) non
vuole abbandonare i suoi pezzi che provocano vuoti paurosi nelle fanterie
nemiche.
Gli uomini della 2° compagnia
si prodigarono con tutte le loro forze impegnandosi persino in combattimento
copro a copro per non cedere metri all’avanzata nemica, ma alla fine furono
sopraffatti.
Anche negli altri settori del
Takrouna le cose non andavano per il meglio. Il Capitano Politi, messosi alla
testa del plotone comando, respinse un assalto diretto contro le proprie
posizioni, mentre feroci risultarono anche gli scontri sostenuti dalla 1° e 4°
compagnia. Queste alcune testimonianze:
Più volte il portaordini Aurelio Sbottoni, compromessi gli altri
collegamenti, si deve aprire la strada a colpi di bombe a mano pere recare
comunicazioni e ordini da e per il comando di battaglione e alle compagnie
dipendenti.
Presso l’infermeria del battaglione il tenente medico dottor Moretti viene
assalito con i portaferiti e sta per soccombere, ma è liberato dal cappellano
don Maccariello che a colpi di bombe a mano tiene in rispetto il nemico.
Il sergente Bressanini, della 4ª compagnia, dopo aver compiuto atti di
straordinario valore, è colpito da una raffica di Thompson all’addome. Mentre, a
terra, è soccorso dal cappellano che gli impartisce gli ultimi conforti della
religione, viene nuovamente colpito. Sentendo prossima la fine dice: “Ho fatto
tutto il mio dovere. Per me è finita. Salvate l’Italia”.
Con mano non più sicura estrae a fatica una penna, ma poiché non scrive la
intinge nel proprio sangue e verga su un pezzo di carta che un portaferiti gli
porge le parole “ W l’Italia. W il Re”.
Fra i caduti si aggiunse
anche il Capitano Giacomini, comandante della 1ª compagnia, che nel respingere
con successo un attacco contro i suoi uomini veniva mortalmente ferito alla gola.
La difesa si faceva di ora in
ora sempre più drammatica, il nemico lentamente, ma inesorabilmente, avanzava
lungo le pendici del Takrouna conquistando importanti posizioni e penetrando nel
villaggio situato sulla cresta.
Era ormai chiaro che da soli
gli uomini del I/66° non avrebbero potuto arginare a lungo l’ondata di soldati
appartenenti alla divisione neo zelandese, fu per questo che il comando della
divisione Trieste decise di far affluire rinforzi in sostegno del Capitano
Politi. Tra loro anche gli uomini del 285° battaglione Folgore.
LA RICONQUISTA DI
TAKROUNA
Alle ore 9:00 del 20 aprile
iniziarono le operazioni per la ripresa del Takrouna. Dopo un intenso fuoco di
artiglieria venne fatta avanzare verso il nemico una compagnia di granatieri di
Sardegna, anche’essi inquadrati nella divisione Trieste dopo gli sfortunati
eventi di El Alamein. Raggiunte le pendici del Takrouna i granatieri,
bersagliati dai fanti neo zelandesi ben posizionati, vennero decimati e alle ore
11:00 la loro azione di contrassalto veniva bloccata irrimediabilmente.
Alle ore 11:30 il comandate
del 66° diede ordine agli uomini del 285° battaglione di avanzare. Il
battaglione Folgore, posto sotto il comando del Capitano Lombardini, poteva
contare su circa 180 “folgorini” inquadrati in due compagnie, quella del tenente
Giampaolo e quella del tenente Orciuolo. Questi uomini erano i supersiti della
Divisione Folgore, formata da paracadutisti e immolatasi nella battaglia
di El Alamein.
Con semplici parole il
Capitano Lombardini comunicava ai suoi uomini l’inizio del contrassalto:
Rivolgiamo il pensiero alle nostre famiglie lontane ed andiamo a riprenderci
Takrouna.
Inquadrati e pronti per il
combattimento gli uomini di Lombardini si incamminarono verso Takrouna cantando
l’inno dei paracadutisti. Tutti erano consapevoli che il compito a loro
assegnato avrebbe causato morti e feriti, ma coerenti con il loro appellativo di
arditi del cielo, e con la spavalderia che da sempre li contraddistingueva, si
apprestarono a compiere il loro dovere in difesa dell’Italia. Infatti la totale
perdita del Takrouna avrebbe messo in serio rischio tutta la linea difensiva di
Enfinadaville dando agli anglo americani la facoltà di raggiungere Tunisi da cui
sarebbe stato poi possibile guidare un invasione verso le coste della Sicilia.
Purtroppo la difficile situazione in cui versava al Iª armata si rifletté anche
sui “folgorini”. Come ci racconta il sotto tenente Eligio Marini, egli si
diresse all’attacco armato solo di pistola e riuscì a recuperare quattro bombe
a mano da un altro reparto non impegnato nell’azione.
Giunti alle pendici del
Takrouna lo spettacolo che si presentò alle due compagnie paracadutiste fu
desolante. dice Nino Arena:
Si supera con circospezione un uadi asciutto che defila gli uomini alla vista
del nemico, poi appaiono i segni dello scontro precedente con corpi di caduti
italiani e tedeschi, inframmezzati fra i resti dello scontro, numerosi morti
neozelandesi. Più avanti si scopre con sorpresa, un esiguo gruppo di granatieri
con una Breda 37 comandati da un giovane ufficiale a nome Tolazzi. Sono li dal
mattino, unici superstiti dello scontro e attendono ansiosi il da farsi, felici
di trovare ancora altri italiani.
Per scardinare le tenaci
difese neo zelandesi i paracadutisti decisero di attuare una manovra a tenaglia,
attaccando da due lati. La compagnia comandata dal Tenete Giampaolo si lanciò
all’attacco dal versante orientale, mentre quella del Tenente Orciuolo
procedette su quello occidentale. il Sottotenente Andreolli descrive così
l’azione:
Abbozzata velocemente una tattica a tenaglia, un gruppo aggrediva la rocca
sulla destra, l’atro sulla sinistra dandosi appuntamento in cima al villaggio
presso quella che avrebbe dovuto essere stata una piccola moschea.
I paracadutisti impegnati sul
lato occidentale riuscirono senza grossi problemi a raggiungere la meta, mentre
più difficoltosa fu la marcia di coloro che procedettero da oriente. Proprio su
questo lato che durante l’assalto rimasero uccisi il Sottotenente Righetti,
Cubelli, Dini, Vigna, Maioli e tanti altri. Il tentativo italiano è descritto
anche nelle fonti neozelandesi che affermano:
Italians had divided into two parties and were attacking
from the north-west corner of the ledge. The Italians made a really determined
effort to climb the track
Gli scontri diventarono di
ora in ora sempre più violenti, dividendosi in una miriade di azioni solitarie,
ecco cosa scrive a proposito Nino Arena:
Negli scontri ravvicinati , rimane ferito il sergente Gado che continua a
battersi fra le case e soltanto l’energico intervento di Andreolli lo costringe
a farsi medicare pur assolvendo l’incarico di scortare in basso i prigionieri.
Ma la situazione non fu
affatto facile. Da un piazzola raggiunta dopo furiosi scontri ecco cosa si
presentava agli occhi dei paracadutisti:
[…] all’orizzonte,
nella piana, si poteva scorgere una marea di carri armati in attesa di mettersi
in movimento e che proprio alla base della rocca, in terra nemica , vi
parcheggiava un Matilda.
L’attacco però continuava
inesorabilmente. Per snidare un gruppo di nemici asserragliato su una cima ben
difesa, il capitano Lombardini decise di radunare tutti quei paracadutisti
provenienti dagli alpini per impegnarli in una ardita scalata di circa 40 metri.
scrive ancora Arena:
Corde di fortuna, armamento leggero, pugnale, bombe a mano e tanta voglia di
fortuna. Anche un tedesco di Baviera, fa capire a gesti e con poche parole il
suo desiderio di partecipare all’impresa, usando più volte la parola “gebirge”
(monti). La missione va esplicata nel massimo silenzio, aiutandosi l’un l’atro
per superare i punti più difficili fino al punto fissato per radunarsi,
riprendere fiato e pi di slancio all’attacco urlando a più non posso “Folgore”
lanciando bombe a mano e superando raffiche di mitra.
Scalata silenziosa col carico delle armi e il cuore che batte forte con
l’ansimare soffocato del respiro, con fraterna collaborazione come si usa fra
alpinisti, con i muscoli che tendono allo sforzo, attendono i ritardatari per
scattare assieme.
Contemporaneamente a questa
ardita azione il Sottotenente Andreolli assieme ai suoi uomini fu impegnato in
una azione diversiva atta però anche ad eliminare alcuni cecchini nascosti in un
gruppo di casette isolate. Questo il suo racconto:
I contendenti venivano brutalmente alle mani: paracadutisti e maori, questi
ultimi sbucati dalle casupole e dai vicoli, si affrontavano a viso aperto; i
paracadutisti, mossi da una rabbia tremenda, attaccavano con pioggia di bombe a
mano, sicchè il risultato non poteva essere che uno: gli avversari terrorizzati,
si davano alla fuga lanciandosi giù lungo i dirupi in cerca di salvezza, mentre
altri si buttavano tremanti in ginocchio, alzando piangenti il crocifisso od il
rosario, per indurre i paracadutisti a pietà per cui, a questo punto, nessuno
ovviamente intese toccare un capello.
Ma immediatamente scattava il
contrassalto nemico e lo stesso Andreolli, ferito da una pallottola fu
costretto a ripararsi in una vicina stalla. Qui i pochi paracadutisti
superstiti tentarono un ultima sortita prima di essere catturati, ecco la
testimonianza di quei drammatici eventi:
[…] dopo essere stato colpito da una pallottola, a ripararsi con i suoi
all’interno di una stalla; fu tosto loro addosso un gruppo di maori accorsi dopo
aver assistito, di lontano, alla sconfitta degli infelici commilitoni. Il loro
odio era incontenibile sicchè iniziavano, pur non avendo il coraggio di
penetrare nella stalla, a lanciare al suo interno, dalla porta e dal tetto le
“ananas”, il cui tremendo fragore stordiva i difensori mentre il piccolo locale
veniva invaso da mille schegge impazzite. Ma gli assediati intendevano resistere
ad ogni costo […]
Ad un certo punto una scheggia di bomba a mano raggiungeva l’ufficiale,
già ferito, e gli trapassava una mano mettendo fuori uso nel contempo pure il
mitra da lui impugnato. Altri soldati erano stati raggiunti da schegge in varie
parti del corpo, perdevano sangue, accusavano conati di vomito. Oltre a tutto in
quella maledetta stalla, satura di fumo provocato dallo scoppio delle potenti
“ananas”, si rischiava di rimanere soffocati. Comprese allora come fosse
inevitabile una sortita seguita da un balzo giù per i dirupi con il rischio,
nell’impatto, di spezzare gli arti, ma di finire in compenso felicemente nelle
braccia dei commilitoni. […] quei pochi uomini si proiettavano verso l’esterno,
ma i maori erano li ad attenderli, s’avventavano su di loro con le baionette
accingendosi ad infilzarli; uno dei nemici pistola in pugno, scorgeva i gradi
sui polsini della giacca dell’ufficiale e, ritenendo nella sua ignoranza di aver
beccato chissà quale ricca preda, lo scaraventava con orgoglio, dopo averlo
pestato duramente, ai piedi del suo ufficiale.
Nonostante le innumerevoli
difficoltà e il pesante tributo di sangue il contrattacco guidato dalla
Folgore e supportato dagli uomini di Politi riuscì a riprendere il quasi
totale controllo del Takrouna. A riguardo Messe scrisse:
Sul Takrouna la lotta è veramente epica; i centri di fuoco sulle falde
dell’altura continuano a fulminare i reparti nemici che vengono letteralmente
decimati; anche i nostri elementi sono assoggettati al fuoco concentrico nemico
e al tiro di cecchinaggio da parte di elementi annidatisi nelle case sulla vetta
del cocuzzolo, vero torrione quasi inaccessibile. Contro questi partono
all’attacco, col classico slancio dei paracadutisti, le compagnie del
battaglione di formazione Folgore. Per tutto il pomeriggio fino a sera e nella
notte è una vera caccia di casa in casa, di sasso in sasso; le perdite sono
micidiali per entrambi i contendenti.
Ma gli inglesi, capita
l’importanza del Takrouna, decisero di far affluire nuove forze per sferrare un
ennesimo attacco. Il giorno 21 aprile altre truppe Neo Zelandesi si gettarono
all’assalto per conquistare le posizioni italiane.
Gli scontri
furono feroci:
The Italians lobbed a grenade into a building where the
wounded were gathered; it is not suggested that they knew the men were wounded,
but the grenade killed most of them. The Maori reaction was ferocious and
Italians, whether they wanted to surrender or not, were shot, bayoneted, or
thrown over the cliff
I capisaldi riconquistati il
giorno 20 dagli uomini del 285° battaglione man mano dovettero cedere alla
sempre più violenta reazione nemica. Alle 12:45 di quello stesso giorno il
Capitano Politi telegrafò al comando:
Situazione criticissima, disperata stop. Abbiamo sparato le ultime cartucce
stop. Le perdite sono ingenti stop. Il nemico ha occupato quasi totalmente le
nostre posizioni stop. Moltissima la fanteria nemica che aumenta sempre stop. In
basso hanno moltissimi carri armati stop. Situazione disperata stop. Fare
presto fare presto Politi.
Immediatamente i vertici
della Iª Armata decisero di mandare in rinforzo dei coraggiosi difensori la 103°
compagnia arditi, forte di 80 uomini. Purtroppo lo sbarramento di artiglieria
nemico vanificò ogni tentativo da parte di questi arditi di raggiungere il
Takrouna. Politi, i suoi uomini e i paracadutisti accorsi in loro aiuto,
risultarono così totalmente isolati dal resto dell’armata, ciò nonostante essi
continuarono a combattere. Alle ore 17:05 il comando della Divisone Trieste
captò l’ultimo messaggio proveniente da Takrouna che comunicava l’inizio
dell’assalto alla postazione radio da parte del nemico. Nel piccolo villaggio
situato sulla cresta dell’altura si consumò così l’ultimo sacrifico di uomini
che dettero tutte le loro forze per portare a termine gli ordini ricevuti. I
combattimenti proseguirono ancora molte ore come ci testimonia il messaggio
rinvenuto sul corpo de sottotenente paracadutista Silvestri, caduto mentre
cercava di raggiungere il comando della Trieste:
21.4.43 – Ore 19,30. siamo da tempo rimasti senza munizioni. Tutte le armi
di Sardo sono fuori uso. Davanti a lui carri armati hanno inchiodato i centri di
fuoco con raffiche di mitragliatrice e tiri controcarro. Il nemico dall’alto
della moschea ci ha intimato la resa. Abbiamo atteso invano gli aiuti, quando
arriveranno sarà troppo tardi. Il I/66°, la Folgore, i Granatieri hanno sparato
fino all’ultima cartuccia e si battono con le ultime energie rimaste. Se ci
faranno prigionieri potremo dire di esserci battuti da veri soldati e di aver
compiuto fino all’ultimo il nostro dovere. W l’Italia – W il Re.
Decimati dal fuoco nemico,
senza munizioni, ai difensori del Takrouna non restò altro che arrendersi. In
mano nemica cadde anche il comandante del presidio:
Dalla grotta del comando di battaglione della Trieste, alla base del colle,
vedo uscire, a mano alzate, il Capitano Politi, con a fianco il nostro tenente
Pellini, questi con un telo da tenda ripiegato che gli pende da un braccio. E
poi dietro quattro o cinque soldati.
Stessa sorte tocco poi allo
stesso Marini che racconta:
Anche noi ci alziamo, e siamo costretti ad alzare le mani. Questa volta è
veramente finita niente rimpatrio per ferita o malattia, niente barca per
raggiungere la Sicilia né camionetta a Kairuan per fuggire nel Marocco spagnolo.
Scendiamo al piano verso gli inglesi, ci contiamo, siamo, in tutto, rimasti in
piedi trentacinque paracadutisti.
Molti però scelsero di non
consegnarsi al nemico riuscendo a fuggire.
Per sfuggire alla cattura o alla morte, ai pochi superstiti non rimaneva
altra possibilità di scampo se non quella di sfondare il muro e calarsi con una
fune di fortuna lungo la parete rocciosa.
Si chiudeva così l’epica
difesa del Takrouna che aveva sbarrato per ben due giorni la strada alla 2ª
Divisione Neo Zelandese.
Ecco il testo del bollettino
di guerra N°1.062 datato 22 aprile:
[…] nella tenacissima difesa di un elemento avanzato della nostra linea si è
particolarmente distinto il Iª battaglione del 66° reggimento fanteria Trieste
che, al comando del cap. Mario Politi da Sulmona, ha inflitto ingenti perdite
alle unità neozelandesi attaccanti.
Per rendersi veramente conto
delle forze che assediarono Takrouna, basti pensare a ciò che vide il
paracadutista Marini, catturato dagli inglesi:
Ci fanno salire su una Jeep e via sulla litoranea per andare al loro comando
per interrogarci. Percorriamo circa quindici chilometri. Sulla strada una
colonna senza soluzione di continuità di cannoni, carri armati, blindati, in
tale numero che sono fermi perché forse non hanno spazio sufficiente per
schierarsi in combattimento.
Questo invece le cifre
snocciolate dal colonnello Ettore Pettinau:
[…] L’eloquenza delle cifre dà l’idea della violenza della lotta:
dal presidio costituito inizialmente da circa 560 uomini rinforzato appresso
da circa 300 uomini, i superstiti illesi sono risultati una cinquantina. La gran
parte si è immolata alla Patria.
Innumerevoli ed epici gli eroismi individuali.
Specchio delle perdite
sui combattimenti di Takrouna
(19 – 21 Aprile 1943)
Ufficiali
Sottufficiali Truppa
Morti: 2
Morti:1 Morti:9
Feriti: 6
Feriti:7 Feriti :41
Dispersi: 27
Dispersi:71 Dispersi:621
Anche i neozelandesi subirono
gravi perdite, come scrive il Major-General W.G. Stevens:
Casualties were heavy. From 19 to 21 April 3 officers and
43 other ranks were killed, 29 officers and 375 other ranks wounded, and 2
officers and 84 other ranks missing—a total of 536. The proportion of killed to
wounded was luckily much lower than usual. The three battalions of 5 Brigade
incurred the major number of casualties. The total for 21 Battalion was 169, for
28 Battalion 124, and for 23 Battalion 115, a total of 408. The 28th
Battalion lost 12 officers out of 17.
Perdite che impedirono al 28°
Battaglione di riprendere la campagna fino a quando non fossero sati rimpiazzati
i caduti degli scontri di Takrouna.
The men were made as comfortable as possible; hot showers
were available, and organised swimming parties went daily to the beach at
Hergla
where 5 Brigade's band played morning and afternoon; the ‘left out of battle’
group returned to the unit with fifty-six reinforcements from Base under command
of Captain Henare, thereby largely replacing the causalties of
Takrouna.[…]
The rest of April was spent in rest and reorganisation.
Significativo infine il
commento di Rick Atkinson:
Seppur in una campagna dalla conclusione ormai scontata, Takrouna fu comunque
per i neozelandesi una vittoria di Pirro: alla fine dello scontro avevano
infatti perduto ben 459 uomini, tra i quali 34 ufficiali.
Per il valore dimostrato
sulle pendici del Takrouna al Sottotenente Andreolli venne conferita la medaglia
d’argento al valor militare con la seguente motivazione:
Comandante di plotone paracadutisti, impegnato in un accanito contrattacco
per la rioccupazione di importante posizione, si distingueva per coraggio.
Alla testa del suo reparto, duramente provato dal fuoco avversario, penetrava
arditamente in un abitato presidiato dal nemico impegnandolo in combattimento
all’arma bianca.
Caduti uccisi quasi tutti i suoi paracadutisti, si asserragliava con i
pochissimi superstiti fra i ruderi di una casa e, sebbene ferito, resisteva ai
ritorni offensivi di truppe fresche nemiche finchè, esaurite le munizioni e
sfinito dal sangue perduto, veniva catturato dopo che tutti i suoi uomini erano
caduti uccisi.
Takrouna( Tunisia) 20 – 21 Aprile 1943.
Il Capitano Politi venne
promosso sul campo a maggiore e al 66° reggimento di fanteria venne offerta la
medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione:
Reggimento fortemente provato nella campagna in A.S., deciso a difendere fino
all’estremo l’onore della Bandiera, opponeva all’avversario indomita resistenza,
scrivendo nuove pagine di gloria nelle battaglie di Tunisia. il Iª Battaglione,
ridotto nei suoi effettivi, incaricato di tenere a oltranza un caposaldo che
rappresentava il cardine e il posto d’onore di tutta la posizione difensiva,
attaccato da schiaccianti e sempre rinnovatisi forze, isolato e privo di
rifornimenti, sosteneva per tre giorni l’impari lotta con accaniti corpo a
corpo, tenendo in iscacco il soverchiante avversario e destandone l’ammirazione.
Caduto il caposaldo, pochi superstiti, con le ultime bombe a mano, continuavano
la disperata resistenza, fedeli all’impegno di non cedere le armi. Mareth –
Akarit – Enfidaville – Takrouna (A.S.), 5 marzo – 12 maggio 1943.
L’eroismo dei difensori del
Takrouna fu riconosciuto anche dai Maori del 28° battaglione.
Come si può
leggere nel Official History of New Zeland in the second world war 1939-45 , 28°
(Maori Battalion) di J. F. Cody
:
Even the
BBC
commentators noted for their blindness to Italian heroism had to recognise the
indomitable valour of our soldiers. The Germans of the anti-tank detachment
fought in this battle for life and death, firing until the last cartridge and
performing deeds of great valour[…]The behaviour of all these valorous men was
sublime. This is evident from the story of the priest who ran from spot to spot
administering the last rites to the dying and from the statements of the
soldiers.
Takrouna
will constitute an indelible page of the exceptional valour of our soldiers in
the immense battle of
Africa
and the heroes of this epic resistance will forever remain engraved in the
hearts of the Italians, from Capt. Politi, the commander of the battalion who
with his senior assistant, Capt. Lirer, personally led the remaining soldiers in
the counter-attack, to Capt. Giacomini, to Diletti […]This is the temper of
which the defenders of
Takrouna
were made. It is the temper shown by the soldiers of
Italy
every day in the violence of the battle of
Tunisia
.
LA FINE DELLA
GUERRA D’AFRICA
La caduta del caposaldo di
Takrouna segnò un duro colpo per la Iª Armata che vide vacillare pericolosamente
tutto lo schieramento difensivo approntato. Ciò nonostante gli italo tedeschi
resistettero alla pressione nemica almeno sino al giorno 30, data in cui si
esaurì l’attacco britannico. La situazione per gli uomini di Messe risultava
alquanto tragica e come scrisse lo stesso generale:
La Iª Armata avrebbe oggi possibilità di nuove affermazioni per il suo
contenuto tecnico e spirituale. Nelle lotte dure e sanguinose, nella vita
tormentata di ogni giorno, la sua anima si è affinata acquisendo una sensibilità
sublime, che si riscontra viva nelle nostre truppe in prima linea ed in modo
particolare nello sguardo febbrile dei nostri feriti, dove non si coglie l’ombra
di una rassegnazione supina di chi sente la fine senza speranza, ma invece la
determinazione cosciente di chi ha capito che qua noi difendiamo la Patria,le
nostre città , la casa, la famiglia.
Ma l’Armata marcia verso l’esaurimento.
Già da tempo le nostre grandi unità si sono di volta in volta ricostituite
alla meglio, attingendo ai resti di altre grandi unità disciolte; dopo Mareth si
sono sciolti ed inseriti nei ranghi reggimentali grandi unità anche tutti i
piccoli reparti autonomi, ma ora si è esaurita anche questa sorgente, alla quale
si è attinto senza reticenza, pur sapendo che il rinnovarsi attraverso questi
resti di unità provatissime mina l’efficienza qualitativa dei nostri reparti,
perché è indubbio che la battaglia elimina di volta in volta i migliori.
Ma se a ciò non si potrà porre rimedio, noi continueremo a batterci come per
il passato, senza domandarci quanti siamo di fronte al nemico.
Si operò così un ennesimo
riordinamento delle forze rimaste disponibili:
·
Divisione
fanteria Giovani Fascisti composta da:
o
Reggimento
Giovai fascisti articolato su Iª e IIª Battaglione
o
8° Bersaglieri
articolato su X°, XIª e LVIIª battaglione
·
Divisione
fanteria Trieste composta da:
o
65° fanteria
articolato su Iª e IIIª battaglione e compagnia mortai da 81mm.
o
66° fanteria
articolato su Iª, IIª e IIIª battaglione e compagnia mortai da 81mm.
·
Divisione
fanteria Spezia composta da:
o
125° fanteria
articolato su Iª e IIª battaglione e compagnia mortai da 81mm.
o
126° fanteria
articolato su Iª, IIª e IIIª battaglione e compagnia mortai da 81mm.
·
Divisione
fanteria Pistoia composta da:
o
35° ° fanteria
articolato su Iª e IIª battaglione e compagnia mortai da 81mm.
o
36° fanteria
articolato su Iª e IIIª battaglione e compagnia mortai da 81mm.
Inoltre altri reparti furono
ceduti alle dipendenze della 5° armata di Von Arnim per fronteggiare la
difficilissima situazione che si era venuta a creare nel settore occidentale
dello schieramento. Lasciarono così le posizioni della Iª Armata:
·
Il battaglione
pionieri 900° della 90ª Divisione
·
Un gruppo da
149/40 con 300 colpi
·
Una batteria da
210 tedesca
·
due battaglioni
bersaglieri
·
un battaglione
pionieri tedeschi
·
tutti i reparti
corazzati della 15° Divisione, ammontanti a 14 carri tedeschi, 12 carri e 12
semoventi da 75/18 italiani
·
due gruppi da
100/17 e uno da 149/40 italiani
·
due batterie da
100, una da 170 e una da 210 tedesche
Le forze italo tedesche
rimaste in Tunisia erano stimate in 60.000 combattenti, 100 carri armati e 115
aerei efficienti. Contro c’erano ben 300.000 uomini supportati da 1.400 carri e
3.240 aerei. Esaustivo il commento del capo ufficio informazioni del 18° gruppo
armate alleato:
Con le limitate risorse attualmente disponibili è improbabile che
l’avversario sia in grado di offrire prolungata resistenza alla nostra continua
e crescente pressione.
A tutto ciò andava sommata la
scarsità di rifornimenti provenienti dall’Italia, dovuto all’intensificarsi
degli attacchi a convogli italiani, e che avrebbe dovuto alimentare la difesa in
terra d’Africa. Come segnalava il giorno 2 il comando gruppo Armate:
Aumenta tensione della situazione rifornimenti in tutti i campi. Carburanti,
calcolate le esistenze presso i reparti ed i depositi, si sono ridotti a mezza
giornata;
i rifornimenti munizioni, viveri, acqua per le truppe possono essere effettuati
solo con grandissima difficoltà. Le trasmissioni radio cesseranno probabilmente
il giorno 4. l’arma aerea e le truppe italiane
non potranno più dare che un aiuto limitato. Tutte le munizioni correnti per
artiglierie e cannoni c.c. dei depositi sono esaurite.
In questa disperata
condizione gli uomini dell’Asse si trovarono a fronteggiare l’ennesimo attacco
anglo americano.
Il giorno 6 maggio il 2°
corpo di spedizione statunitense, composto da 95.000 uomini, la 3° brigata
inglese, forte di 600 bocche da fuoco, e la Western Desert Air Force, con 67
bombardieri Boston, sferrarono un poderoso attacco a nord contro le posizioni
della 5ª Armata. Le forze a disposizione di Von Arnim si sgretolarono sotto
l’urto alleato. Questo l’ultimo messaggio
I nostri carri e le nostre artiglierie sono state distrutte. Siamo senza
munizioni e carburante. Combatteremo sino alla fine.
Poche ore dopo le forze
dislocate a nord capitolarono arrendendosi incondizionatamente.
Il giorno 11, visto che il
grosso delle truppe tedesche si era ormai consegnato al nemico, alla 90ª
Divisione venne offerta la possibilità di arrendersi. Ecco il testo della
lettera inviata dal General Frayberg:
Ho conosciuto e combattuto contro la vostra divisone dal momento in cui essa
è stata costituita. Oggi le chiedo per la prima volta di arrendersi. Combattere
ulteriormente è inutile. Voi sapete come siano piccole le possibilità di un
ripiegamento per la via di Hammamet ed ancora minori quelle di sfuggire per via
mare o per via aerea.
Continuare a combattere ha il solo scopo di ostacolare i nostri piani futuri,
ma per ciò è troppo tardi. In 3 giorni possiamo annientare la vostra divisione.
Non fate morire le vostre truppe inutilmente.
Se continuate la lotta, la Germania vi loderà subito come eroe,ma più tardi
giudicherà più giustamente che voi avete sacrificato i vostri soldati. Le
divisioni 334°, Manteufel e 15°, nonché la divisione del’arma aerea “Hermann
Goering” hanno deposto le armi. Secondo dichiarazioni di prigionieri si
arrenderà prossimamente anche la 10° divisione corazzata. Voi avete resistito
fino all’ultimo e vi arrenderete ora con tutti gli onori. Attendo una sollecita
risposta.
Ten. Gen. Freyberg.
Pur costatando che la difesa
non sarebbe ancora durata molto, l’offerta del generale neo zelandese fu
rifiutata. Anche altri reparti, consapevoli dell’impossibilità di resistere a
lungo, si rifiutarono di deporre le armi continuando a combattere. Il
comandante del raggruppamento reco Lodi a Messe:
Ufficiali, sottufficiali, cavalleggeri di Lodi fieri per altissimo
riconoscimento et ambito elogio esaltante loro dedizione, orgogliosi aver
compiuto et compiere dovere fino all’ultimo, assicurano Vostra Eccellenza
espressione fede immutabile, fedeli alla tradizione ed al motto “Lodi s’immola”.
La pressione Alleata
aumentava di ora in ora, a coprire il fronte nord - ovest era rimasto solamente
il D.A.K., che dopo aver tentato in tutti i modi di arginare l’inarrestabile
avanzata alleata, fu costretto a capitolare.
Questo l’ultimo messaggio del
reparto tedesco:
Consumate munizioni, distrutte le armi e gli attrezzi. Come da ordini
ricevuti il D.A.K. ha lottato fino all’esaurimento completo. Il D.A.K. deve
rinascere. Il Generale Comandante il D.AK.: Cramer.
Con loro uscirono di scena
anche gli uomini della Superga che annunciarono:
Truppa esaurite le munizioni, distrutte armi ed artiglieria est stata
sopraffatta. Gelich.
Nel frattempo la Iª armata,
resasi conto del pericolo proveniente anche da Nord, e per evitare un
accerchiamento, decise di organizzare un ultima manovra rifugiandosi nella
penisola di Capo Bon.
Qui venne organizzato un
ridotto d’armata che in poco tempo si trovò circondato da tutte le forze Alleate
presenti in Tunisia.
Il messaggio del comandante
della Iª Armata inviato a Roma il 12 maggio comunicava:
La Iª Armata cui la sorte ha riserbato il privilegio di restare ultima e sola
a difendere il tricolore in terra d’Africa continuerà a resistere fino
all’estremo. Il nemico preme ormai da tutte le direzioni. La situazione
generale, l’enorme sproporzione delle forze ed il progressivo esaurimento delle
munizioni di artiglieria lasciano prevedere che la resistenza non potrà
protrarsi a lungo.
Alle 11:15 giunse la risposta
di Mussolini:
Poiché gli scopi della resistenza possono considerarsi raggiunti, lascio V.E.
libero accettare onorevole resa. A Voi e agli eroici superstiti della Iª Armata
rinnovo il mio ammirato vivissimo elogio. Mussolini.
Col passare delle ore
capitolarono i settori tenuti dalla Trieste, dal battaglione Luftwaffe
e dalla 90ª .
Le artiglierie d’armata, di
fronte a reparti schierati sul “presentat arm”, esplosero le ultime salve
rimaste contro il nemico prima di essere distrutte, impedendo così che
venissero catturate.
Alle ore 17:00 venne captato
un messaggio proveniente dal X° Corpo d’armata Britannico che offriva una resa
incondizionata agli uomini della Iª Armata. La risposta del Generale Messe, che
invece pretendeva l’onore delle armi, fu negativa e gli scontri continuarono
ancora lungo tutta la linea.
Alle ore 19:35 giunse un
telegramma dal Comando Supremo che riportava:
Cessate combattimento. Siete nominato Maresciallo d’Italia. Onore a Voi e ai
vostri prodi. Mussolini.
A questo punto fu stabilita
con gli alleati una tregua per negoziare le condizioni definitive della resa. A
trattare con gli inglesi vennero inviati il generale Macinelli, capo di Stato
Maggiore dell’armata, il Maggiore di stato maggiore Boscardi e il colonnello
Market.
Alle ore 8:30 del 13 maggio, violando la tregua stabilita truppe marocchine
attaccarono il settore tenuto dalla 164ª , sparando persino su coloro che
tentarono di mettersi in contatto con i comandi alleati per far rispettare la
tregua. Finalmente alle ore 12:20 il generale Macinelli rientrò dalla missione a
lui affidata riferendo i termini della resa:
1.
ordinare alle truppe di abbandonare le armi e di arrendersi
immediatamente alle truppe alleate più vicine;
2.
non distruggere armamento ed equipaggiamento;
3.
fornire tutti i piani dei campi minati che si trovano nella zona,
consegnandoli alle truppe alleate più vicine;
Le ostilità cesseranno quando saranno state eseguite queste misure la cui
attuazione deve essere immediata. Il comandante della Iª armata comunicherà a
che ora le sue forze si arrenderanno.
Le condizioni vennero
accettate e come scrisse lo stesso Messe:
I nostri reparti hanno mantenuto fino all’ultimo compostezza esemplare e
perfetta forma disciplinare, che conservano anche dopo la cattura. La fine della
resistenza della Iª Armata è illuminata dalla stessa luce che ha brillato sulle
battaglie di Mareth, dell’Akarit e di Enfidaville.
Il bollettino di guerra
N°1.083 del 13 maggio recitava:
La Iª Armata italiana, cui è toccato l’onore dell’ultima resistenza dell’Asse
in terra d’Africa, ha cessato stamane per ordine del Duce, il combattimento.
Sottoposta all’azione concentrica ed ininterrotta di tutte le forze anglo
americane terrestri ed aeree, esaurite le munizioni, priva ormai di ogni
rifornimento, essa aveva ancora ieri validamente sostenuto con il solo valore
delle sue fanterie, l’urto nemico. E’ così finita la battaglia africana, durata,
con tante alterne vicende, trentacinque mesi.
Nelle ultime lotte, durante le quali tutti i nostri reparti e quelli
germanici a loro fianco schierati si sono battuti in sublime spirito di
cameratesca emulazione, e artiglierie di ogni specialità e il raggruppamento
“Lodi” davano, come sempre, splendida prova.
L’eroico comportamento dei nostri soldati, che, sotto la guida del
Maresciallo d’Italia Giovanni Messe, hanno nella lunga battaglia assolto tutti i
compiti loro commessi e conquistato nuova gloria alle proprie bandiere,
riconsacra nel sangue e nel sacrificio la certezza dell’avvenire africano della
nazione.
Stime ufficiali
britanniche riguardanti le perdite totali dell’Asse
Italiani Tedeschi
Morti e feriti:
34.100 Morti e feriti: 57.200
Prigionieri:
113.500 Prigionieri: 168.000
Totale:
147.600 Totale: 226.000
CONCLUSIONI
Le operazioni in Africa
Settentrionale furono contrassegnate e determinate da un moltitudine di fattori
che esulano dalle sole questioni militari. Un intera nazione intraprese la “via
delle armi” per poter affermare con la forza le proprie aspettative.
La “guerra parallela”
intrapresa dal Regno d’Italia, che nelle intenzioni dei comandi italiani doveva
essere breve e quasi indolore, andò a cozzare con una molteplicità di
problematiche interne ed esterne. Tra i fattori interni spicca senza ombra di
dubbio la scarsa preparazione militare. Una preparazione militare in armamenti,
dotazioni e logistica: i corazzati, strumento bellico essenziale per la guerra
moderna, non furono affatto capaci di competere con quelli britannici prima e
americani poi. Corazzature rivettate e non saldate, armi incapaci di perforare
gli scafi dei carri nemici determinarono inevitabilmente le sorti delle
battaglie in terra d’Africa. Ma questo solo elemento non può giustificare le
immense perdite in uomini e materiali subite in due anni di guerra africana. La
mancanza di un numero adeguato, oltre che una cattiva gestione, degli automezzi
atti al trasporto di truppe e rifornimenti segnarono in modo decisivo la
condotta del Regio Esercito.
Si può quindi affermare con
certezza che le forze armate italiane risultarono sguarnite proprio in quei
settori che i nuovi approcci strategico tattici esaltavano. Elementi che avevano
favorito all’inizio della guerra le truppe germaniche e che avrebbero
contribuito in futuro alla vittoria anglo americana.
Certamente la classe
dirigente italiana era al corrente della situazione in cui versavano le forze
armate ma l’entrata in guerra era incoraggiata da numerosi fattori: La caduta
della Francia, i continui bombardamenti su Londra e la neutralità degli Stati
Uniti fecero credere in una repentina fine delle operazioni militari a favore di
una soluzione politica delle controversie internazionali. Soluzione politica a
cui l’Italia avrebbe dovuto partecipare come paese vincitore per poter
soddisfare tutte le sue ambizioni.
Tale approccio si dimostrò
errato e nello svolgersi del conflitto l’apparato bellico italiano non riuscì ad
adeguarsi ad una nuova, seppur prevedibile, condotta bellica.
A tutto ciò si sommarono
anche importanti errori strategici che incisero non poco sull’esito del
conflitto. Primo fra tutti la questione di Malta. Dall’isola partirono per tutta
la durata del conflitto migliaia di attacchi contro tutti i convogli in transito
diretti in Africa. La cosiddetta “guerra dei convogli” va analizzata in maniera
storiografica non solo come una serie di eventi bellici a se stanti bensì come
il perno su cui si fondarono i successi degli alleati in Africa . La capacità di
fondere in modo organico le truppe impegnate al fronte ai rifornimenti
provenienti dalla Madre Patria fu un elemento basilare di tutta la seconda
guerra mondiale e il teatro dell’Africa Settentrionale ne fu l’esempio più
eclatante.
A confermare ciò è lo stesso
Mussolini che nel luglio del 1941 afferma senza troppi giri di parole:
Disponendo oggi di 600000 tonnellate di naviglio mercantile, con una perdita
di 100000 tonnellate al mese fra sei mesi rimarremmo con le sole barche da pesca.
Quando finalmente vennero
terminati i preparativi per la presa di Malta, i comandi militari italo tedeschi
decisero di impegnare le forze destinate a tale operazione in Africa, al fine di
sfondare definitivamente le linee inglesi e arrivare ad Alessandria. La storia
tuttavia dimostro l’infelicità strategica di tale scelta che oltre a precludere
definitivamente la strada verso l’Egitto, lasciò aperto il problema degli
attacchi ai convogli e soprattutto il problema dei rifornimenti per le truppe
combattenti..
Bisogna sottolineare però
che la scelta di dirottare in Africa i reparti destinati all’impresa di Malta fu
dettata soprattutto dalla situazione strategica che si venne a creare in quel
periodo e che vedeva soldati italo tedeschi impegnati su più fronti. Proprio la
dispersione delle forze obbligò i governi di Roma e Berlino a concentrare gli
sforzi verso il fronte Africano che in quel determinato periodo sembrava poter
esser chiuso in favore dell’Asse.
Le conseguenze della
battaglia di El Alamein e l’inizio dello sbarco Americano sulle coste del
Marocco e dell’Algeria costrinsero l’Italia e la Germania ad una resistenza ad
oltranza per ritardare il più possibile uno sbarco alleato in quello che
Churchill aveva definito il “ventre molle” dell’Europa.
È quindi nell’ottica di
evitare l’invasione anglo Americana del suolo europeo e soprattutto dell’Italia,
che vanno inquadrate le operazioni militari che caratterizzarono la campagna
d’Africa dopo il 1943.
Come disse lo stesso Von
Arnim, comandante del gruppo armate africa:
ogni giorno che resistiamo in più è un giorno guadagnato per la difesa
dell’Europa. Ogni bomba gettata in Africa è una di meno che cade in Europa
La sconfitta di El Alamein,
obbligò le forze italo tedesche ad un rapido sganciamento per sottrarsi
all’inevitabile avanzata britannica, ma con l’ingresso in Tunisia il compito
primario divenne quello di difendere le coste europee.
Queste manovre si svolsero in
un quadro strategico poco rassicurante per l’Asse che aveva ormai perso
l’iniziativa su tutti i fronti, dall’Africa alla Russia. Per questi motivi la
riorganizzazione delle forze a disposizione e l’invio di rifornimenti a truppe
dislocate su uno scacchiere ampissimo si dimostrò il problema fondamentale che
dovettero fronteggiare gli strateghi italo tedeschi. Un esempio ci può essere
dato dall’operazione C2, che aveva come obbiettivo l’invasione della Corsica.
Vista la posizione dell’isola, che si trova a ridosso dell’Italia, Mussolini e
Hitler decisero di occuparla per evitare che si concretizzasse un possibile
sbarco americano appoggiato da degollisti francesi. Strategicamente l’approccio
al problema fu coretto, ma l’operazione fu eseguita in concomitanza con
l’afflusso di uomini in Tunisia e ciò privò il fronte Africano, che aveva
necessità maggiori di quello corso, di uomini e mezzi atti a contrastare
direttamente sul campo gli anglo americani.
Questo evento mi permette
d’introdurre un ulteriore problematica che incise profondamente sul
comportamento delle forze armate italiane, ovvero quella che potremmo definire
come eccessiva dispersione di uomini e mezzi. Africa, Francia, Jugoslavia,
Grecia e Russia. In questi paesi il Regno d’Italia s’impegnò militarmente
sacrificando una gran numero di risorse che se applicate in contesti più
limitati si sarebbero probabilmente dimostrate sufficienti a condurre una guerra
su scala ridotta.
La perdita dell’Africa però
non fu data esclusivamente dall’incapacità di portare un adeguato numero di
rifornimenti, ma sopratutto dalle ingenti forze che gli anglo americani poterono
schierare. A tal proposito bisogna ricordare che se i convogli dell’asse nel
Mediterraneo furono duramente colpiti, quelli inglesi e Americani provenienti
dall’Oceano Pacifico e Indiano non subirono perdite rilevanti, permettendo un
coretto rifornimento delle forze combattenti.
Tutto ciò ovviamente è da
considerarsi in un quadro molto più ampio dove le industrie belliche italiane e
tedesche continuarono la loro opera ostacolate da ripetuti bombardamenti alleati
che causarono ingenti danni agli impianti e numerosi morti tra gli operai con
conseguente rallentamento della produzione.
La difficile situazione
bellica si riflesse ovviamente anche sulla popolazione, che colpita da lutti e
privazioni iniziava a essere stanca della situazione venutasi a creare.
Situazione favorita essenzialmente dal cosiddetto “terror bombing”, che
consisteva nel bombardamento soprattutto di abitazioni civili, chiese e punti di
aggregazione al fine di fiaccare il morale delle popolazioni. Tale strategia,
messa in atto in modo sistematico e cinico dagli anglo americani su tutti i
paesi dell’asse non tardò a dare i propri frutti.
Sono infatti di marzo 1943 i
primi scioperi in Italia, e di quello stesso periodo queste frasi scritte da
Farinacci e rivolte a Mussolini:
[…] Il Partito è assente e impotente. Ora avviene l’inverosimile. Dovunque,
nei tram, nei caffè, nei cinematografi, nei treni si critica, si inveisce contro
il regime e di denigra non più questo o quel gerarca ma il Duce. E la cosa
gravissima è che nessuno più insorge. Anche le questure rimangono assenti, come
se l’opera loro fosse quasi inutile.
La totale sconfitta in Africa
Settentrionale concretizzò inoltre il pericolo di un invasione anglo americana
facendo precipitare l’opinione pubblica italiana in un ancor più pesante clima
di sfiducia e sconforto.
Era il preludio dei tragici
eventi che avrebbero portato prima al 25 luglio e poi all’8 settembre, data che
ancora oggi risveglia odi e rancori.
La ricerca da me intrapresa
oltre agli aspetti strategici, tattici e politici ha voluto però enfatizzare le
testimonianze dei militari che combatterono sul campo. Questo tipo di fonte ha
permesso di sottolineare l’approccio dell’individuo alla guerra. Visioni
particolaristiche che concatenate le une alle altre ci premettono di cogliere
l’universalità dell’esperienza bellica nel singolo individuo.
Le memorie e i diari
utilizzati per questa ricerca hanno favorito una visione che tiene conto
dell’unicità dell’individuo. Hanno evidenziato la percezione del conflitto,
dell’esercito, dell’amico, del nemico, dell’Africa. Uomini che si identificavano
con i propri commilitoni per la difesa di una linea trincerata, di un caposaldo
o di una semplice buca. Uomini spinti da un “senso del dovere” che andava di
volta in volta rafforzato e alimentato con nuovi stimoli. Difendevano la propria
incolumità, quella dei propri amici con cui combattevano spalla a spalla, ma
anche per difendere altri italiani o tedeschi dei quali non si sapeva
assolutamente nulla, ma che andavano difesi perché “dovevano” essere difesi. Lo
spirito di appartenenza trapela continuamente da questo tipo di fonti, mettendo
in evidenza l’emotività e l’approccio dell’individuo all’atrocità della guerra.
Nel contesto tunisino si ha
però un valore aggiunto: si combatte sapendo di perdere e si combatte per
ritardare il più possibile l’avanzata alleata in Italia in Europa. In Africa i
soldati sentono più che mai sulle loro spalle la difesa dei confini d’Italia.
Sentono sulle loro spalle il fardello dell’integrità nazionale.
Si sono quindi adoperate
fonti con un particolare valore storico e in alcuni casi ancora inedite, come le
memorie dei paracadutisti Andreolli e Giampaolo. Ricordi della guerra d’Africa e
della sconfitta con onore a Takrouna. Sconfitta che negli scritti Neo Zelandesi
diventa vittoria, ma vittoria a caro prezzo.
Un prospettiva duplice e
comparata che ha permesso di comprendere la profonda differenza con la quale
italiani e neo zelandosi affrontassero l’evento bellico. L’attaccante e il
difensore. Il neo zelandese chiamato in Africa dalla più sperduta “provincia”
dell’Impero Britannico e l’italiano che in terra d’africa già difende la propria
patria. Il neo zelandese che eccede in rifornimenti e l’italiano costretto a
centellinare munizioni e razionamento.
Differenze che incoraggiavano
o scoraggiavano entrambi gli schieramenti al combattimento, ma la comparazione
ha messo in risalto un aspetto comune da non sottovalutare: la vita militare
amalgama gli individui rendendoli “un solo corpo”. Italiani e neo zelandosi, ma
a questo punto potremmo estendere la considerazione a tutte le nazionalità di
entrambi gli schieramenti, sentono di far parte un esercito, organizzato o
disorganizzato, potente o debole, grande o piccolo. Questo esercito non assume
per i soldati le sembianze di un istituzione, bensì di un insieme di individui
che trovatisi assieme in condizioni eccezionali si adoperano di volta in volta
per salvaguardare se stessi, i propri commilitoni o la nazione intera.
Alla lue di tutto ciò non si
può comunque ritenere conclusa la ricerca. Lo studio intrapreso ha evidenziato
molti aspetti complementari che andrebbero indagati per poter restituire
un’immagine ancor più chiara di quei controversi momenti.
Nella prima parte di questo
lavoro si è parlato della impreparazione militare, sicuramente le responsabilità
vanno divise tra i vertici politici, economici e militari, ma un studio
approfondito su tali mancanze è necessaria e ancor più necessaria sarà lo studio
dei provvedimenti e delle problematiche che si dovettero affrontare per cercare
di migliorare l’apparato bellico.
Ulteriore materiale di studio
e approfondimento proviene dalla particolare situazione logistica dell’Africa
Settentrionale. Si è presa in considerazione il problema dei rifornimenti e si è
citata la “guerra dei convogli”, ma un studio che tenga conto di questi due
aspetti complementari come fossero un tutto uno è necessario anche per
comprendere ancor meglio il rendimento degli italo tedeschi. Ancor più
interessante sarebbe una comparazione tra l’apparato logistico alleato e quello
dell’asse e le relative strategie militari che ne conseguivano.
Uno degli aspetti di maggior
valore emersi durante la ricerca, ma che non si è potuto approfondire sono
l’influenza degli aspetti politici sulla campagna d’Africa. Lo scontro
ideologico del secondo conflitto mondiale impegnò l’Italia su più fronti. La già
accennata dispersione di uomini e mezzi pesò non poco sulle truppe stanziate nel
deserto. un studio che tenga conto di questo aspetto sarebbe a questo punto
necessario per poter anche comprendere se una minor dispersione delle forze in
campo avesse avuto la forza di contrastare il nemico o semplicemente di
migliorare l’efficienza delle forze armate italiane.
Ultimo elemento, ma non meno
importante, è l’elemento umano emerso nelle testimonianze utilizzate per la
ricerca. Uno studio che tenga conto di una campione vasto di memorie e diari e
testimonianze orali sarebbe sicuramente utile per accrescere la conoscenza di
singoli episodi di guerra, ma permetterebbero anche di cogliere le sensazioni e
le percezioni che accomunano tanti uomini. Una ricerca quindi che potrebbe anche
andare oltre gli scritti italiani per poter analizzare in modo ampio e
“globalizzato” il fenomeno guerra attraverso i differenti aspetti culturali.
L’elemento umano è forse
l’unico elemento che riesce a protrarsi oltre la conclusione dell’evento
storico. Le associazioni combattentistiche, i monumenti, i sacrari sono parte di
una memoria collettiva che abbraccia con forza il presente. Ammirevole a tal
proposito la stele eretta dall’Associazione Nazionale Paracaduti d’Italia a
Takrouna in ricordo dei combattenti e caduti, simbolo ancora oggi di dedizione e
sacrifico, ma anche esempio di questa memoria collettiva ovvero della presenza
del passato nella società presente .
Allegato 01
Relazione sulla battaglia di Mareth
5 aprile 1943
Comando Iª Armata
Ufficio operazioni
Relazione sulla battaglia di Mareth e la manovra
da Mareth all’Akarit
16 – 31 marzo 1943 - XXI
1 – La notte sul 17 marzo,
dopo una preparazione di artiglieria che per violenza, durata, numero di
batterie e munizioni, trova riscontro solo nella battaglia di Alamein dello
scorso ottobre, i due terzi dell'8ª Armata britannica iniziano l'attacco alla
linea di Mareth. Contemporaneamente un terzo delle forze nemiche, per le poco
agevoli vie del deserto, punta minaccioso all'aggiramento della nostra destra,
oltre il massiccio gebelico di Matmata, protetto da un sottile velo disteso fra
Melab e Tebaga.
Dopo sei giorni di lotta
accanita nel settore costiero, il nemico non ha conseguito che successi modesti
in proporzione dei mezzi impiegati e del prezzo di sangue pagato: la Iª
Armata, che finora ha reagito essenzialmente con continui, pronti,
fulminei contrassalti di reparti in posto e con la manovra di fuoco delle sue
artiglierie, pone ora per la prima volta il quadro della battaglia sul piano di
un contrattacco di grande unità. La 15ª divisione corazzata germanica (ridotta
peraltro per i precedenti combattimenti in altri settori tunisini alle
proporzioni di un terzo dei propri effettivi). in unione ad altre forze
italo-tedesche della linea di Mareth nei giorni 22 e 23 marzo recide alla base
il saliente nemico incuneatosi fra le nostre linee. Questo contrattacco di stile
stronca ogni velleità britannica sulla linea dì Mareth.
L'8ª Armata, che
indubbiamente ha sottovalutato le capacità reattive delle nostre truppe (sono i
prigionieri che lo affermano) e le possibilità di resistenza della linea stessa,
non rinunzia alla lotta: sposta la massa dei propri effettivi a rinforzo delle
unità già in marcia contro il nostro settore sud-occidentale trasformando in
azione principale quella che nel piano originario doveva essere soltanto
concomitante. L'attacco viene sferrato nella notte sul 22 dalle avanguardie
corazzate del primo scaglione britannico; anche qui la lotta si fa estremamente
dura ma le nostre contromisure, in perfetto sincronismo con il
delinearsi della manovra inglese, sono già in atto; già è affluita ( “in loco”
gran parte della 21ª. divisione corazzata messa a disposizione del Comando
Gruppo Armate mentre è in corso il movimento della 164ª divisione di fanteria
ritirata dalla linea. Con queste ed altre forze che vengono man mano sottratte
alla linea di Mareth la situazione nel settore meridionale viene prontamente
fronteggiata prima, e nettamente dominata poi.
Quando, nel quadro di una
situazione strategica che investe tutte le forze dell'Asse nel settore
centro-meridionale tunisino, la Iª Armata riceve l'ordine di ripiegare, il
Comandante propone di portare anzitutto a termine la battaglia in corso, che
ritiene di poter risolvere vantaggiosamente anche in questo settore e di
procedere soltanto dopo al movimento retrogrado. Ricevuta conferma di iniziare
senz'altro il ripiegamento, l'Armata può affrontare ed eseguire felicemente la:
difficile manovra, con esattezza prodigiosa, in virtù delle predisposizioni già
attuate, della reazione manovrata che continua ad opporre all'attacco nemico
che puntando su el Hamma costituisce una prossima minaccia che occorre parare ed
è infatti parata lasciando il nemico incerto e perplesso, per effetto infine
della precedente vittoria sulla linea di Mareth di fronte alla quale le truppe
nemiche rimaste, battute e, depauperate di, mezzi a vantaggio della massa
aggirante non sono in grado di contrastare efficacemente lo sganciamento.
Al 31 marzo, con il rientro
delle retroguardie oltre la linea dell'Akarit, dopo una breve sosta sulla linea
di cl Hamma Gabès, la manovra è conclusa: il nemico registra al proprio attivo
un modesto guadagno territoriale e la cattura di qualche migliaio di
prigionieri presi con l'arma in pugno dopo aver sparato l'ultima cartuccia;
prigionieri che una situazione logistica meno tesa nell'’ambito dei trasporti
avrebbe indubbiamente ridotti di numero.
2 – L'8ª Armata, che da 34
mesi l'Inghilterra alimenta di uomini, di cannoni, di carri e di mezzi d'ogni
genere, ha subito sulla linea di Mareth e nella successiva manovra uno scacco
clamoroso, di cui non ha fatto mistero in forma velata il Premier britannico e
che in forma più esplicita un corrispondente del “Times” ha così riassumo,
sia pure attribuendo il merito, per motivi di propaganda, al Maresciallo
Rommel: “Rommel non sarà tagliato fuori dato che la maggior parte delle sue
truppe ha già passato la stretta di Gabès. La speranza di catturare la massima
parte delle forze nemiche si è dovuta abbandonare. Tutto quello che è stato
possibile fare è il rastrellamento di posizioni fortificate di piccola
importanza. Questa situazione ritengo sia stata provocata dai rovesci subiti
dall'8ª Armata
nel contrattacco sferrato da Rommel la scorsa settimana. Tutto ciò ci delude
molto, ma anche le possibilità delle truppe americane, che avrebbero dovuto
compiere il principale attacco sul fianco nemico non sono state molto migliori
delle nostre.
Riassunto sinteticamente il
bilancio di un'operazione che ritorna ad onore e gloria delle truppe e dei
comandi della Iª Armata, sembra utile passare in rassegna gli elementi
essenziali che 'hanno originato, sviluppato, concluso questo indiscutibile
successo delle nostre armi.
3 – Verso il I5 febbraio con
il rientro delle ultime nostre retroguardie dietro la linea di Mareth,
l'inseguimento britannico iniziato ad Alamein il 4-novembre e protrattosi per
oltre 2.500 km., è finito. Le nostre truppe facendo ovunque fronte al nemico e
contenendone gli attacchi nei momenti più salienti di questa gigantesca epopea,
hanno scritto una pagina di storia che rimarrà memorabile. Ma sarebbe illusorio
nascondere che questo immane travaglio durato per mesi non abbia agito
profondamente, oltre che sui fattori materiali, anche su quelli morali del
nostro potenziale bellico. Il comando della Iª Armata nell'iniziare il suo
funzionamento ne ha la sensazione netta e precisa: si apre e viene affrontata da
tutti con la massima energia tutta una fase di intenso lavoro di ricostruzione
materiale e morale.
In questo sguardo panoramico
-non trova luogo una minuta disamina dei provvedimenti adottati e rapidamente
condotti a termine per potenziare, nel modo migliore le nostre forze; basta
accennare che si e dato il massimo impulso all'avvicendamento di quegli
elementi che superati i 36 mesi di permanenza in Colonia, per i disagi sofferti
e lo stato morale depresso, rappresentavano più un elemento di debolezza che di
forza; si sono completati in uomini e mezzi numerosi reparti, altri sono stati
disciolti, altri ricostituiti; sono stati sostituiti comandanti anche di grado
elevato che pur avendo dato ottime prove in passato, non apparivano più in
condizioni di fisico e di spirito tali da affrontare nuove prove, che si
approssimavano ancora più dure di quelle trascorse; si è con ogni mezzo
ravvicinato, anche materialmente, i comandi e le truppe; si è cercato nei
limiti dei modesti mezzi concessi di migliorare le condizioni materiali del
soldato; sono stati ripresi energicamente alla mano e riordinati i servizi
d'intendenza; è stata ridata in pieno ai comandi di grande unità la loro
integrale funzione tattico-organico-logistica che s'era smarrita attraverso
sistemi di comando che, attuabili in eserciti stranieri, sono innegabilmente da
scartare presso il nostro.
Soldati,
quadri, comandi hanno avvertito da sè che dopo le gloriose ma dolorose vicende
trascorse, una fase nuova si andava iniziando e verso la quale si poteva
guardare se non con la certezza di una vittoria sicura, certo
con tranquilla fiducia. Le
posizioni assegnate alla Iª Armata sono conosciute attraverso una fama
immeritata di «Maginot del deserto»; questa Maginot era costituita in sostanza
da una trentina di « Bunkers » nella zona costiera pianeggiante, a
sbarramento delle principali comunicazioni; naturalmente buone le posizioni
della zona montana; completamente aperto il terreno ad occidente della montagna
dove una vasta soglia di circa 13 km. non offre assolutamente ostacolo alla
manovra di forze corazzate. Nel concetto francese la “Maginot del deserto”
doveva rappresentare un primo ostacolo alle forze italiane della Libia,
notoriamente sprovviste di ,mezzi corazzati, per dar tempo a tutta una serie di
contromanovre per lo sviluppo delle quali era stata costruita a tergo delle
posizioni una fitta rete stradale; questa, che offre indubbie possibilità
controffensive, presenta ai fini della difesa un fondamentale difetto: essa
confluisce tutta nella zona di Gabès che viene a rappresentare perciò una
stretta, la perdita della quale {in conseguenza 'di sfondamento alla linea di
Mareth) porrebbe in crisi tutta la difesa di parte della zona costiera, di tutta
la zona montana e del settore sud occidentale.
Si aggiunga che l'esistenza
di un cordone collinoso degradante verso il mare davanti alla zona fortificata,
pone quest'ultima nel settore costiero, in condizioni d'esser dominata da un
nemico che riesca ad impadronirsene.
Tutti questi elementi
valutati nel loro insieme, in una con lo sviluppo della linea di troppo
superiore ai modesti effettivi della Iª Armata, avrebbero fatto preferire la
scelta di posizioni più arretrate (Akarit), che, se potenziate con apprestamenti
difensivi campali predisposti da tempo, avrebbero indubbiamente offerto
condizioni di maggiore economia e di migliore resistenza.
il Comando
di Armata trovò una situazione di fatto e l'accettò in quanto tempo e mezzi non
erano più disponibili per rinnovare altrove le difese accessori che eran già
state predisposte. Tenne conto dei pregi e dei-difetti della linea cercando di
assicurarle profondità, di sottrarla al dominio nemico, dosando le forze nei
vari settori in relazione alle intrinseche capacità di resistenza ed ai
presumibili sviluppi della manovra nemica sulla quale, fin da metà febbraio, si
avevano concreti elementi di giudizio.
In relazione a questi criteri
fu fatto occupare da truppe consistenti e organizzare a difesa il cordone
collinoso, sopra accennato, costituendone una posizione avanzata destinata ad
imporre al 'nemico un primo schieramento e a contenere l'impeto del primo
attacco. Fu dato incremento in tutto il settore costiero alla fortificazione
campale (reticolati e campi minati), furono assegnati più vasti settori alle
grandi unità della zona montana (da dove fu predisposta anche la sottrazione di
una divisione non appena la manovra nemica si fosse precisata in ogni
dettaglio). Per la difesa del settore sud-occidentale (soglia Tebaga-Melab) fu
raccolto e rinforzato con quanto disponibile il raggruppamento sahariano,
scontando a priori una situazione delicata alla quale si ritenne di poter parare
(come infatti avvenne) con la manovra delle riserve mobili di cui l'Armata non
disponeva in proprio, ma che erano state assicurate dal Gruppo Armate.
Particolarmente curato fu lo
schieramento e l'impiego delle artiglierie che favorite da buone posizioni, da
ottimi osservatori, dovevano costituire uno dei cardini della nostra resistenza.
Data la minor gittata, il minor numero di pezzi, lo scarso munizionamento in
raffronto con le artiglierie del nemico, si dovette rinunziare di massima alla
controbatteria per concentrare il fuoco sugli obiettivi più importanti, dosando
il numero dei colpi in relazione alla pericolosità degli obiettivi stessi: la
manovra del fuoco predisposta nei minimi dettagli ha pienamente risposto in ogni
fase della battaglia con risultati di precisione, di potenza, di tempestività
tali da costituire il più manifesto, se non essenziale, ostacolo all'avanzata
nemica.
Nel quadro della rinascita di
ogni energia materiale e morale v'erano da ritoccare alcuni metodi di
combattimento delle nostre fanterie, che affermati da tutti in teoria, s'erano
andati smarrendo nella guerra del deserto dove il ritmo della lotta era segnato
dall'azione dei carri, dei controcarri, delle artiglierie, dell’aviazione. La
fanteria per lungo tempo anchilosata in compiti di resistenza m posto non
contrattaccava più. A colmare questa lacuna, a ridar vita e fede ai nostri fanti
il Comando di Armata ha atteso con cura particolare adoperando ogni mezzo,
dall'incitamento all'emulazione, dalla repressione al premio immediato: fino dai
primi contatti con il nemico si è preteso che il fante, la squadra, il plotone
ecc. reagissero con il contrassalto, il contrattacco in misura proporzionale
all'offesa nemica; particolare questo di non trascurabile entità quando si
pensi che l'attacco nemico che ci approntavamo a rigettare doveva essere, nella
fase iniziale di rottura, portato essenzialmente con fan serie sia pure
potentemente appoggiate, in quanto .è ormai canone indiscusso che grandi unità
corazzate non possono (pena la distruzione rapida) affrontare posizioni
sistemate a difesa se prima la fanteria, l'artiglieria, i carri d'appoggio e
l'aviazione non hanno aperto una breccia proporzionale al deflusso della massa
corazzata.
A metà marzo la nostra
'preparazione, lungi dall'essere quella desiderabile, segnava -tuttavia punti di
notevole vantaggio. Restavano invero vaste e paurose lacune: scarsezza di
munizioni, povertà di automezzi, assenza di riserve in proprio, modestia
d'armi e di mezzi in ogni campo, scarso appoggio d'aviazione per non enumerare
che le principali. Ma in complesso l'Armata, rinata dalle gloriose schiere
dei valorosi che s'erano battuti ad Alamein, in Sirtica e sul Gebel, rinsanguata
con nuovi elementi che assorbivano lo spirito dei veterani, epurata da molte
scorie che l'evacuazione della Tripolitania aveva tratto seco, aveva ora un suo
stile, una sua anima che accettava la lotta, fieramente decisa a protrarla fino
alle estreme conseguenze su quelle posizioni che erano state affidate all'onore
dei nostri soldati.
4 – A metà febbraio le
avanguardie britanniche che avevano inutilmente e per la verità assai
fiaccamente inseguito le nostre truppe da Tripoli a Mareth si arrestavano in
vista delle nostre posizioni iniziando piccole azioni di dettaglio intese a
sondare l'andamento delle nostre linee.
Da questo momento con
progressione metodica costante, man mano che la situazione logistica riprende il
normale funzionamento, le forze nemiche affluiscono oltre la frontiera libica e
vanno schierandosi a cavallo ed a nord della rotabile Medenine -Mareth
proteggendosi fra tale strada ed i monti con lavori difensivi campali e con
l'osservazione di unità autoblindo sulla fronte e sul fianco.
Unità di fanteria, di modesta
consistenza, sondano la nostra linea avanzata anche a cavallo del Gebel Ksour,
mentre si vanno delineando i primi nuclei nemici incaricati di costituire e
proteggere una base avanzata nella zona desertica, a Ksar Rhilane, per
l'alimentazione della colonna aggirante che dovrà puntare a suo tempo fra Tebaga
e Melab.
E' evidente che il nemico
potenzia in primo -tempo il settore costiero, dove sarà destinato il XXX Corpo
d'armata sotto il c-ui controllo passano circa i due terzi dell' 8ª Armata
:divisioni di fanteria 50ª, 5Iª, 2ª neo-zelandese, divisioni corazzate Iª e, 7ª.
truppe di corpo d'armata e di armata costituite essenzialmente da tre
brigate carri d'appoggio (Iª \ 23ª, 24ª assegnate alle divisioni di fanteria,
brigata Guardie assegnata per impiego alla 7ª divisione corazzata,
reggimenti di artiglieria di piccolo e medio calibro, aliquote minori di truppe
indiane della 4ª divisione.
Al termine della prima decade
di marzo il XXX Corpo d'armata ha pressochè ultimato lo schieramento delle
truppe; non ancora a punto appare lo schieramento dei servizi di questa grande
unità che però lavorano a pieno rendimento, massimo dopo la riapertura del porto
di Tripoli.
Più lento, e certamente
volutamente in ritardo è l'afflusso del X Corpo d'armata che dovrà manovrare di
sorpresa ad ovest del Gebe1 Ksour contro il nostro schieramento meridionale;
finora sono affluite fra Ksar Rhilane e Foum Tatahouine le brigate degaulliste
Leclerc e Koenig con rappresentanze greche di modesto rilievo, appoggiate dalla
4a brigata
leggera che, tolta alla 7ª divisione corazzata, agisce ora nell'ambito
del X Corpo d'armata.
Ma i tempi serrano anche per
il X Corpo d'armata; la ricognizione aerea indirizzata sulle probabili vie
d'afflusso di questa grande unità già al 13 marzo rileva intenso traffico sulle
rotabili nord e sud gebeliche in Tripolitania e sulle piste Tarahouine -Douirat
-Ksar Rhilane; il 16 di marzo alla vigilia dell'attacco del XXX Corpo d'armata,
non sussiste più dubbio, che una divisione corazzata (la 1Oa)
sta attraversando la soglia di Bir Amir a 40 km. sud-ovest di Foum Tatahouine
per dirigersi contro il nostro settore meridionale da cui dista all'incirca
cinque tappe: è così individuato il X Corpo d'armata forte di una divisione
corazzata e di altre forze (degaullisti, greci, indiani) pari ad una robusta
divisione di fanteria motorizzata.
n nemico spera che questa
improvvisa minaccia in un settore assai delicato del nostro fronte ci induca a
distrarre colà almeno parte delle nostre riserve per facilitare alla massa
principale di attacco (XXX Corpo) il compito di rottura nel settore che esso
ancora ritiene risolutivo: quello costiero.
E' noto, e non varrebbe la
pena di ripeterlo. se troppo facili valutazioni del nemico non ci fossero già
costate care nel corso della presente guerra, che l'8ª Armata rappresenta la più
moderna ed attrezzata forza che sia dato riscontrare oggi nei vari scacchieri
di questa guerra veramente mondiale.
Le fanterie con cui
l'Inghilterra alimenta il Medio Oriente sono fanteria di qualità per fisico, per
addestramento, per spirito combattivo; il loro armamento ed il loro
equipaggiamento sono all'avanguardia e superano nel confronto qualunque
fanteria del mondo: nessuno oggi dispone di un armamento controcarri potente,
numeroso, mobile come quello della fanteria britannica.
L'artiglieria inglese, che
dispone in misura larghissima dell'ottimo pezzo da 87,6 mod. 1939 (superato
solamente dall'88 m/m tedesco) ha larga disponibilità di eccellenti medi
calibri quali il 114 e il 152; è ricca di mezzi d'osservazione corazzati d'ogni
genere ed ha possibilità di rapidi collegamenti radio ed a filo.
Le unità corazzate inglesi
per qualità di materiali, addestramento, abbondanza di mezzi sono sul piano
delle migliori forze 'corazzate di tutti gli eserciti moderni.
Nell'ambito dei collegamenti, che in una armata moderna hanno la stessa
importanza delle armi, l’8ª
Armata è in primissimo piano.
Ogni specialità del genio è
riccamente dotata, meticolosamente addestrata, tecnicamente preparata ad
assolvere qualunque compito tecnico-tattico.
Capi e stati maggiori sono
collaudati e selezionati con severità sul campo
di battaglia e non infarciti
di macchinose teorie, costruite a fatica nei chiusi ambulacri delle speculazioni
astratte, fuori della realtà del combattimento. Ai capi sono concesse libertà
pari alla responsabilità e alla dovizia dei mezzi che sono loro affidati.
La situazione logistica
dell'8ª Armata che conta gli automezzi a diecine di migliaia, che ha al suo
servizio flotta marittima e flotta aerea, non richiede spesa di parole.
La cooperazione fra la R. A.
F. e le forze di superficie può essere presa a modello da chiunque: essa si basa
sull'abbondanza dei mezzi aerei e di collegamento, sulla praticità dei metodi,
collaudati in 34 mesi di effettiva cooperazione,sullo spirito di sacrificio del
personale della R. A. F. che non disdegna le prime linee per collegare queste
con gli aerei in volo, sulla unicità di comando, sulla ferrea disciplina.
5 – Il disegno di manovra
nemico, di cui implicitamente si è detto parlando del suo schieramento, mirava
a ripetere l'operazione vantaggiosamente sperimentata ad Alamein; anche qui come
là, l'8ª. Armata doveva svolgere due attacchi: uno principale nella zona
costiera, uno concomitante nel settore meridionale desertico. -Il piano appariva
logico alla stregua dei seguenti dati di fatto:
- era noto agli Inglesi,
attraverso una documentazione minuta e precisa, fornita dagli ufficiali
degaullisti della Tunisia, passati nelle loro file, che la linea di Mareth non
'costituiva ostacolo formidabile per i mezzi dell'Armata britannica;
-lo sfondamento a Mareth, per
le ragioni precedentemente accennate, avrebbe posto in assai gravi condizioni le
nostre truppe schierate su tutta la linea fino alla soglia desertica; la perdita
della stretta di Gabès avrebbe dato via libera alle divisioni corazzate inglesi
per quelle manovre in profondità che c'erano costate il disastro di Alamein
(perdita dei centri logistici costieri, accerchiamento delle unità non
direttamente investite ecc.);
-l'attacco concomitante al
nostro settore meridionale, oltre che costituire una seria minaccia per la forza
intrinseca delle truppe che vi erano destinate, mirava a dissociare verso gli
estremi del fronte le nostre ben magre riserve mobili;
-d'altra parte il nemico
dovette ben ritenere che dopo un. ripiegamento di 2500 km., le nostre forze
poste a difesa di Marerh, inquadrate in una ardua situazione strategica che non
poteva sfuggire a nessuno, avrebbero opposto una 'resistenza blanda, gravate
com'erano di tanti fattori negativi: ma proprio in questo campo il nemico ha
dovuto registrare la più amara sorpresa.
Quando le forze di
Montgomery, dopo sei giorni dr lotta spaventosa, che “ha ammucchiato i cadaveri
inglesi di fronte ai nostri capisaldi”, che ha annientato unità di primissimo
ordine come la “brigata Guardie” come i battaglioni :” Black Watch” e
“Durham Light” delle divisioni 50ª. e 51ª, che ha ridotto in briciole i 150
carri della 23a
brigata corazzata d'appoggio, che ha reso vano il dispendio di oltre un
centinaio di migliaia di colpi di artiglieria, che ha ingoiato molte migliaia
di bombe della R. A. F. disperse su tutte le linee e nelle immediate retrovie,
si son guardate intorno cercando deluse i mirabolanti successi promessi
ma non conseguiti, hanno rinunziato alla lotta su questa “infernale” linea di
Mareth per correre dietro al miraggio d'una soluzione migliore verso l'ala
occidentale del nostro schieramento. Così fino dalla sera del 20 il Comando
nemico ha netta la sensazione che la linea di Mareth non s'infrange ed in
conseguenza accetta l'idea dì Freyberg, il comandante della 23ª divisione
neo-zelandese, di spostare la massa delle forze nel settore sud-occidentale
trasformando l'attacco concomitante in attacco principale: è una soluzione di
ripiego non priva di straordinarie conseguenze:
-devono essere messe in
movimento la Iª divisione corazzata e la 2ª divisione neo-zelandese con la 24ª
o brigata carri d'appoggio; massa imponente di circa 12 battaglioni motorizzati,
6 battaglioni corazzati, 150 pezzi d'artiglieria e relativi servizi; un
movimento del genere operato a contatto delle nostre posizioni non poteva (e non
potè) sfuggire alla nostra indagine che fu pronta a cogliere all'inizio la
basilare variazione dell'atteggiamento britannico;
-le forze suddette, per
giungere alla stretta Tebaga -Melab, non avevano a disposizione che malagevoli
passi montani, in via di frettoloso riattamento dopo le nostre interruzioni: era
indispensabile che la maggior parte di esse dalla zona di Medenine per Foum
Tatahouine si spostasseI
Tebaga dopo un percorso di altri 15O km. in terreno vario: movimento già
difficile se predisposto, difficilissimo se originato da circostanze
contingenti; per non essere colto in crisi logistica il Comando dell'gli. Annata
dovette depauperare di mezzi e di dotazioni le forze che rimanevano a
fronteggiare la linea di Mareth togliendo ad esse ogni possibilità di ulteriori,
rapidi e decisivi interventi nella battaglia. Fu davvero somma iattura di non
poter disporre di una massa aerea adeguata a diretta dipendenza dell'Armata,
per martellare durante il duro e malagevole cammino questa massa di forze che
sarebbe giunta altrimenti depauperata ed assai malconcia alla battaglia. In ogni
modo il Comando di Armata, anche senza massa aerea, intravide
la possibilità di assestare
un duro colpo alle forze di Montgomery accettando battaglia a fondo nel settore
di cl Hamma verso il quale affluivano tutte le unità corazzate poste alla sua
dipendenza (divisioni 18a
e 21ª
pari ad un centinaio di carri) e le unità che poteva ormai sottrarre alla linea
di Mareth (164ª
divisione, ed altre aliquote minori). In questo senso il Comando di Armata mosse
proposta al Comando Gruppo Armate che fu costretto a non accettarla, ma anzi a
rinnovare l'ordine di ripiegamento in relazione all'aggravarsi della situazione
nel settore ovest tunisino.
Ed ìnvero il piano d'azione
britannico non era circoscritto al solo impiego dell' 8ª Armata: la tenaglia
Montgomery (Mareth - el Hamma) s'inseriva nel più vasto piano strategico
affidato alle forze anglo-americane della 5ª Armata dell'Halfaya (fra Gebel
Ascker e Gebel bu Serra) alla sella di el Guettar (fra Gebel Berda e Gebel
Orbata) e nel settore Sened-Maknassv, concentrando lo sforzo principale alla
sella di cl Guettar nell'ambizioso disegno di piombare alle spalle della Iª
Armata impegnata da cl Hamma a Mareth.
E' doveroso ricordare qui,
che a sventare il vasto disegno strategico di Alexander molto ha contribuito la
valorosa divisione italiana “Centauro”, che comandata da un magnifico soldato di
grandissimo cuore, il generale conte Calvi di Bergolo, con mezzi limitati di
fronte alla strapotenza nemica, ha fatto muro sui capisaldi di e1 Guettar
accettando l'impari lotta in 12 giornate cruente che valgono da sole tutta
un'epopea.
6. -Lo svolgimento
complessivo della battaglia sembra possa trarre sufficiente rilievo dalla
sintesi introduttiva e dalle note che precedono. Sarà qui sufficiente delineare
alcuni momenti più caratteristici, accennare ad alcune situazioni locali ed ai
provvedimenti adottati per fronteggiarle, al comportamento delle nostre unità
che da questa lotta escono con l'onore e la gloria dei forti. L'inizio
dell'offensiva nemica non è questa volta preceduto come in passato da imponente
spiegamento di forze aeree: è difficile dire se la R. A. F. si sia astenuta da
questo primo inizio della battaglia per accumulare le forze e i mezzi da
impiegare nei momenti culminanti (come è avvenuto e come avevano
dichiarato alcuni prigionieri) o per non svelare implicitamente l'inizio
dell'attacco: possono aver concorso l'una e l'altra causa; tuttavia l'attacco
non era il meno atteso dalle nostre truppe di Mareth; infatti nel bollettino
informazioni del 6 marzo del Comando Iª
Armata si legge: « circa l'epoca d'inizio dell'offensiva
nemica vi è da rilevare che mentre il XXX Corpo d'armata ha già serrato sotto in
zona avanzala e ha verosimilmente ultimata la propria preparazione, movimenti
sono ancora in corso nell'ambito del X Corpo d'armata: un'azione nemica nel
settore costiero è fin da ora possibile ad ovest del Gebel Ksour occorrerà
ancora qualche giorno. La reazione delle nostre truppe e delle nostre
artiglierie è fulminea: la "Brigata Guardie" viene contrattaccata e travolta;
solo più a nord la 5ª divisione dì fanteria inglese, favorita da migliori
condizioni di terreno e da una occupazione più leggera della nostra posizione
avanzata resta, a prezzo di sanguinosi sacrifici, in possesso di qualche
elemento della nostra posizione avanzata; intravedendo in questi fattori
(terreno-forze) probabili clementi di miglior successo, il nemico nella notte
sul 18 concretava nuovi attacchi nel settore della nostra divisione "Giovani
Fascisti" (bersaglieri e CC. NN.) che si batte con intrepido ardore: la
penetrazione nemica è lenta, le perdite sono sanguinose da entrambe le parti, i
prigionieri britannici che pure hanno beneficiato di un appoggio di artiglieria
mastodontico, definiscono la reazione delle nostre artiglierie "terribile";
"terribili" sono pure i campi minati da attraversare malgrado l'impiego del
nuovo apparecchio per la rimozione delle mine (lo "Scorpione") e .definiscono
malinconicamente sbagliata la propaganda inglese che fa loro credere modesta la
reazione delle truppe italiane che si battono invece ferocemente malmenando le
unità britanniche in modo imprevisto.
Questo dell'imprevisto è un
motivo nuovo che può cogliersi di passaggio non solo nelle decisioni di
Montgomery ma perfino nei commenti di radio Londra: « Rommel .ha
accettato la battaglia come forse non ci aspettavamo) mentre la situazione tanto
strombazzata per l'innanzi ridiventa improvvisamente fluida: l'aggettivo che
maschera malamente gli insuccessi britannici.
Nei giorni 18 e 19 la lotta
si svolge in tono minore: il nemico sta prendendo fiato e porta alla battaglia
una nuova divisione, la 50a. appoggiata dalla 23ª brigata corazzata : con questo
complesso di forze fresche egli spera in un tentativo supremo di sfondare la
linea di Mareth per dare il via alle divisioni corazzate che finora impegna
moderatamente e limitatamente alle brigate motorizzate ed alle artiglierie.
Nella
notte sul 20 un nuovo più potente attacco viene sferrato nel settore
della
divisione « Giovani Fascisti», mentre altre forze nemiche premono un po' ovunque
su tutto il settore del nostro XX Corpo d'armata; la R.A.F. che finora aveva
svolto attività limitata entra in azione di colpo con tutti I suoi apparecchi:
dal fronte al parallelo degli Chotts non vi è metro di terreno che non riceva
una bomba; la lotta al Mareth si spezzetta in mille episodi: ad ogni attacco
nemico corrisponde un nostro contrattacco; le perdite sono gravi da entrambe le
parti; morti e feriti ricoprono il terreno. L'attacco prosegue con pari violenza
nella notte sul 21; bersaglieri, volontari giovani fascisti, tedeschi del
reggimento Menton subiscono falcidie pari a quelle inflitte al nemico che dopo
sei giorni di lotta in questo settore è riuscito ad intaccare la nostra
posizione di resistenza su una fronte di circa 2 km. per una profondità di un
chilometro e mezzo. Il giorno 21 la 15ª
divisione corazzata germanica che era già stata avvicinata alla fronte viene
posta alle dipendenze del XX Corpo d'armata perché in unione alle truppe della «
GG. FF. », che tengono magnificamente tutte le rimanenti posizioni, conduca nel
quadro del Corpo d'armata un immediato contrattacco cui sarà dato il massimo
appoggio di artiglieria.
Questo contrattacco, che
decide delle sorti della battaglia sul Mareth, si sviluppa nei giorni 22 e 23
proprio nel momento in cui il nemico sta faticosamente organizzando il
passaggio dei carri attraverso il tratto di fosso anticarro conquistato dalla
503ª divisione inglese I poderosi concentramenti della nostra artiglieria, lo
slancio dei carristi germanici in unione a quello dei nostri fanti, hanno
ragione d'un nemico -che è giusto riconoscere -mostra una tenacia cd una
ostinazione degna della posta in gioco.
La sera del 22 il nemico è
battuto; sulle nostre vecchie posizioni non resta più che qualche sparuto nucleo
inglese che si batte con disperata tenacia, mentre i nostri soldati vanno
rioccupando oltre la linea dì resistenza, i centri di fuoco della posizione
avanzata.
Churchill, più tardi alla
Camera dei Comuni, nell'invitare il popolo britannico a desistere dai facili
ottimismi darà l'annunzio che « la testa di ponte costituita a prezzo di
sangue dall' 8ª
Armata nelle posizioni nemiche, è stata eliminata dal contrattacco germanico »,
L'acme della battaglia si
sposta alla soglia fra Melab e Tebaga. Le avanguardie corazzate del X Corpo alla
sera del 21 hanno attestato alle piste di Chebili a 5 km. di distanza dalle
posizioni del Raggruppamento Sahariano.
Dette
avanguardie nella notte sul 22 tentano di travolgere di slancio le nostre unità,
alcune delle quali, in fondo valle, investite di fronte e quindi da carri
infiltratisi a tergo, sono costrette a cedere, mentre il nostro schieramento
alle ali della stretta tiene tenacemente contro i ripetuti attacchi delle
fanterie e dei carri nemici. Ma la situazione può essere guardata serenamente
anche in questo settore verso il quale è già stata inviata la 21& divisione
corazzata -germanica e verso cui sta affluendo la 164ª
divisione tedesca, che ha cedute le sue posizioni montane alla divisione «Pistoia»
la quale a sua volta ha passato in consegna parte del proprio settore alla
contigua « Spezia»: complessi
di movimenti che per essere stati studiati e preordinati da tempo non danno
luogo al minimo inconveniente.
Nella
stessa giornata del 22 il contrattacco della 2ª.
corazzata contiene lo slancio avversario che registra un modesto guadagno di
terreno. Entra successivamente in linea la 164ª
mentre accorrono alla battaglia anche il 125° reggimento fanteria
«Spezia» e reparti minori italiani; tutte queste forze nel loro complesso
costituiscono “il gruppo di combattimento Liebenstein” che ha per compito
iniziale, l'arresto dell'attacco nemico e successivamente, rinforzato con la Ia divisione
corazzata germanica e il battaglione Lufrwaffe, rapidamente sottratti al
settore costiero, potrà passare senz' altro al contrattacco. Altre forze
potrebbero essere sottratte alla linea di Mareth dove il nemico, in conseguenza
dei predisposti spostamenti di forze da noi esattamente percepiti, ha perduto
ogni capacità offensiva. Si predispone all'uopo lo sganciamento della 90a
divisione e di altre aliquote delle divisioni italiane proponendo al Comando
Gruppo Armate di accettare battaglia a fondo nel settore di el Hamma come
precedentemente accennato.
Si sono chiarite più sopra le
ragioni che, all'infuori della situazione nell'ambito della Iª
Armata, hanno indotto il Comando Gruppo Armate a rifiutare la
proposta italiana e a rinnovare l'ordine per il previsto ripiegamento. Mentre
questo veniva iniziato la notte sul 26, forti reparti corazzati nemici
ottenevano successo contro il settore della 164ª divisione del gruppo
Liebenstein e tentavano di sfruttarlo in profondità, ma venivano arrestati
prontamente ad el Hamma (dove erano state avviate altre aliquote di fanterie e
di artiglierie) e quindi costretti a contromanovre per parare un nostro energico
contrattacco portato sul loro fianco destro dalle nostre divisioni corazzate,
che si appoggiavano al saldo schieramento dei reparti ancora in linea sulle
posizioni iniziali dove infrangevano da più giorni tutti gli attacchi nemici.
Sotto la protezione
incontrollabile dell'ala destra e dietro lo schermo della posizione avanzata
della linea di Marerh, l'intera Iª
Armata effettuava lo spostamento a scaglioni in tre successive
aliquote schierandosi al mattino del 28 con parte dell'Armata sulla linea
dell'Akarit e parte sulla linea Gabèsel Hamma.
Data la enorme deficienza di
automezzi, la favorevole circostanza di aver potuto imporre al nemico di
ritardare la sua pressione frontale, la necessità di potenziare al massimo e al
più rapidamente possibile la linea dell'Akarit e soprattutto per non offrire al
nemico l'occasione di un nuovo impari urto sulla debole linea el Hamma - Gabès,
. Il Comando di Armata decideva di lasciare su tale linea solo unità mobili cioè
il gruppo Liebenstein, la 90ª. divisione, la 15ª divisione corazzata, il I25°
reggimento “Spezia” sotto il comando del XXI Corpo d'armata.
Nella sera del 28 queste
forze venivano violentemente attaccate da forti masse corazzate che minacciavano
di sopraffarle; di fronte a tale. minaccia e nella considerazione che lo
schieramento delle altre unità sulla linea dell'Akarit si svolgeva in ordine
perfetto ed era ormai imbastite; il Comando d'Armata
ordinava a queste forze di
ripiegare lentamente tenendo il contatto con le
unità nemiche. Anche questa
fase della difficile manovra è stata condotta felicemente a termine; il nemico,
confessa attraverso il traffico radio intercettato “di aver perduto ancora una
volta, un'ottima occasione”.
A questa constatazione, che
data la fonte non ammette né dubbi e né interpretazioni, fanno eco le
dichiarazioni della stampa e della radio nemiche costrette ad affermare che la
battaglia del Mareth “non sarà forse l ultima disfatta degli Alleati” (Times
25/3) c che Rommel (notoriamente assente dalla Tunisia) è un
ottimo lottatore ed un maestro nel condurre la manovra delle sue truppe”
E' ancora presto per trarre
conclusioni da avvenimenti il cui ritmo incalza vertiginosamente.
Ma una cosa è certa però: la
Iª armata, rinata a nuova vita, detentrice di tutte le tradizioni di dolori e
di glorie che sono trascorse sui campi di battag1ia dell'Africa Settentrionale,
ha dato nella presente battaglia tutta la misura delle sue alte capacità
tecniche e morali.
La Iª Armata, per quanto
diminuita nel suo potenziale bellico, di uomini e di armi, va incontro ai nuovi
avvenimenti con incrollabile fede e con la ferma determinazione d'essere pari
all'altezza del momento storico che la Patria trascorre.
Il Generale d'Armata
Comandante
GIOVANNI
MESSE
Allegato 02
Relazione sulla battaglia di Enfidaville
19 - 30 aprile 1943
Comando Iª Armata
Stato Maggiore
Relazione sulla battaglia di Enfidaville (19
– 30 aprile 1943)
1. -All'inizio del
ripiegamento dalla linea degli Chotts, la notte sul 7 aprile, per quanta fede io
potessi avere nei combattenti della 1ª Armata ,che ne ero certo, si sarebbero
battuti con lo stesso valore già consacrato nelle precedenti battaglie, non
potevo nascondermi la gravità della situazione: questi nostri bravi, valorosi,
infaticabili soldati costretti ad una guerra manovrata i n terreno libero, per
la quale non disponevano nè di mezzi idonei nè di armamento atto a trattenere
le masse corazzate nemiche, sarebbero inevitabilmente andati incontro ad
irreperibili perdite, se nel tradurre in atto gli ordini del Comando Gruppo
Armate non avessi tenuto conto delle possibilità materiali dello strumento ai
miei ordini e della necessità di opporre la massima resistenza là dove questa
avrebbe potuto essere affrontata in condizioni decisamente più favorevoli.
In base a tali criteri mentre
avviavo fuori del raggio d'azione dei carri nemici la divisione Giovani
Fascisti ed i resti delle divisioni Spezia e Trieste , davo ordine e
provvedevo a che venisse spinta al massimo ritmo la riorganizzazione dei reparti
ripiegati comunque dalla linea o dalle retrovie, nonché l'approntamento di nuovi
reparti costituendoli con qualunque elemento fosse atto a manovrare un'arma. Da
ciò io non potevo illudermi di ricavare. forze importanti per la nuova
battaglia, in quanto l'Armata, dal ripiegamento dalla Tripolitania in poi, ha
quasi sempre attinto, per ricostituire i propri ranghi decimati, a questi
elementi di retrovia che non potevano costituire un serbatoio inesauribile; ma
con il chiamare alla battaglia anche i meno atti, con il dare loro in un'ora
grave la prova d'una incondizionata fiducia, io mi ripromettevo sopratutto
d'ingigantire in ogni uomo della In Armata quello spirito di eroica resistenza
che ci era venuto sempre dalle prime linee.
Questo oscuro lavoro condotto
con fede ed energia ha dato frutti veramente positivi: sulle alture di Gebel
Garci reparti di retrovia, fino allora impiegati nella difesa costiera, composti
di anziani, meno validi, daranno magnifica. prova di saldezza contro la
strapotenza nemica e supereranno anche l'aspettativa di chi conosca e sappia
valutare a fondo l'inesauribile forza morale della nostra gente.
Per tradurre in cifre 'le
forze su cui si poteva contare alla fine del ripiegamento, compresi i reparti
tedeschi ed i ricuperi di retrovia, dirò che esse potevano essere valutate a 35
battaglioni, ad una cinquantina di batterie e 1/2 battaglione carri; se la fede
del comandante voleva e volle contare sullo spirito di sacrificio di queste
truppe, all'occhio del tecnico non-potevano sfuggIre tutte le lacune di cui esse
soffrivano; il raffronto con le forze nemiche che si appresta-vano al nuovo
urto, forse decisivo, lasciava indubbiamente pensosi. Ma appunto per ciò la
lotta doveva essere accettata con decisione estrema chiamando tutti a
concorrervi.
2. Ho rappresentato, in altra
precedente relazione, le vicende per le quali è passata la definizione della
linea di resistenza sulla quale la 1ª Armata ha combattuto questa prima fase
della battaglia per Tunisi; ho indicato nel dettaglio la linea da me proposta,
nonché le successive rettifiche concesse dal Comando Gruppo Armate rispetto al
suo progetto ordinario.
In base a tali rettifiche il
fronte dell'Armata veniva ad assumere un andamento ad archi successivi tra la
costa e l'altura di Takrouna, tra questa e il Oebel Garci, ed infine fra Gebel
Garci ed il Gebel Gib attorno alla conca di Saouaf. In sostanza tre rientranti:
due estremi di grande ampiezza, uno minore centrale, appoggiati ai salienti di
Takrouna e dì Gebel Garci.
Concetto fondamentale della
difesa doveva essere quello di impedire al nemico di creare, con la conquista
dei due salienti anzidetti, le premesse necessarie per l'impiego delle sue
masse corazzate in profondità liberandole dalla nostra azione di fuoco sui
fianchi. E' vero che il nemico avrebbe potuto attenersi al criterio costoso ed
audace d'impegnare uno od entrambi i salienti e tentare lo sfondamento delle
nostre. improvvisate difese in uno od in entrambi i rientranti costiero e
centrale; ma una tale manovra sarebbe stata per lui gravata da molte incognite.
D'altra parte, caratteristica essenziale della condotta nemica nell'impiego dei
carri è sempre stata la prudenza; non è qui l’ago d'analisi per discutere
se ciò dipenda da temperamento di capi o da meditata dottrina: sta di fatto che
il nemico ha finora ricercato il successo piuttosto fidando nell'assoluta
superiorità dei mezzi anziché nello svi1uppo di pericolose manovre. In ogni caso
conveniva a noi rafforzare nel modo migliore e dare robusta consistenza alla
occupazione dei salienti anzidetti contro i quali l'urto delle fanterie nemiche
era inevitabile..
Alla data. del 18 aprile,
vigilia della battaglia, le nostre unità risultavano schierate come segue: XX
Corpo d'armata con i resti delle divisioni 90ª tedesca, Giovani
Fascisti e: Trieste fra la costa ed il Gebel Garci escluso; XXI Corpo
d'armata con i resti delle divisioni Pistoia , 16411. tedesca e Spezia
fra Gebe1 Gaeci ed il Gebel Gib (ad ovest della conca di Saouaf) su cui l'Armata
prendeva contatto con il D. A. K. (5ª Armata). Nonostante lo sforzo per
aumentare le unità dell'Armata in attesa che la febbrile opera di ricostruzione
e di riorganizzazione desse ulteriori frutti, fu necessario schierare tutte le
unità disponibili sulla linea per garantirne un minimo di consistenza. Poté
essere trattenuta in riserva d'Armata la sola 15ª divisione corazzata ridotta
tuttavia ad una trentina di carri, per metà in riparazione, e a due
battaglioni, forze che furono dislocate in zona centrale rispetto alle
direttrici più pericolose (strada costiera, strada Enfidaville-Zagouan).
Le poche artiglierie d'armata
furono schierate con il criterio d'avere la massima possibilità d'intervento in
corrispondenza dei due salienti sopra menzionati ed in modo che almeno
un'aliquota potesse intervenire bene nei settori estremi dell'Armata, con
particolare riguardo al settore costiero. In base a tali criteri le artiglierie
di manovra risulteranno raggruppate in due nuclei che durante il corso della
battaglia agiranno in perfetta aderenza con le nostre fanterie. Modesta alla
data suddetta risultava la consistenza dei lavori e degli apprestamenti
difensivi campali: per la deficienza di materiali, di mine, di lavoratori che
verranno attaccati continuamente dalla R.A.F., ed infine per la impossibilità.
di attuare un piano di lavori organico in conseguenza delle varianti alla
posizione di resistenza che il Comando Gruppo Armate concede per tempi
successivi.
E' tuttavia da rilevare che
anche i lavori effettuati in pianura in base agli ordini originari, massime nel
settore costiero, non andranno del tutto perduti: essi serviranno a proteggere
in un primo" tempo la nostra linea di sicurezza e da trarre in inganno il
nemico che contro tale linea organizzerà un vero e proprio attacco di carri e
fanterie destinato a cadere nel vuoto con sua grande sorpresa ed inevitabile
disorientamento.
Alla prova dei fatti e dopo i
primi duri combattimenti sostenuti il pregio essenziale della nostra difesa
risulterà quello di avere impedito al nemico la possibilità di dilagare in
profondità con le sue masse corazzate; i nostri fanti di Takrcuna e di Gebel
Garci sentirono che la padronanza dei due pilastri era indispensabile alla
nostra difesa: messi a confronto con le fanterie britanniche, uomini contro
uomini, anche se inferiori di numero, anche se meno abbondantemente e
modernamente armati, tennero duro e si lanciarono in una lotta aspra, tenace,
sanguinosa rinnovando su queste alture africane l'impeto generoso della nostra
razza.
3. -Questa
prima fase della battaglia per Tunisi passa per due tempi ben distinti: dalla
notte sul 20 corrente al mattino del 23 si ha « la grande battaglia » Se
vogliamo stare alla definizione che ne hanno dato i comandi avversari ed
i soldati britannici come risulta dai diari dei prigionieri; successivamente la
lotta cala di tono ed è quasi tutta limitata al settore costiero, dove il
nemico, sempre rigettato, insiste ancora con colpi decisi contro le nostre
posizioni avanzate in zona di sicurezza.
Nel primo tempo della
battaglia il nemico persegue essenzialmente la conquista di tre obiettivi: le
nostre presunte posizioni della zona costiera tra mare -Enfidaville Takrouna,
-il saliente di Takrouna, l,-il saliente di Geb,el Garci.
La battaglia s'inizia alle
ore 23 del 19 con la consueta imponente preparazione di artiglieria. Nella zona
costiera, la 50ª, divisione di fanteria inglese, che le precedenti battaglie
hanno duramente provata, muove all'attacco appoggiata da una intiera brigata
carri) probabilmente 1'8ª ; ma giunta in prossimità del fosso controcarri non
trova che poche nostre pattuglie che ripiegarono sul cordone collinoso che corre
ad arco sul davanti della nostra posizione di resistenza; su questa fino alla
notte precedente, avevano ripiegato le divisioni Giovani Fascisti e 90ª.
Il nemico è indubbiamente
disorientato; si arresta e spinge timidamente avanti i propri elementi
esploranti meccanizzati contro i quali le nostre truppe della posizione avanzata
iniziano tutta una serie di schermaglie e quindi di combattimenti più
consistenti per ritardare la individuazione delle nostre posizioni retrostanti.
Carattere ben più accanito,
fin dal primo momento, assume la lotta nella zona di Takrouna, dove il nemico
attacca il vertice del nostro saliente da sud, da est e da ovest.
Nell'ispezionare la nostra
sistemazione difensiva m'era apparsa subito l'importanza che avrebbe potuto
avere, nell'economia generale della battaglia, l'altura di Takrouna
(avanzatissima e quasi staccata dalle nostre posizioni retrostanti) se
trasformata in caposaldo con funzione autonoma atto a rompere il primo impeto
dell'attacco nemico e ad incanalarlo verso i rientranti costiero e centrale. A
tal fine diedi ordine perchè il presidio potesse tenere a lungo anche se
completamente aggirato. Convinto inoltre che una grande forza d'animo era
indispensabile per i difensori feci di tutto perchè questa trovasse motivi di
emulazione con la inclusione di un plotone tedesco fra le truppe della difesa
e, nel dare ordine di resistenza ad oltranza, disposi per la consegna _alle
truppe della bandiera di combattimento italiana e tedesca affidandone la difesa
al loro onore di combattenti.
Ecco la lettera con cui il
generale La Ferla, comandante della divisione Trieste mi dava notizia, il giorno
8 aprile, dell'avvenuta consegna:
N. 203 Op. di prot. Z. O., r8
aprile 1943-XX1
All'Eccellenza
Generale d'Armata Giovanni Messe Comandante 1ª Armata.
Questa mattina in nome
della Patria e Vostro, alla presenza di una rappresentanza in armi del presidio
di Takrouna, ho consegnato le bandiere italiana e tedesca al comandante del
caposaldo che ha preso impegno che esse verranno difese fino all'ultimo uomo,
come da Vostra consegna.
Il generale comandante
F. La Ferla.
Il presidio di Takrouna oltre
il I battaglione del 66° fanteria ed il plotone germanico sopra menzionato,
comprendeva anche una sezione da 65/17 ed una sezione da 8716 preda bellica del
R.A.C.A..
La preparazione
dell'artiglieria nemica, violentissima, si protrae dalle ore 23 del 19 alle ore
6 del giorno successivo quando le fanterie nemiche appoggiate da carri muovono
all'attacco del fronte Takrouna-Djebel Bic-Djebel Cberachir -Djebel Froukr.
L'attacco è così violento ed
alimentato dall'afflusso continuo di forze fresche che il vicino caposaldo
tedesco di Gebe1 Bir, dopo una strenua resistenza, è: sommerso; con la caduta di
esso il nemico si assicura il piedistallo per tentare da sud-est l'attacco e la
scalata al Takrouna.
M-a i nostri difensori,
validamente appoggiati dalle artiglierie in loco e da quelle di Corpo
d'armata e di Armata tengono duro di fronte all'incalzante marea che ora avvolge
tutto il monte anche da sud-ovest, dove il fuoco preciso delle nostre
mitragliatrici miete strage nelle file nemiche.
Verso le ore 9, dopo un
violento corpo a corpo, le nostre posizioni di sudest sono sommerse: il nemico
s'infiltra fino sulla cima del monte nel minuscolo villaggio che lo sovrasta,
dove lo stesso comandante di battaglione con pochi elementi del comando guida i
contrassalti per ricacciare gli assalitori.
Questa situazione diverrebbe
insostenibile di fronte alla marea nemica che comprende quasi tutta la 2a
divisione neo-zelandese, se nuove forze non fossero inviate al
Takrouna. Sale sulla quota, superando violenti sbarramenti di artiglieria
nemica, il battaglione di formazione Folgore prima verso le ore 14 con la
compagnia granatieri e quindi verso le ore 16 con le altre due compagnie
paracadutisti.
Con il classico slancio delle
nostre più belle truppe d'assalto, il battaglione Folgore snida di casa in
casa il nemico, lo incalza poi di roccia in roccia, lo ributta giù dalle pendici
est del monte riconquistando tutte le posizioni perdute; il rastrellamento si
protrae per parecchie ore e soltanto verso le prime luci del 21 può dirsi
completato e la situazione ristabilita.
M'a il nemico non desiste dal
proposito dì occupare Takrouna. Dopo una violentissima preparazione, forze
fresche sono lanciate a sempre nuovi attacchi.
Dalle ore
1] di detto giorno la furibonda lotta che
imperversa sul monte è più intuita che seguita in quanto manca ogni
comunicazione diretta, ma essa non ha tregua.
Lo stesso nemico che in primo
tempo dà per occupata la posizione e smentisce poi la notizia, è perplesso di
fronte alla resistenza feroce dei singoli nuclei che preferiscono la morte alla
resa.
La lotta d'episodio in
episodio si protrae per tutto il giorno 22 e nella nette sul 23.
Solo nelle prime ore
d} detto giorno il nemico resta padrone della
situazione.
Ma a prezzo di quali
.sacrifici! Esso stesso conferma che le perdite sono state enormi ed infatti non
ha più forza di procedere a nuovi attacchi. Nel settore di Takrouna la battaglia
è terminata.
Contemporaneamente all'attacco del saliente di Takrouna il nemico sferra quello
contro il settore della nostra divisione Pistoia sistemata a difesa del
saliente di Gebel Garci. Contro questi nostri logori battaglioni, fanterie
inglesi ed indiane della 4ª
divisione,
appoggiate dalla massa di artiglierie, schierate al ridosso del Gebel Fadeloun,
muovono all'assalto delle nostre posizioni di Djebel Hajar el Azreb-Djebel Blìda
-Kef en Nsoura. Poicbè l'attacco stenta a procedere, l'azione delle fanterie
viene integrata da quella dei carri, di cui ora il nemico si serve come di
artiglierie mobili per l'appoggio ravvicinato specialmente verso le pendici più
basse del Gebel dove i carri hanno qualche possibilità di movimento.
Le nostre artiglierie
intervengono con eccellenti risultati sia nello sbarramento come nella
interdizione sommando i loro effetti distruttivi. a quelli altrettanto
micidiali delle nostre fanterie che oppongono validissima resistenza. All'alba,
a costo di gravissime perdite, il nemico riesce ad effettuare solamente una
modesta penetrazione fino alla linea Kef en Nsoura -Diebel el Ksaaquota 245. Ma
nel pomeriggio del 20 un nostro violento contrattacco appoggiato da tutte le
nostre artiglierie rigettava il nemico assicurando il saldo possesso della linea
Kef en Nsoura -Djebel Hajar el Azreb quota 152.
Il nemico, è chiaro subisce
ora in pieno la nostra iniziativa e si limita nella notte sul 21 mentre ancora
infuriano i combattimenti sul Takrouna al consueto tambureggiante fuoco di
artiglieria con esclusiva fisionomia di repressione e d'interdizione.
Il mattino del giorno 22, il
nemico, che ha portato in linea nuove ingenti forze, probabilmente della 51ª
divisione, riprende con accanimento i suoi attacchi appoggiato da uno
spaventoso continuo bombardamento; ma i fanti della valorosa divisione Pistoia
fanno barriera invalicabile con i loro petti e per quanto assottigliati nei
ranghi non permettono al nemico di avanzare d'un passo.
La “grande battaglia” è
finita anche sulle posizioni di Gebel Garci.
L' 8ª Armata britannica, che
il generale Montgomery aveva definito in un recente proclama “il più potente
strumento di guerra che l'Impero britannico abbia mai posseduto” è costretta a
segnare il passo di fronte alle nostre insuperabili fanterie concretando i
propri successi (sono parole di radio Londra) “nell'aumento di croci sulle
colline e di feriti negli ospedali”.
Il secondo tempo della
battaglia è tuttora in corso; nel settore della 1ª Armata esso è costituito
dall'insieme degli scontri parziali ma violenti che si succedono sul fronte
della nostra divisione Giovani Fascisti dove il nemico tende ad impadronirsi
delle nostre posizioni di sicurezza: sia nella notte sul 25 come nella notte sul
27 i nostri nuclei di Gebel Srafi è di Oebel Therouna vengono violentemente
attaccati da reparti neo-zelandesi ed inglesi ma ogni attacco è vigorosamente
rigettato dai nostri contrattacchi.
Ma mentre queste azioni si
svolgono con carattere di logoramento e di disturbo, si rileva prima e quindi si
accerta che due sulle tre divisioni corazzate dell' 8ª
Armata vengono trasferite sul fronte ovest a rinforzare la 8ª Armata
britannica nel settore Medjc el Bab -Pont du Fahs.
Così sulla
linea di Enfidaville, si è ripetuto quanto accadde a Mareth: l'8ª
Armata
britannica battuta nella battaglia frontale di fanterie, cerca la soluzione con
la massa corazzata verso nuove 'direttrici, salvo a riprendere, appena se ne
presenterà l'occasione, più ampie iniziative anche nel nostro settore massime in
zona costiera dove fra l'altro sembra rimasta la 1" divisione corazzata, mentre.
sta affluendo una nuova divisione, la 56ª
proveniente dall'Irak.
4, -La propaganda nemica, che
in 'passato non lesinò l'insulto, da Mareth in poi cerca piuttosto d'ignorarci,
diffondendo nel mondo la convinzione che le truppe italiane non esistono quasi
più in Tunisia.
Questa propaganda nemica che
s'era creato un suo mito nella figura del valoroso Maresciallo Rommel, oggi non
annunzia alla gioia di distruggerlo. Naturalmente il crollo del mito Rommel
mancherebbe della indispensabile grandiosità se con lui non crollassero le sue
famos-e truppe germaniche.
Ecco perchè, per il nemico,
la resistenza meravigliosa è ancora una resistenza esclusivamente tedesca, ecco
perchè i contrattacchi sanguinosi sono contrattacchi esclusivamente germanici!
Il nemico sa che ì soldati italiani gli hanno sbarrato la via a più riprese, sa
che Rommel è assente dalla Tunisia (glielo hanno confermato i prigionieri), ma
non rinunzia al mito.
Il complesso di battaglie e
di combattimenti svolti da Mareth ad oggi, ha registrato la vittoriosa
affermazione delle nostre fanterie ogni qualvolta sono venute in contatto uomini
contro uomini con le fanterie inglesi che pur beneficiavano di un appoggio di
mezzi formidabili. Il peso dell'ultima battaglia è stato sopportato in misura di
gran lunga superiore dai nostri battaglioni in raffronto ai battaglioni
germanici in quanto le posizioni attaccate dal nemico erano sostanzialmente
tenute da noi. Ne fanno fede le perdite costituite quasi esclusivamente di morti
e di feriti perchè la battaglia per Tunisi ha avuto il singolare aspetto di una
lotta senza quartiere quasi priva di prigionieri per entrambe le parti. Contro 6
battaglioni italiani eliminati definitivamente dalla lotta e 2 ritirati dalla
linea perchè ridotti ad un pugno di uomini, le perdite germaniche si aggirano
sul paio di battaglioni. Comunque è doveroso riconoscere ancora una volta che
le truppe tedesche si sono battute valorosamente anche in questa occasione.
Il peso che la nostra
artiglieria ha avuto nelle passate battaglie è stato
grandissimo: anche se non dotata di. modernissime bocche da fuoco
come le artiglierie alleate e nemiche, essa ha il pregio di possedere quadri
d'avanguardia nell'impiego tecnico del propri mezzi, dai quali ha saputo trarre
un rendimento quale probabilmente nessun altro complesso di quadri avrebbe
potuto ricavare.
La 1ª Armata avrebbe oggi
possibilità di nuove affermazioni per il suo contenuto tecnico e spirituale.
Nelle lotte dure e sanguinose, nella vita tormentata d'ogni giorno, la sua
anima si è affinata acquisendo una sensibilità sublime che si riscontra nello
sguardo febbrile dei nostri feriti dove non si coglie l'ombra d'una
rassegnazione supina di chi sente la fine senza speranza, ma invece la
determinazione cosciente di chi ha capito che qua noi difendiamo la Patria, le
nostre città, la casa, la famiglia. Ma l'Armata marcia rapidamente verso
l'esaurimento.
Già da tempo le nostre grandi
unità si sono di volta in volta ricostituite alla meglio attingendo ai resti di
altre grandi unità disciolte; dopo Mareth si sono sciolti ed inseriti nei ranghi
reggimentali anche tutti i piccoli reparti autonomi, ma ora si è esaurita anche
questa sorgente alla quale si è attinto senza reticenza pur sapendo che il
rinnovarsi attraverso questi resti dì unità privatissime, mina l'efficienza
qualitativa dei. nostri reparti perchè è indubbio che la battaglia elimina di
volta in volta i migliori.
Ma se a ciò non si potrà
porre rimedio, noi continueremo a batterci come per il passato senza domandarci
quanti siamo di fronte al nemico.
Z. O. 30 aprile 1943-XXI.
Il Generale d'Armata
Comandante
GIOVANNI
MESSE
evitando così di lasciare un cospicuo bottino di armi, mezzi e uomini.
Ivi, p. 93. episodio riportato anche in J.F. Cody, Official History
of New Zealand in the second world war 1939-45 - 28° (maori) battalion
, chapter 11.