Commemorazioni

                       

                     DAL DIARIO DI VIAGGIO DI MASSIMO MALANDRINO

 

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Sabato 13 novembre 2010

 

Sveglia alle 5.30 e treno per Fiumicino alle 6.52. Check-in al terminal 4 veloce (il bagaglio pesa 15 Kg) con, subito dopo, le ultime spese nella farmacia dell’aeroporto per garze, fazzoletti da viaggio, gel disinfettante per le mani, pasticche Valda (sempre buone, anche se non fa male la gola), che avevo dimenticato nella predisposizione del bagaglio. Mi assale il solito dubbio di aver dimenticato qualcosa.

 

Controllo sicurezza. Controllo passaporto. Poi sono libero di bighellonare all’interno dell’area di imbarco. Ho un’ora abbondante

 

Il gate di imbarco, H10, è in culo al mondo. Praticamente all’estrema ala sinistra del molo centrale. L’ora d’imbarco le 9.50.

 

Nell’attesa gironzolo per i negozi e mi faccio regalare un cordino per gli occhiali in quello di ottica. Al bar, oltre al caffè, faccio scorta di mentine, liquirizie e gomme-dentifricio.

 

Intorno, il solito via vai di passeggeri in movimento perenne.

 

Alle 9.00 telefono a Daniele. Sono appena scesi dal volo di Malpensa e stanno arrivando al gate.

 

Nell’attesa in quell’aria estrema dell’aeroporto e del mondo mi incontro con Daniel che è in partenza per New York. Una settimana dai parenti. Uno scambio veloce delle ultime esperienze e le impressioni del nostro viaggio americano. Un impegno a stare insieme una sera. Era a conoscenza del mio viaggio egiziano e della passione dei luoghi della memoria.

 

Poi arriva Daniele. E’ insieme a Claudio Govi, Sandro Biraghi e Andrea Stassano, già compagni di sue precedenti avventure africane. Tutti alla prima esperienza libica.

Gli altri 4 ci raggiungeranno a Bengasi e Daniele conferma che a Tripoli troveremo la coincidenza aerea.

 

L’imbarco è puntuale. Con la navetta siamo accompagnati all’Airbus A321 che attende. Il mio posto è il 22D, rigorosamente corridoio. L’aereo è semivuoto. Forse al 40%. Questa volta non ci sono bambini che vomitano, passeggeri impazienti e indisciplinati, cappelliere stracolme.

 

 

La normale trafila per il decollo fa sì che il nostro take-off avvenga alle 11.05.

 

Il comandante informa che il volo durerà un’ora e mezzo. Che il tempo sarà buono e che a Tripoli piove.

La rotta passa per il mediterraneo e non ci sono turbolenze o particolari scossoni. Parlo con Daniele di campagna, olio, e del vederci in Umbria al ritorno.

 

Alle 13.30 (ora di Tripoli, ovvero più una, rispetto all’ora italiana) atterriamo e alle 14.00 siamo liberi, con i nostri bagagli nel grande atrio dell’aeroporto di Tripoli, dopo aver fatto il rituale controllo passaporti e dei visti (fondamentale la fotocopia del visto inviata da Daniele prima della partenza).

 

Cambiamo 50,00 € a testa al cambio con l’aiuto dell’addetto dell’agenzia che ci fa da supporto. Anzi, sono due. Parla poco inglese e niente italiano, ma ci si capisce.

 

Il cambio è 1,72 Dinari libici per 1,00 €.

Controllo il telefono, il mio gestore libico è Libia Al Madar. Il telefono sembra ricevere, ma non mi consente di fare telefonate. Più tardi proverò con i messaggi.

 

Fuori piove e la temperatura è di 14°. Strano per un paese desertico. Il nostro aereo per Bengasi-Bedina parte alle 18.00. Il bar è molto sfornito e non invita a nessun pranzo, ma mentre siamo lì a guardare strani panini indecisi sulla scelta, nostro boy libico dell’agenzia ci chiama con urgenza: è riuscito ad anticipare il volo a quello delle 15.00. Volo LN 604.

 

Check-in velocissimo, mancia in euro al boy, e via verso il controllo sicurezza.

 

Poi partenza su un piccolo Bombardier CRJ 900. della Libya Airlines. Il mio posto è 16 C. Mentre stiamo per decollare il telefono squilla: è Diego che mi fa gli auguri di buon viaggio pensando che sia ancora in Italia. Un saluto caro e di buon auspicio. Lo passo anche a Daniele per condividere la sorpresa.

 

Stiamo rullando verso il decollo e ai bordi della pista si intravedono aeri abbandonati: aerei passeggeri, aerei da trasporto militare. Si intravede anche la sagoma del nuovo aeroporto di Tripoli in costruzione.

 

Il volo dura meno di un’ora. A bordo un’anziana hostess e un vetusto steward controllano che tutti rispettino cintura e sedile verticale. L’illustrazione dei sistemi di sicurezza è in arabo e, guarda guarda, anche in inglese. Sono seduto accanto ad un taciturno libico che dormicchia ed ogni tanto osserva il panorama esterno.

 

Scendendo verso l’aeroporto si notano a destra basse colline di color rosso. A sinistra, invece la città. Ha piovuto da poco e la terra rossa è ancora impregnata di acqua.

 

Atterriamo dopo un’ora e dieci minuti esatti di volo. Anche qui siamo tra nuvole di pioggia e rottami di aeri ma la temperatura è di 22°. L’aeroporto è anche militare e si vedono shelter con dentro sagome di aerei da trasporto. Occorre fare attenzione: è vietatissimo fotografare soggetti ed oggetti di carattere militare.

 

Alle 16.00 siamo liberi nello scalo di Bengasi (Benghazi in arabo) con valige e niente da fare.

 

Parlare di aeroporto è troppo: il complesso aeroportuale della seconda città libica si riduca ad una palazzina a un piano che sembra un deposito. Fuori due negozi improbabili e un caffè stile “deserto”. All’esterno, sotto una pensilina in eternit c’è anche il nastro bagagli, completamente inutile ed immobile, visto che i bagagli sono sul carrello che le ha trasportate dall’aereo e lì rimangono affinché ognuno peschi il suo.

 

Un aeroporto molto spartano. Chissà come sarà, allora l’aeroporto di Cufra, nell’estremo sud o quello verso le altre oasi sperdute nel deserto.

 

Scopriamo che i nostri telefoni (tranne quello di Sandro) ricevono ma non consentono telefonate. In partenza solo sms. Invio un messaggio a Mery, informandola dell’handicap telefonico.

Andrea è messo peggio: i suoi due telefoni non inviano neanche gli sms. Inizia una sua lunga battaglia con i gestori italiani per la bufala rifilatagli all’ultimo momento (“..comprato telefono e sim con la garanzia assoluta di ricezione e trasmissione…”). Gli metto a disposizione il mio portatile per condurre senza successo, la sua guerra.

 

All’aeroporto siamo avvicinati da un autista che afferma di essere il nostro taxi. Ma noi stiamo attendendo Enrico Manfredini con le due jeep provenienti dall’Italia. Lui insiste, poi telefona, poi re insiste, si allontana, ritorna. Poi finalmente passa un telefono funzionante e fa parlare Daniele con Enrico, all’altro capo del telefono. Effettivamente è il nostro taxi inviato per raccoglierci all’aeroporto e portarci in albergo. Loro sono in ritardo, a circa 60 Km da Bengasi.

 

Appuntamento al Alwahat Tourist Hotel alle 19.00.

 

Così, tra sorrisi di vittoria del tassista e tranquillità nostra saliamo sul pulmino che ci porta al centro. Intravediamo Bengasi nel lungo percorso fino all’albergo.

Una città dolente per abbandono e sporcizia.

 

Il suo nome così impresso nella nostra memoria per film, battaglie, conquiste e riconquiste, si mostra come una grande periferia sciatta e trasandata.

 

L’albergo, forse il migliore della città stando a quanto dice la guida Planet di Andrea, sembra un catalogo di oscenità architettoniche: il kitsch si confonde con l’inutile e l’irrazionale, un faretto solitario e penzolante è posto sotto la mensola della reception per illuminare, se funzionasse, scarpe e pantofole degli ospiti.

 

Non manca alla parete della hall la grande foto di Gheddafi, presidente, padre, icona e gran padrone della Libia risorta a dignità di stato (petrolifero).  

 

Ma poco dopo “arrivano i nostri”: 3 jeep Land Cruiser Toyota, la Regina del Deserto, con gli altri compagni di viaggio e di avventure: Enrico Manfredini. Sarà la nostra guida, il nostro driver, cuoco e cerimoniere, traduttore simultaneo dell’arabo, attento osservatore dei reperti raccolti e consentiti (niente mine incandescenti, ordgini ancora non esplosi, bombe a mano innescate ed altri piccoli “innocenti” souvenir). Ci sono anche Vincenzo Silvano e Mauro Gorini, due medici ospedalieri già esperti di deserto e con Vincenzo che è già stato in Libia, addirittura, e nelle zone “belliche” che speriamo di vedere.

 

C’è anche Riccardo Tabasso, finalmente ricostruito il gruppo di Alamein. Riccardo guida la seconda jeep, quella rossa. La terza non viene dall’Italia ma è libica, dell’agenzia di supporto locale cui si è rivolto Enrico per le necessità particolari: il poliziotto Alì (il giovane Alì) e l’autista tutto fare Hassan (grande driver di dune desertiche, esperto in visti, autorizzazioni, polizia, e posti di blocco).

Alla frontiera hanno dovuto applicare targhe libiche (provvisorie, in quanto saranno restituite alla partenza) sopra quelle italiane.

La jeep di Enrico, poi, ha un serbatoio supplementare di 250 litri, oltre alle otto taniche da 25 litri che stipano le due macchine insieme a tanta altra roba. Sopra ci sono portapacchi già occupati da pneumatici in caso di forature.

 

Le jeep sono dotate di radio per comunicare tra di noi in movimento, così non perderemo tempo e saremo sempre in contatto per ogni evenienza.

Inoltre la dotazione base è data da GPS per la jeep ammiraglia (quella di Enrico) che integra il GPS che ha con sé Daniele e quelli che hanno Mauro e Sandro. Quindi, impossibile perdersi nel deserto.

 

Distribuzione stanze (la mia è la 113) e successiva “presa in possesso della città”.

 

La mia stanza è a due letti ma sono da solo. Ho preferito la scelta solitaria per non infliggere ad un altro compagno il mio russare notturno e le andate al gabinetto frequenti.

La stanza ha mobili da fallimento, un televisore in posizione ospedaliera, anche un frigo bar collocato sopra un banchetto traballante di legno, desolatamente vuoto con una bottiglia di acqua minerale aperta e piena a metà, un gabinetto con vasca e doccia, niente bidet (all’inglese) ma con una piccola manichetta attaccata al wc da usare come spazzolone-bidet-disinfettante. L’acqua calda è garantita dal boiler singolo (che va acceso).

Inutile guardare fuori: desolazione di case non intonacate, case in costruzione, case in demolizione, strade senza marciapiedi, strade senza niente.

 

L’appuntamento è alle 19.30, nella hall. Prendiamo un taxi con 9 posti, malandato ma con tanto di strapuntini, che ci porta verso il “centro” (?). In realtà è sul lungomare dove un ristorante di pesce con pescheria annessa consente di scegliere cosa si vuole e poi una grande griglia è pronta per cucinarlo nel migliore dei modi. Scegliamo calamari, sarde, gamberoni e cernie.

 

Ci accomodiamo dentro il ristorante davanti a dei lavandini ben in mostra e vista. E’ uso del luogo lavarsi le mani prima e dopo il pasto e ben in vista da tutti. Incuriosito, ne approfitto.

 

Iniziano a portarci i pesci man mano che sono pronti. Calamari e sarde sono i primi, seguono i gamberoni, le cernie. Porzioni giganti e qualità ottima. Ci portano anche patate fritte e salsa piccante. Il pane è fatto a baguette, come fossero panini all’olio.

 

Si beve acqua, birra rigorosamente analcolica, Coca Cola (che poi è Pepsi perché la Coca Cola è bandita in tutti i paesi arabi).

 

Le portate non finiscono più ed alla fine avanza una grande quantità di pesce.

 

Paghiamo 38 Dinari a testa (335 totali), ovvero circa 20,00 €.

 

Rientriamo in albergo verso le 21.30 stanchi e pronti per il letto. Sono certo che russerò come un taglialegna norvegese. Chiedo la sveglia per le 6.00 di mattina. La partenza è prevista per le 7.30, colazione fatta.

 

Alla televisione ci sono i canali satellitari. Si vede anche Canale 5 (non avevo dubbi che il padre padrone della Libia avesse concesso al “nostro” diritto di immagine in terra africana). In una televisione locale trasmettono anche Juventus - Roma. Mi addormento, ovviamente con la televisione accesa, con la Roma che perde 1-0.

 

Concludo nel dormiveglia della sconfitta giallorossa la mia prima giornata in terra Libica. Non riesco neanche a pensare che si compie il desiderio dei miei anni giovanili, quelli passate sui libri, le foto e le cartine di questi luoghi.

 

 

 

Domenica 14 novembre 2010

 

Mi sveglio prima delle 6.00 e scopro che la Roma ha pareggiato 1-1. Attendo, comunque, che dalla reception mi diano la sveglia come promesso e come effettivamente avviene. Non è automatica, è proprio l’addetto che in un misto di arabo-inglese mi invita ad alzarmi.

 

Barba, doccia, niente phon, rifaccio la valigia e scendo per la colazione. La grande sala ristorante rispecchia lo stile pacchiano dell’albergo. In fondo alla sala buia un buffet malinconico offre uova sode, marmellata, pane e burro. Il caffè sii fa con l’acqua calda e bustine di Nescafè. C’è anche del tonno sott’olio dal quale mi tengo alla larga.

 

Trovo già Daniele, Sandro e Vincenzo. Mentre faccio colazione arriva Enrico e saldo il mio debito relativo al visto ed alla sistemazione in camera singola.

Si parte puntuali dopo aver caricato le jeep oltre misura. Capisco ora a cosa servono le sospensioni rinforzate. Sono con Riccardo, ovviamente. Con noi anche Vincenzo e Mauro.

 

Giro veloce per il centro città. Forse sopravvivono costruzioni italiane ma sono difficili da individuare. Forse non vediamo le zone giuste, ma Bengasi, tra guerra ed epurazione ghedaffiana conserva poco della presenza italiana in Libia.

 

Delusi dirigiamo verso nord ed usciamo dalla città tra discariche e avanzi di civiltà stipati in recinti precari.

Uno di questi raccoglie porte ed infissi provenienti da demolizioni e diretti a nuove costruzioni. Da qui, dunque, provengono le porte del bagno dell’albergo “tra i migliori della città”. Ma ci sono anche cumuli di elettrodomestici, avanzi di automezzi, materiali edili di difficile riutilizzo ed ogni altra accozzaglia di residui industriali sui quali ho forti dubbi circa i possibili riutilizzi.

 

Gradualmente la periferia è sostituita da una campagna di terra rossa e colture scarse. Alla nostra destra si intravedono le colline ferrose del Gabel el Achdar, già viste nella fase di atterraggio.

 

Stiamo percorrendo la strada che porta a Derna (Darnah in arabo). Di fatto è il tracciato della vecchia via Balbia, che ancora si intravede a tratti con la sua stretta carreggiata a due corsie. La strada attuale è più ampia, pur essendo sempre a due corsie.

 

Seguiamo l’itinerario muniti di varie guide: la guida del 29 del TCI delle Colonie Italiane di Vincenzo, che ne garantisce ancora l’attendibilità e l’utilità avendola usata nel precedente viaggio, le mie guide della Polaris sulla Libia mediterranea e le carte storiche dell’IGM risalenti al 1938 e in uso allo Stato Maggiore dell’Esercito (acquistate anni prima per l’impossibile viaggio in Egitto), varie carte attuali.

 

Lasciamo la costa e ci inerpichiamo sulle colline rosse attraverso vari tornanti. Troviamo a guardia del passo un vecchio forte semidistrutto di epoca turca: Forte Bagur. Ci fermiamo. Dal forte si domina il mare sottostante, il golfo della Sirte, e la lunga spiaggia. Si domina, anche, il tratto di strada che oramai, superati i tornanti, procede dritta sull’altopiano.

 

E’ zona agricola e si vedono anche le vecchie case coloniche italiane, realizzate per i contadini chiamati nel 1935 da Balbo a coltivare il deserto. Non è possibile vedere le case da dentro. Alcune sono abitate e molto rimaneggiate, altre completamente abbandonate.

Ci domandiamo la dimensione del lotto minimo. Sarà necessaria una ricerca al ritorno in Italia.

 

Le case coloniche sono tutte uguali. Ad un piano e di circa 100 mq complessivi. Forse cucina e tre stanze. Davanti un piccolo porticato, con due archi ai lati dell’ingresso, arricchisce la facciata comunque semplice e dignitosa.

Proseguiamo ed incrociamo anche piccoli agglomerati urbani di chiara architettura italiana: erano i centri amministrativi coloniali ancora oggi di pregevole fattura.

 

Superiamo la vecchia Barce, ora chiamata Al Marj, sul nuovo tracciato della strada. Faccio fatica a collegare i vecchi nomi italiani con la nuova toponomastica. Le due mappe, l’antica e l’attuale non sempre corrispondono in tracciati e località.

 

Dopo circa un’ora attraversiamo Omar el Muktar, il villaggio italiano una volta chiamato Villaggio Mameli ed ora dedicato all’eroe senusso impiccato da Graziani nel 1931. Non riusciamo a fermarci ma intravediamo dalla strada principale la chiesa, il comune, la piazza, gli edifici che sicuramente accoglievano le attività amministrative.

 

Ci fermiamo, invece, a comprare pane e verdure a Al Bayda e proseguiamo per Cirene che è adiacente.

 

Arriviamo al sito archeologico attraversando una pineta addobbata di buste di plastica attaccate ai rami dei pini. E’ un paesaggio inquietante, come se una grande discarica cittadina fosse esplosa per ricoprire la pineta (ed il pianeta) dei suoi “frutti”.

 

Cirene, fondata nel VII secolo a.c. da un gruppo di giovani elleni provenienti da Santorini, come narrato da Erodoto, ha un ingresso tutto sommato modesto in relazione all’importanza archeologica del luogo. Un cancello anonimo con accanto la piccola guardiola che funge anche da biglietteria d’ingresso (6 DL).

 

All’ingresso un’anziana guida, che parla molto bene italiano, chiede 50 Dinari per due ore di visita guidata. Non abbiamo questo tempo a disposizione e poi il tempo gira al peggio, così decliniamo la proposta ringraziando.

 

Vedremo velocemente Cirene la vecchia capitale della Cirenaica, affidandoci alle nostre guide cartacee. Giusta decisione perché appena entrati nel grande Ginnasio comincia a piovere alla grande. Bagnato come una lontra torno indietro per raggiungere la jeep in cerca di riparo.

 

Nel frattempo sono arrivati dei turisti italiani, anche loro vittime del tempo piovoso e della gita rinviata. Sono arrivati con un pulmino che attende fuori, nel parcheggio.

 

Gradualmente ritornano tutti, zuppi, e proseguiamo in macchina verso un vicino resort turistico. Pochi chilometri, mentre la pioggia si allontana ed esce una parvenza di sole.

 

Pranziamo nel parcheggio con panini preparati con maestria e perizia da Enrico. Il pianale della sua jeep diventa piano di appoggio. Le baguette libiche tagliate a metà, i pomodori come guarnizione, formaggio e mortadella, mele ed aranci.

 

Con Mauro prendo un caffè al bar adiacente. Una specie di caverna chiusa da una porta a vetri con un bancone orrendo dietro il quale stanno tre ragazzi. Sotto, nella grotta, una comitiva di inglesi prende il tè.

Resto ancora stupefatto per la totale mancanza di gusto nel realizzare gli ambienti. Pavimenti montati male, campionari di piastrelle per rivestimento, stuccature grossolane e imprecise, nessuna logica nella disposizione degli arredi fissi.

 

Il centro è anche un residence con cottage singoli. Forse la comitiva fa base qui per esplorare, poi, i dintorni.

 

Riprendiamo la strada per Derna, passando per Apollonia, il vecchio porto di Cirene. La pioggia è fuggita veloce verso ovest e forse ci darà tregua.

 

La strada asfaltata scende verso il mare attraverso tornanti dolci. Costeggiamo una zona di tombe greche e romane. Riappare a tratti, come una traccia fantasma, la vecchia Balbia, con i suoi paracarri e l’asfalto desunto e abbandonato. Sono resti oramai di archeologia industriale. Sopravvissuti anche loro alla guerra, l’arabizzazione della Libia, i nuovi standard stradali e le sezioni dei mezzi attuali, più larghi di quelli di una volta.

 

Ci fermiamo a metà della discesa per ammirare Apollonia dall’alto e la costa mediterranea su cui è adagiata.

 

Scendiamo ancora fino al centro della città, dove c’è il museo. La piazza è di impostazione tipicamente italiana così come lo sono tutti gli edifici che la circondano.

Il Museo, con il suo timpano classicheggiante e la piccola scalinata antistante è chiuso.

Alcune case intorno testimoniano l’edilizia italiana degli anni trenta. Molto malandate ma con la dignità di un’architettura destinata ad una comunità legata alla tradizione culturale e sociale italiana.

 

Visitiamo anche gli scavi archeologici, pagando i soliti 6 DL. Riesco a vedere la basilica occidentale e la basilica centrale con le terme. Sullo sfondo le sagome minacciose di turisti europei arrivati con i 2 pullman che stazionavano davanti l’ingresso. E’ tardi ed il sito archeologico sta chiudendo e poi ha ripreso a piovere. Una nuvola ritardataria nel suo tragitto verso occidente.

Compro anche cartoline e francobolli da un anziano libico per 35 DL. Ma tra i francobolli ci sono anche simpatici fogli e risme intere. Per l’improbabile collezione filatelica della Libia.

 

Tra le cartoline, invece, risalta una con Gheddafi ed il nostro premier. La foto risale alla visita romana del 2009 del padre-padrone della Libia. Riconoscibile la data per la grande foto di Omar el Muktar, sotto il bavero destro, che causò sconcerto diplomatico ed ilarità mondana tra i romani (“…c’è venuto impomatato e cor quadro der morto ar petto….”).

 

Riprendiamo la strada verso Derna dove  arriviamo verso le 16.00. Ma proseguiamo alla ricerca del vecchio aeroporto di El Feteiah. Da dove decollava Guido Sturla il pilota dell’”Asso di Bastoni”, parente di Andrea Stassano. Stassano ne ha scritto la storia in “Quel piccolo paracadute”. Da El Feteiah Sturla decollò per l’ultimo volo, una missione verso Bir el Gobi. Lì abbattuto, come risulta dai documenti italiani ed inglesi, anche se aereo e corpo non furono mai trovati.

 

La ricerca non è facile. Cerchiamo una casa cantoniera dove alloggiavano gli ufficiali. Una casa adiacente all’aeroporto. Domandiamo, qualcuno ricorda, ed indicano un’area dove ora ci sono campi coltivati.

 

Finalmente ci conducono in un’area che era la pista di atterraggio e decollo. Il proprietario dell’area ci accoglie con entusiasmo e conferma che lì, dove ora sono ortaggi pregiati, c’era la pista di atterraggio e decollo. Una pista in terra battuta, ovviamente. La pista si estendeva in direzione nord-nordovest e pare, addirittura, che l’aeroporto sopravvisse fino alla metà degli anni 50. Ci racconta, anche, che lui bambino, assistette all’acquisto della terra da parte del padre, proprio in quegli anni. La terra fu acquistata ad un italiano.

 

 

Parla un poco di italiano e qualche parola di inglese. Andrea gli spiega il nostro (e suo in particolare) interesse verso quel luogo.

 

Intorno troviamo un copertone di ruota di aereo e vecchi bidoni di benzina italiani, riconoscibili per i rinforzi fustellati aggiunti.

 

Certo, non ci sono, hangar, capannoni, resti di Macchi Saette e Sagittari e neanche di Sparvieri (da qui decollò Balbo per il suo ultimo volo sull’SM 79 il 28 giugno 1940).

Crediamo alle parole dell’anziano libico, orgoglioso di raccontare la sua storia e la sua fortuna. Felice di aver portato questi matti italiani dentro la sua terra e mostrare anche le sue coltivazioni pregiate ed il suo sistema automatico di irrigazione.

 

Lasciamo El Feteiah convinti del luogo e certi dell’aeroporto. Ritorniamo verso il centro per la grande strada litoranea. Ai bordi c’è un gran mercato di pecore. Centinaia di pecore, divisi in piccoli greggi aspettano compratori. Sono pecore dal vello scuro, quasi marrone ed alcune con una parte del manto nero.

 

Scopriamo che martedì prossimo è la festa in cui gli arabi commemorano Abramo e lo scampato pericolo di Isacco di finire ucciso dal padre dietro ordine di Dio. L’angelo inviato come messaggero, infatti, fermò la mano del Patriarca e lo informò che Dio, appagato della sua ubbidienza, acconsentiva che al posto di Isacco si sacrificasse una pecora. Da allora la strage degli ovini si perpetua ogni anno in dimensioni apocalittiche. Forse sarebbe stato meglio uccidere il solo Isacco che milioni di bestie ogni anno per l’obbligo di celebrare uno sventato omicidio!

Gli arabi lo considerano un loro patriarca perché discendono da Ismaele, il figlio avuto da Abramo con la schiava egiziana Agar, poi ripudiata per dedicarsi ad Isacco avuto con la moglie anziana per volere di Dio.

 

Così ora, fiorisce ai bordi delle strade questo mercato di pecore vive. Gli acquirenti si avvicinano con le macchine, scelgono la pecora o le pecore e le caricano vive nei portapacchi. Il resto della storia è facilmente intuibile. Stupisce la docilità di questi animali che si fanno scegliere e caricare con pochi belati. Rassegnate all’infausto destino.

 

Qualcuno fa della matematica e si ipotizza in questi due giorni non meno di 800.000 pecore sacrificate in nome di Abramo.

 

Ma siamo entrati a Derna e guidati velocemente all’albergo situato sul lungomare, l’Africa Hotel (forse l’unico albergo cittadino e comunque un 3 stelle). Scarichiamo e prendiamo possesso delle stanze.

 

La mia, singola, è la 115  adiacente le scale al 1° piano. Un piccolo disimpegno serve il bagno. La camera è di dimensioni ridotte con un letto singolo, una specie di armadio, un televisore, rigorosamente con la parabola, ed il solito frigo bar, anch’esso rigorosamente vuoto. Come a Bengasi il bagno è servito dal boiler singolo per l’acqua calda (da accendere), senza bidet e con l’insolita dotazione di manichetta attaccata al wc. Niente lenzuola, niente carta igienica ma, in compenso, un asciugamano (gli altri neanche questo). La doccia non ha la tenda ed è impossibile non trasformare il bagno in lago. Solo dopo aver fatto la doccia capisco l’utilizzo dello strano spazzolone per convogliare l’acqua verso il bocchettone di raccolta situato al centro del vano. Lo pensavo dimenticato dal personale addetto alle pulizie ed invece è una necessaria dotazione dell’alloggio.

 

Appuntamento alle 19.30 nella hall. Con un taxi-pulmino per i soliti nove andiamo a cena al ristorante Salsabil, sul lungomare: riso con mandorle e uvetta, patate fritte, misto di carne alla griglia e salse varie. Ovviamente non riesco a mangiare tutto. La spesa è di 20 DL, taxi compreso (al cambio 12,00 €).

Breve giro di Derna notturna per scoprire che la città vive dopo il tramonto. Alle dieci di sera sono ancora aperti tutti i negozi alimentari e sono molti che fanno la spesa a quell’ora.

 

Rientriamo in albergo alle 10.30. Appuntamento già colazionati alle 7.30 di domani mattina. Non chiedo la sveglia perché non ho il telefono. Così predispongo quella del telefono.

 

Mi addormento su un canale di film americani d’azione con sottotitoli in arabo.

 

 

 

 

Lunedì 15 novembre 2010

 

Mi sveglio qualche minuto prima della sveglia. A quest’ora la televisione trasmette videoclip di cantanti arabi. Lascio la musica alzando il volume mentre mi doccio e mi sbarbo.

 

Preparo anche il bagaglio. Quando esco per la colazione trovo Vincenzo che mi indica attraverso le scale in fondo al corridoio la via verso il bar interno. E’ al piano di sopra. Un addetto mi porta un piatto con tonno, burro, pane, marmellata e formaggino “mio”. Per il caffè, invece posso fare da solo con il solito sistema di acqua calda e Nescafè. Guardo l’orologio: le 8.30. Cazzo! Sono in ritardo di un’ora. Solo ora mi ricordo che il telefono è ancora sull’ora italiana, ovvero, un’ora indietro.

 

Il mio ritardo è mitigato dal fatto che l’ora di ritardo è stata utilizzata dagli altri per fare la spesa.

 

Quando scendo colazionato stanno caricando i bagagli. Alle 9.00 partiamo con direzione Tobruk.

Risaliamo il costone di Derna e ripercorriamo la strada di ieri pomeriggio in cerca dell’aeroporto. Forse individuiamo anche la Casa cantoniera usata dagli ufficiali italiani al posto delle tende da campo.

 

Continua il mercato di pecore destinate al massacro ma proseguiamo veloci e poco dopo la strada fila dritta costeggiando il golfo di Bomba ed il suo mare.

Superiamo Ain Gazala (Ayn Ghazalah), teatro di violenti scontri tra carri nel lontano gennaio 1942 e ci fermiamo davanti al cartello di Tobruk 55 Km. Più avanti svoltiamo a destra di qualche centinaio di metri. Siamo di fronte il grande cimitero inglese di Acroma - Knights Bridge. Qui sono raccolte 3.651 tombe di caduti inglesi, australiani, sudafricani e neozelandesi di cui 993 ignoti. Tutti caduti intorno a novembre 1941, al tempo dell’offensiva inglese per riconquistare la Cirenaica e togliere l’assedio di Tobruk.

 

Alcune lapidi si stanno “squamando” e le stanno sostituendo. Provvisoriamente ci sono delle lamine in metallo che indicano il caduto ed il prossimo ripristino della lapide in pietra.

 

La lapide di un australiano, K. MC Kay morto l’8 agosto 1941 a 22 anni, ha una rosa rossa fresca. Forse i turisti inglesi del resort di Cirene sono in realtà australiani ed hanno fatto visita ai loro soldati caduti.

 

Il grande cimitero ricalca stile e impianto di tutti i cimiteri inglesi. Qui domina l’uso della pietra gialla che si amalgama al colore della terra e del deserto, come a mimetizzarsi. Anche le lapidi acquistano progressivamente il colore della sabbia e si “ammalano”, come abbiamo visto.

 

L’età dei caduti fa impressione: 21 anni, 22 anni, 20 anni, qualcuno supera i 30, ma sono ufficiali o soldati di carriera.

 

Riprendiamo la via asfaltata e raggiungiamo la periferia di Tobruk e costeggiamo il porto senza entrare in città. Facciamo benzina e gasolio (la jeep di Hassan è a benzina, le due italiane a nafta). Benzina e gasolio costano pochissimo, qui in Libia. Il pieno della jeep costa 9 DL circa 5,00 € rispetto agli 80,00 € in Italia.

 

Aspettiamo anche la guida “esperta in campi minati” che ci guiderà fino a Bir Hakeim. Si chiama Junnis e quando arriva sale sulla jeep di Hassan, insieme a Daniele. Proseguiamo per la grande strada asfaltata che conduce a Giarabub.

 

Dopo 20 Km, all’altezza del villaggio el Adem giriamo a destra e prendiamo la grande nuova strada asfaltata che percorre il deserto fino ad Aghedabia. Noi ne faremo solo una parte di percorso fino all’altezza di Bir Hakeim, appunto.

 

Alle 12 ci fermiamo per il pranzo. Lasciamo l’asfalto di poche centinaia di metri ed entriamo nel deserto piatto e sassoso fino ad accostare una piccola collina. In tempo per non farci travolgere da un camion con rimorchio cui scoppia una gomma posteriore a centro metri da noi, tra pezzi di copertone e battistrada che schizzano da varie parti. Mentre filiamo per il deserto notiamo che l’autista si è fermato, sceso a controllare e ripartito. Se fosse stata la ruota anteriore forse l’effetto sarebbe stato diverso, soprattutto per la nostra jeep.

 

Enrico prepara seduta stante un’insalata di ceci e fagioli con pomodori, mais e cipolla. Il pane è sempre la baguette libica che ricorda i panetti all’olio e la frutta le ottime mele ed aranci.

 

Alle 15.00 riprendiamo la strada asfaltata ma per pochi chilometri. Poco più avanti, infatti, lasciamo nuovamente l’asfalto e ci addentriamo a sinistra per una esile pista, appena tracciata.

 

Percorriamo questo tratto di deserto con cautela. Incrociamo una tenda di pastori con gregge al seguito. Ma c’è pure un asinello che ci osserva mite e cani pastori che ci inseguono ringhiosi.

 

Dopo circa 20 Km di fuori di questa pista accennata arriviamo ai pozzi di Bir Hakeim.

 

Il primo sguardo è abbastanza incerto, ma poi cominciamo a riconoscere postazioni, buche, piazzole di mitragliatrici. Ci addentriamo cautamente e scopriamo che il terreno è ricoperto di resti di battaglia. Indubbiamente è il centro dell’accampamento.

 

Il box, all’epoca aveva 16  Km quadrati ed era difeso dalla 1° Brigade Français Libre comandata dal generale Pierre Koenig. La battaglia principale si svolse dal 27 maggio all’11 giugno 1942. Erano 3.500 uomini della 13° demibrigade Legion Etrangère, della demibrigade Colonial composta dal batalion fanteria di marina, da quello dei fucilieri marini, dal batalion  Oubangui-Cher ed un batalion du Pacificic oltre ad altri reparti di artiglieria, di fanteria nordafricana e del genio. Ebbero contro la nostra Ariete, la Ttrieste e reparti tedeschi della 21° panzer.

Per i francesi Bir Hakeim è il nome che riconsegna l’onore militare dopo le sconfitte brucianti del 40’. A Parigi una stazione della metropolitana ne ricorda le gesta.

 

I pozzi (tre) sono situati a ridosso delle due collinette adiacenti, le famose mammelle, come le chiamavano i francesi.

 

Questa sera faremo campo qui. La guida Junnis tornerà a Tobruk con la jeep di Hassan. Domani mattina sarà nuovamente qui alle 9.30. Con noi rimane Alì.

 

Sistemiamo le tende. Io lo faccio con l’aiuto di Enrico che mi mostra i segreti del corretto montaggio. Tolgo sassi e sassetti per garantirmi un “materasso” morbido sotto il sacco a pelo.

 

Nel deserto il buio scende presto dopo il tramonto. Ceniamo vero le 18.30 con minestrone e frittata sui due tavoli pieghevoli accostati, illuminati dalla lampada da 12 volt alimentata dalla presa dell’accendisigari delle due jeep sistemate parallelamente. Ci sediamo su poltroncine pieghevoli.

 

Enrico è attrezzatissimo. Smonta la jeep con i contenitori predisposti per le stoviglie, le due bombole del gas, il paravento, gli alimenti.

La sua cucina è buona e calibrata il giusto. Ha anche Tavernello, per chi non può fare a meno del vino. L’unica cosa che mi manca è l’acqua gassata che in Libia non esiste. Ma ne faccio benissimo a meno.

Inoltre così bevo meno con minore necessità di fermarmi per andare al gabinetto.

 

Intorno al tavolo si discorre di armi, munizioni, camminamenti ed altri temi militari.  

 

La sera fa sentire il freddo l’umidità e tocca mettersi felpe e giacconi per difendersi dai circa 5°. Il giorno, invece la temperatura è ottimale: 25°-30° e sto bene con la sola maglietta.

Qui nel deserto benedico gli anfibi Magnum con suola vibram comprati prima di partire al mercato di Porta Portese. Mi sembra di camminare su un pavimento liscio anche quando percorro sassaie e resti di metallo.

 

Alle 21.30 vado in tenda. Mi addormento subito tra pensieri leggeri e la stanchezza delle emozioni della giornata.

 

 

 

Martedì 16 novembre 2010.

 

Mi sveglio verso le 6.00 con le prime voci degli altri che si sono già alzati. Enrico prepara il caffè all’italiana con una moka di dimensioni maestose. Pane, frutta, marmellata. C’è anche il tè per chi lo gradisce.

Mi lavo mani e faccia con il gel disinfettante e per dentifricio uso le Daygum protex, acquistate a Fiumicino in quantità industriali.

 

Smontiamo le tende e carichiamo le jeep. Bruciamo anche i rifiuti prodotti. Il tempo ed il deserto uniformerà molto presto gli avanzi di latte nostre con quelle dei francesi del 42’.

 

Mentre aspettiamo il ritorno di Hassan e Junnis perlustriamo il terreno. Sulla mia guida di Jacques Gandini si racconta che una volta il cimitero francese era sistemato qui, sul campo di battaglia con un monumento che ricordava le gesta dei legionari.

 

Claudio, il cui abbigliamento ha il premio di accostamento con il luogo e di cui gli invidio i capi sapientemente scelti, questa mattina ha il cappello, “tipo boyscout”, delle truppe  sovietiche in Afghanistan.

 

Poi vandalismi dei libici per solidarietà con gli algerini e le ordinarie deturpazioni dei beduini hanno obbligato il governo francese a trasferire cimitero e monumento vicino Tobruk, al bivio con el Adem lasciando tutto come allora. Infatti, il campo trincerato si legge ancora con facilità. Ci sono intorno a noi resti di filo spinato, buche e piazzole circondate dai sassi di protezione, addirittura un otturatore di cannone da 75 e resti di nastri per mitragliatrici, coperchi di mine anticarro, bossoli, bottiglie di vino, bottigliette di birra.

La difesa del campo aveva molti centri di fuoco e noi ne stiamo nel mezzo.

 

I nostri esperti sono al lavoro nell’attribuire paternità a bossoli, avanzi di maschere antigas, spolette, resti di nastri di mitragliatrici. Vincenzo, Claudio e Daniele sono i conoscitori a cui chiediamo le provenienze dei reperti. Vincenzo poi, riconosce gli avanzi più strani e indecifrabili: un accenno di fibbia “…appartiene a giberna inglese modello 41’ in dotazione ai francesi….” e un mozzicone di nastro è immediatamente attribuito “… a mitragliatrice belga in uso delle forze francesi nel 1940….”, e così via.

 

Alcuni tumuli di pietre lasciano immaginare tombe predisposte nel mezzo della battaglia. Ma tutti i caduti sono stati raccolti e tumulati nel cimitero.

 

Lasciamo il campo trincerato di Bir Hakeim verso le 10.00. Le guide non si vedono e decidiamo di andargli incontro. Li troviamo, infatti, che ci attendono alcuni chilometri prima dal pastore. Non si sono capiti con Enrico, dicono, ma più probabilmente sono partiti tardi la mattina. Ritroviamo i cani che ci inseguono ed i pastori che ci salutano. Le pecore scampate alla mattanza, pascolano ignare ma sempre silenziose e remissive, l’asinello, invece è curioso e taciturno.

 

Ricostruiamo il convoglio di jeep e ripercorriamo la pista con il suo fondo sassoso e duro. Ora sulla nostra jeep Andrea ha preso il posto di Vincenzo. Ci parla di aerei e di auto le sue passioni. Conosce tutto di queste macchine dagli aerei a pistoni a quelli a turbina: è il Vincenzo dell’aeronautica. Ma anche delle automobili conosce segreti, meriti e difetti.

 

Ritroviamo la strada asfaltata e ritorniamo verso Tobruk fino al bivio per Giarabub. Giriamo a destra e ci fermiamo a Al Adem a fare nuovamente benzina.

 

Proseguiamo scendendo verso Giarabub per 40 Km. A questa altezza, nella strada complanare c’è il pozzo di Bir El Gobi, con la stele a terra fatta dagli italiani che indica le varie distanze: Tobruk 67 Km, Mechili 221 Km, Sceferzen (sul confine egiziano) 84 Km, Giarabub 215.

 

Il pozzo ha la tradizionale scaletta per scendere, ma è sicuramente asciutto.

 

Intorno al pozzo c’è il deserto duro e sassoso con i caratteristici ciuffi di erba, il tipico deserto cirenaico. Vincenzo ha visitato il posto anni indietro, con l’associazione del reggimento Giovani Fascisti che qui, dal 3 al 7 dicembre 1941, combatté la sua battaglia contro i blindati inglesi. Lui ricorda un altro luogo e non riconosce quello attuale.

 

Eppure, a pochi metri dal pozzo, ci sono i resti inequivocabili di buche e trincee. Ci sono resti di bossoli italiani, di bombe a mano, di munizionamento nostro. Daniele, scavando accanto ad una bomba a mano semicoperta dalla sabbia, ne scopre altre due, ancora con la vernice rossa, innescate e apparentemente intatte. Ma poi rovesciandole, l’altra metà è corrosa ed il tritolo fuoriuscito.

 

Intorno i resti della grande battaglia. Di certo il campo trincerato, come a Bir Hakeim, si estendeva su un’aria ampia. Non abbiamo con noi le piante delle postazioni e sicuramente Vincenzo avrà visto anche altre postazioni. Ma quello che percorriamo e vediamo è una’area difesa con tenacia.

 

Gli inglesi, nell’ambito dell’operazione Crusader, dovevano necessariamente occupare il crocevia di Bir el Gobi per aggirare le forze italo-tedesche e liberare Tobruk dall’assedio.

Il box era presidiato dai volontari inquadrati nel Reggimento Giovani Fascisti ed alcuni reparti di bersaglieri dell’8° reggimento. Gli inglesi, invece avevano schierato indiani del 2° battaglione Maharatta e del 1° battaglione Rajputana, scozzesi del 2° Cameron, carri dell’8° Royal Tank e artiglieria da campagna.

 

Lo scontro fu durissimo e si concluse il 7 dicembre con l’arrivo dell’Ariete e dei carri tedeschi della 21° Panzer che obbligarono gli inglesi alla ritirata.

 

Andrea raccoglie una manciata di sabbia per riportarla con sé. Su questa zona cadde l’aereo di Strurla. Per lui è un luogo di emozione, che corona la ricerca effettuata ed il libro scritto con passione e impegno.

 

Pranziamo qui: insalata di pomodori, tonno e cipolle. Alle 14.00 ripartiamo scendendo ancora verso Giarabub per altri 30 Km. Fino ad una vecchia casa cantoniera italiana situata a destra. Tagliamo a sinistra e ci inoltriamo su una pista, anche dalle indicazioni GPS e memorie della nostra guida conduca alla ridotta Maddalena sul confine libico-egiziano.

 

La pista presenta il solito fondo duro e terroso. Enrico per radio guida Riccardo sui pericoli del percorso. A tratti attraversiamo un terreno compatto ma non pietroso: sono i laghi prosciugati che con le piogge si trasformano in pantani pericolosi. L’acqua ristagna fino ad evaporare e resta questa sorta di mattonellato di terra dura. Il terreno è come impermeabile e non penetra niente. In uno di questi laghetti prosciugati c’è un numero fatto di pietre: 123. Forse una pista di atterraggio dato il fondo adatto all’atterraggio ed il decollo, forse un’indicazione da leggere, comunque, dall’alto.

 

Compaiono alcuni recinti di filo spinato, adiacenti la pista. Sono campi minati del conflitto libico-egiziano degli anni 70’. Sono campi ancora attivi e occorre fare attenzione. Ma la guida esperta conosce la zona perché è zona di caccia.

 

Dopo un’ora di strada arriviamo al Forte (o ridotta come le chiamavamo noi) Maddalena. Del forte restano i muri scaricati chissà quando. Si intravedono ancora le torri circolari poste ai quattro spigoli del perimetro.

 

Intorno molte latte di benzina arrugginite, molto filo spinato, avanzi di bossoli da 12 mm. Troviamo un teschio di cammello che diverrà la mascotte della nostra jeep. C’è anche una casermetta di periodo bellico con graffiti di soldati libici alle pareti. Poco distante la casermetta una torre di avvistamento in metallo alta una quindicina di metri.

 

Davanti a noi, a circa venti metri corre il vecchio reticolato Graziani, fatto erigere nel 1931. E’ il reticolato che divide la Libia dall’Egitto dal mare fino a Giarabub ed aveva la funzione, allora, di bloccare le scorribande dei senussi che si opponevano alla presenza italiana e dei trafficanti di armi e dei contrabbandieri.

 

Oltre il filo spinato si estende la “terra di nessuno” forse per un paio di chilometri. Intravediamo, infatti, dalla parte egiziana un movimento di macchine, sicuramente incuriositi e forse preoccupati della nostra presenza. Anche “loro” hanno le torri di avvistamento e le casermette di alloggiamenti ai piedi.

 

Al forte Maddalena non ci sono presenze libiche, e nessuna traccia di presenze recenti. Solo la casermetta con i graffiti abbandonata da anni e la torre di avvistamento arrugginita. Solo un luogo di caccia per i libici ed un posto pieno di insidie e per niente turistico.

 

Per noi un nome legato alla nostra presenza in Libia, al reticolato Graziani, alla guerra cirenaica contro gli inglesi.

 

Faremo campo qui e domani ripartiremo verso il mare, verso ridotta Capuzzo risalendo per la pista che costeggia il reticolato Graziani.

 

Montiamo le tende mentre Enrico organizza la cena che avviene alle 18.30 già con il buio: pennette al pomodoro e parmigiano. Il secondo lo preparano le guide libiche che questa sera dormiranno con noi: pecora stufata. Oggi, infatti, è il giorno di festa e la pecora è d’obbligo. Attendiamo il secondo fino alle 20.00, che sarà molto buono.

 

Ma il deserto stanca ed alle 21.30 sono in tenda pronto per addormentarmi.

 

 

 

Mercoledì 17 novembre 2010.

 

Mi sveglio alle 5.30 ed alle 6.00 metto la testa fuori la tenda. C’è la nebbia fitta che nasconde addirittura la casermetta e la torre di avvistamento. E’ uno scenario insolito per il deserto, come conferma poco dopo lo stesso Enrico, che racconta anche dei fuochi accesi dagli egiziani e della perlustrazione che hanno fatto nelle nostre vicinanze per capire chi fossimo. Ha sentito le voci vicine ed il via vai dei soldati con circa tre mezzi.

Poi esce il sole e la nebbia si dirada velocemente, sciogliendo anche l’immagine che evapora e scompare insieme alla bruma.

 

Anche le guide si svegliano e compiono le loro preghiere rivolti verso la Mecca, ovvero verso il sole che albeggia.

 

Colazione, smontaggio tende, fuoco per l’eliminazione dei rifiuti e partenza alle 9.00 sulla pista che risale verso il mare costeggiando il filo spinato di confine che diventa, nuovamente, dopo qualche chilometro il vecchio reticolato Graziani. Dalla parte egiziana notiamo nuovamente l’agitarsi delle vedette sempre attente al nostro comportamento che ha portato subbuglio e allarme.

 

Sappiamo di essere osservati a vista e proseguiamo adiacenti il vecchio reticolato per circa 3 km. Alla nostra sinistra, invece, notiamo i campi minati recenti delimitati da filo spinato moderno.

 

Poi la pista entra nella terra di nessuno attraverso un varco libero. Ci fermiamo interdetti. Secondo Junnis, che si inoltra nella terra di nessuno non ci sono rischi e la pista dovrebbe riprendere più a nord al di qua del filo spinato. Ma la pista sembra andare verso la parte egiziana e non convince Enrico che con energia e decisione ordina il dietro fronte. Ritorneremo per la strada fatta all’andata. Niente azzardi.

Decisione giusta.

 

Lasciamo così tranquilli gli egiziani in subbuglio e ritorniamo a forte Maddalena e lasciamo il confine alle nostre spalle. Ripercorriamo i laghetti essiccati, la pista dura e sassosa (dove Hassan buca una ruota che è sostituita in tempo da pit-stop di formula 1), e decidiamo di non arrivare a Capuzzo e Villaggio Berta, confortati dalle informazioni di Vincenzo che vi è stato nel viaggio precedente e non ha trovato nulla.

 

Puntiamo, quindi su Tobruk. Ripercorriamo la strada asfaltata risalendo verso Al Adem.

 

Ci fermiamo al cimitero francese che raccoglie 300 salme di caduti a Bir Hakeim e Cufra.

 

Una piccola cappella raccoglie alle pareti dei pannelli che raccontano i fatti avvenuti in quel maggio 1942: le forze contrapposte, la composizione delle FFL, le vicende africane del Generale Koening. Ci sono anche una serie di piante sulla disposizione del campo trincerato. Le mammelle con i pozzi erano situate proprio sul perimetro del caposaldo. Quindi eravamo sull’area dove si è necessariamente combattuto aspramente.

 

Il cimitero, invece è semplice. Il monumento, una stele piramidale è posto al centro ed è scritto in inglese e francese.

Due cannoni da 75 ricordano che la battaglio fu dura e condotta contro forze corazzate. Ad una manca la culatta. Forse è proprio quella rimasta sul campo.

 

Tra i caduti anche molti nomi arabi.

 

Pranziamo a ridosso del muro di cinta del cimitero: prosciutto e pomodoro.

 

Alle 14.00 riprendiamo la strada per Tobruk. A 4 Km dalla città c’è il cimitero inglese che raccoglie le salme di 2.282 caduti inglesi, neozelandesi, australiani, sudafricani e indiani. Di questi 171 sono di soldati sconosciuti. Le date dei caduti sono del 1942, maggio e giugno. L’età è invece la stessa: poco più che ventenni e qualche trentenne. Ci sono i due monumenti che ricordano i caduti delle due brigate polacche e di quella cecoslovacca di cui sono custodite altre 170 salme.

 

In un riquadro che sembra aggiunto al perimetro sono sepolti i caduti con nomi arabi e la lapide ha la mezzaluna scolpita. Sono rivolte verso est, verso la Mecca (e di conseguenza anche i corpi). Forse sono della Legione Araba o Indiani mussulmani.

 

Poco più a nord di un paio di chilometri, visibile dal cimitero inglese, c’è il sacrario tedesco dalla classica forma a castello normanno: un fortilizio con quattro torri ai vertici dei lati. Così nemici in vita così vicini in morte.

 

Riprendiamo la strada asfaltata principale e dopo 2 Km, appunto, si gira a destra in direzione del mare per una laterale polverosa che costeggia una raffineria di petrolio. Il sacrario tedesco ricorda quello di El Alamein, più squadrato però, con un piccolo ingresso per accedere all’interno. E’ realizzato con in pietra giallo ocra scura.

 

Entrando attraverso la minuscola porta in ferro si procede attraverso angusti corridoi che conducono al cortile interno dove sono poste ai quattro lati all’interno di grandi archi le grandi lapidi in pietra nera con scritte i nomi dei caduti. Qui sono sepolti 6.026 caduti delle battaglie libiche. Al centro del cortile il monumento a forma di urna circondato da una vasca dove al posto dell’acqua è stato collocato un ciottolato.

 

Attraverso una piccola scala circolare, dalla torre est si raggiunge la copertura. Da qui si domina la rada di Tobruk che è rimasta immutata dai tragici anni di guerra.

 

Oltre a noi c’è una coppia di tedeschi. Padre e figlio che percorrono il sacrario con rispetto e devozione.  Il figlio fotografa il padre sul tetto a testimonianza della loro presenza. Uscendo appongo la mia firma al libro degli ospiti e noto che nel sacrario non c’è elettricità. Nessuna luce interna e tanto meno esterna. I caduti non ne hanno bisogno e i visitatori sono rari e ne fanno a meno.

 

Riprendiamo la strada per avvicinarci alla “casa gialla” situata sulla collinetta che costeggia il lato sud del porto. Accanto a questa casa si schiantò l’aereo di Balbo il 28 giugno 1940, colpito da fuoco “amico”, forse delle batterie antiaeree dell’incrociatore San Giorgio, forse dalle batterie terrestri situate sulle colline circostanti.

 

Dovrebbe esserci anche il monumento a ricordo del luogo e dell’evento.

 

La zona è un’area in costruzione di un quartiere di villette e piccoli condomini. Qualcuna è finita ed abitata ma circondata, comunque, dallo squallore Non ci sono riferimenti e non ci sono persone a cui chiedere. Dalla finestra del 1° piano di una villetta pretenziosa, un bambino ci osserva timoroso.

 

Poi vediamo dei giovani e chiediamo del monumento italiano. Sanno il posto e ci portano ad uno slargo poco distante, che forse un giorno sarà una piazza.

 

Al centro, un residuo di basamento grande quanto un tombino di 1,50x1,50 incorniciato con tavole di legno incassate nel terreno e resti di bulloni. Il monumento era qui ma ora non c’è più. Restiamo sconcertati e delusi di queste rimozioni totali della nostra memoria, bella o brutta che sia stata. Daniele addirittura indignato

 

Nei primi anni successivi alla guerra, una croce ricordava i componenti dell’SM 79 morti nel rogo dell’aereo caduto in fiamme. Occorre rileggere il libro di Quilici, il figlio di Nello, perito nel rogo, sulla storia di quel giugno 1940. Non mi sembra ch descriva il monumento quando è venuto qualche anno fa a Tobruk per raccogliere gli elementi necessari.

 

Andrea ci ricorda che nella ricerca su Sturla parlò con un ufficiale dell’aeronautica che proprio quel giorno aveva un aereo a Tobruk e attendeva sulla strada un mezzo per ritornare a Derna. Mentre attendeva il passaggio vide chiaramente l’aereo di Italo Balbo precipitare vicino a lui sulla lato nord della collina su cui passava la strada.

Ancora una conferma di come la storia orale integra e completa i documenti ufficiali.

 

Sulla piazza, mentre meditiamo davanti a ciò che resta del monumento funebre, siamo circondati dai ragazzi del quartiere. Si fanno fotografare con noi ed uno ha pure un falco con il classico cappuccio e legato al braccio con il cordino di sicurezza. Claudio prova l’ebbrezza di tenere il falco incappucciato sul suo braccio.

Sono cordiali e aperti. Uno ha la maglietta dell’Inter. Alla televisione seguono il nostro calcio e conoscono Totti.

 

Ma è ora di proseguire e raggiungere l’albergo. Il tragitto è breve raggiungiamo il punto più basso della rada dove l’acqua ristagna emanando miasmi maleodoranti. Poi risaliamo il promontorio dove si adagia la città vecchia. Sopravvivono alcuni edifici italiani anche se rimaneggiati dal gusto libico.

Immondizia ovunque. Una città trascurata e desolante. Eppure ha 150.000 abitanti.

 

Nella vecchia guida rossa del 1929 gli abitanti erano “…1.660 c. (300 italiani, c, 120 israeliti; il resto mussulmani; 7.704 in tutta la regione…”). Ora sono tutti libici.

 

Andiamo al nostro albergo che è il Jaghboub Hotel. Una piccola hall con un grande divano ed un televisore sempre acceso.

 

La mia stanza è la 26. Ho un grande letto matrimoniale, senza lenzuola ed il solito bagno con boiler, doccia aperta, wc con manichetta e spazzolone convoglia acqua. La dotazione in più è data da un paio di pantofole davanti il bagno. Forse per usarle nel bagno allagato, forse per la stanza uscendo con i piedi bagnati. Io ho le mie infradito e quelle userò.

 

Non manca il televisore con l’immancabile parabola ed il suo decoder.

 

Una porta finestra da su un piccolo balcone dal quale vedo uno scorcio di Tobruk con la grande rotatoria adiacente la caserma di polizia.

 

Hassan è a far vistare lì i nostri passaporti.

 

La doccia è immediata e ristoratrice dopo i due giorni di campo.

 

Usciamo per un giro cittadino. Subito a sinistra dell’albergo, a 100 metri c’è la vecchia chiesa francescana di Tobruk. Dopo la riconquista italiana era ancora diroccata ma il cappellano tenne messa. Ugualmente.

 

La chiesa è malandata, ancora con i fori di proiettili dell’epoca, anche se il tetto è stato rifatto. Sul sagrato due inutili cannoni, trascurati e collocati senza criterio. All’interno dovrebbe esserci il museo ma la chiesa è chiusa e nulla lascia ipotizzare che qualcuno conservi la chiave.

 

Davanti la chiesa c’è la grande piazza. Ma in realtà è una spianata sommersa da rifiuti di vario genere. In fondo allo spiazzo, solitario e inutile un cassonetto, tragicamente vuoto. Giriamo verso sinistra e passiamo davanti al mercato coperto. L’architettura è chiaramente italiana della fine degli anni 30’. E’ ancora aperto, come costume dei libici che si animano con il calare del sole. Dentro macellerie, frutta e verdure, alimentari.

 

La strada prosegue con negozi che vendono solo telefonini ed articoli connessi: caricabatterie, fodere, batterie di ricambio, ecc. Auricolari, invece, no. Qui non si usano.

 

Mauro cerca una memoria di ricambio per la sua macchina fotografica. Indicano più avanti a sinistra, che poi sarebbe sotto l’albergo.

 

Rientriamo in albergo per sapere se è arrivato il ragazzo che parla inglese. Dobbiamo chiedere del cimitero militare italiano dismesso nel 1970, subito dopo la presa del potere da parte di Gheddafi.

 

Daniele ha visto il muro di cinta disegnato da Caccia Dominioni ed ora restaurato con i contributi italiani. Il ragazzo che parla inglese è arrivato, ma è un signore abbastanza cresciuto. Lui sa dove si trovava il vecchio cimitero italiano e si offre di accompagnarci con la sua macchina. Siamo Daniele, Riccardo, Andrea, Claudio ed io. Il luogo non è lontano, e ci porta davanti un terreno spianato e polveroso tra le case abitate.  Sembra un parcheggio di corriere. Del muro nessuna traccia.

 

Ritorniamo in albergo delusi. La nostra guida gentile si ferma anche davanti casa sua, una casa a due piani in mezzo alla città, alla ricerca di un libro che secondo lui descriveva Tobruk all’epoca italiana. Ma il libro non lo trova.

 

All’albergo scopriamo che i ristoranti sono tutti chiusi. Sempre la guida gentile si offre di prepararci la cena, pasta al sugo e carne con insalata a 7,50 DL. Abbiamo risolto anche questo problema.

 

Nella hall, chiedendo delle difese di Tobruk ancora visibili esce un libro su El Alamein in svedese, forse un regalo di qualche turista, e una cartina delle difese di allora. Potrebbe essere questo il libro che cercava.

 

Con Daniele e Riccardo ci prendiamo un tè verde nel bar adiacente l’albergo. Stanno trasmettendo una partita in televisione e molti seguono l’incontro fumando il narghilè.

 

Il locale, grande, ha il tradizionale arredamento orientaleggiante e pacchiano. Fa sorridere l’ingenuità degli accostamenti vari e la pseudo fontana artificiale dietro il grande e scomodo bancone.

 

Rientriamo in albergo in attesa della cena. La partita trasmessa altro non è che l’amichevole Brasile-Argentina giocata a Riad, in Arabia Saudita. Nella hall moti la seguono e tra questi un argentino. Entra anche una giovane ragazza, anch’essa argentina e si danno appuntamento a dopo. Lei sta con un ragazzo che sembra libico. Cosa ci fanno due argentini a Tobruk? Sarei curioso di saperlo ma pur parlando porteňo non riesco ad intavolare una conversazione con il “criollo”.

 

Sul finire della partita che procede dall’inizio sullo 0 a 0, Messi segna e tutti esultiamo. L’Argentina vince nei tempi supplementari.

 

Ma la cena è pronta ed il mistero dell’argentino in terra libica resterà tale.

 

La pasta è buona, anche la carne, rigorosamente di agnello. L’insalata è tagliata minuscola all’uso arabo.

 

La serata finisce fuori, sulle jeep parcheggiate davanti l’albergo, a bere grappa per i patiti del forte e programmare la giornata di domani.

 

Alle 10.00 vado a letto. La televisione è sul solito canale di film di azione americani con sottotitoli in arabo. Ho tirato fuori il sacco a pelo che distendo sul letto e così mi addormento mentre continuano ad arrivare al mio telefono sms per Andrea.

 

 

 

Giovedì 18 novembre 2010.

 

Sveglia alle 6.30 data da Vincenzo al quale avevo chiesto la cortesia di bussarmi alla porta. Avrei dormito ancora. Doccia, barba e colazione alle 7.00.

 

Alle 8.00 salutiamo Andrea che ci lascia perché, come già programmato, deve rientrare in Italia. Con una macchina raggiungerà Bengasi da dove in aereo, alle 17.30, raggiungerà Tripoli. Domani mattina il suo volo Alitalia partirà presto per Roma dove troverà la coincidenza per Malpensa.

 

Dopo che è partito arriva un ulteriore sms. Rispondo io comunicando che non è più raggiungibile. Mi risponde a sua volta la moglie ringraziandomi per la disponibilità dei giorni passati nel fornire il mio telefono ad Andrea e consentirgli di comunicare con lei.

 

Noi carichiamo le jeep con i nostri bagagli e andiamo a cercare il bunker di Rommel. Nella guida di Andrea si descriveva il bunker e annesso museo a circa 600 metri dal promontorio occidentale del porto.

 

Ci dirigiamo versa la punta e chiediamo in giro. Dopo alcuni tentativi ricapitiamo davanti il parcheggio-ex cimitero italiano. Proprio davanti c’è la palazzina con il vecchio faro di Tobruk. Ancora adesso è dipinta bianca e nera a scacchiera.

Alle pendici c’è un deposito di rottami dove l’addetto mi dice di seguirlo. Mi porta a vedere ciò che rimane delle vecchie difese costiere italiane: due piattaforme di cannoni antiaerei, un bunker trasformato in discarica, una grande buca dove il bunker esistente è stato fatto saltare e mostra ancora i ferri del calcestruzzo.

 

Ma lui conosce anche il posto del bunker di Rommel e ci accompagna, salendo in macchina con noi.

 

Poco più avanti, c’è una palazzina bassa al centro di un piazzale lastricato e recintato. Il bunker è lì. Depositato sul piazzale anche i resti del Liberator B 24, Lady Be Good, precipitato nel grande mare di sabbia il 4 aprile 1943 dopo una sfortunata missione per bombardare Napoli. L’equipaggio morì lanciandosi con il paracadute nel deserto ed i resti dell’aereo sono stati portati qui a Tobruk dopo che fu scoperto il relitto nel 1958.

L’aereo è tutto sommato ancora in buone condizioni con il suo cock-pit, la sua carlinga, le grandi ali, i piani di coda e tre dei quattro motori. In qualunque museo europeo o nordamericano sarebbe stato ricomposto a testimonianza della sventurata vicenda che porto alla morte di tutto l’equipaggio di 9 uomini.

 

Qui è invece buttato a un lato, come un relitto di frigorifero. Lo osserviamo a lungo, ci fotografiamo davanti i suoi resti, lo cannibalizziamo quel poco che ci consente di portarci un ricordo tangibile di lui: io un piccolo tratto di tubo di combustibile penzolante da uno dei motori residui. Un piccolo ed innocente furto stante l’incuranza della sua conservazione da parte dei custodi del luogo.

 

Il resto del “museo” offre, buttati alla meno peggio, un avanzo di batteria costiera italiana, un cannone anticarro tedesco, un trattore camuffato da tank per depistare la ricognizione aerea nemica. Il bunker di Rommel, ovviamente, è chiuso e la chiave non si trova. Visto l’esterno possiamo immaginare come sia tenuto l’interno!

 

Lasciamo il museo e riaccompagniamo la nostra “guida” alla sua discarica di robivecchi e arrugginite. Faccio fatica a fargli accettare 20 DL. I libici sono gentili e non ho dubbi a credere che siano a disposizione in maniera disinteressata.

 

Resterebbe il famoso cimitero italiano ed il suo muro ma all’ultimo momento Daniele ricorda che è a Tripoli e non a Tobruk. Meglio così, abbiamo ancora la chance di vederlo.

 

Usciamo da Tobruk in direzione del confine egiziano. A 18 Km dal centro dovrebbero esserci i resti delle fortificazioni che vogliamo vedere. Ripassiamo per la strada del cimitero inglese e del sacrario tedesco. A 18 Km, accanto alla strada asfaltata, troviamo, effettivamente, i resti di alcune postazioni fortificate. Sono in pannelli di cemento con i ganci per trasportarli il che ci danno sospetti sull’effettiva datazione dei manufatti anche se malandati e trasformati in letamai.

 

Poco più avanti, però troviamo delle fortificazioni e camminamenti costruiti dal genio italiano nel 1938, come dice chiaramente la scritta sull’ingresso. All’interno delle fortificazioni qualche soffitto è crollato, rendendo difficile impossibile la loro percorribilità. Scopriamo anche i resti del famoso fosso anticarro, reso mansueto dai detriti e dai segni del tempo: sabbia, pietre, vegetazione secca.

 

Le difese si interrompono subito perché la nuova strada asfaltata ha distrutto ogni cosa. Forse proseguono più avanti, oltre l’asfalto, ma non riusciamo a individuarle e poi ci sono i reticolati che ne impediscono l’accesso.

 

Ci riteniamo paghi di quanto abbiamo visto. Sono quasi le 12.00 e non facciamo più in tempo a vedere a Fig Tree i resti del vecchio ospedale australiano perché è nei pressi del cimitero di Acroma- Knights Bridge, dall’altra parte della città.

Decidiamo di iniziare la discesa verso Giarabub (Hatiyat al Jaghbub).

 

Facciamo benzina (riempiendo anche le taniche da 25 litri) al solito benzinaio al bivio di Al Adam. Ad un angolo del distributore pranziamo anche: panini con formaggio e salame, sotto le evoluzioni a bassa quota di un mig 21 della adiacente base aeronautica.

 

Scendiamo veloci, a 120 Km/ora, sulla strada asfaltata già percorsa avanti ieri per raggiungere Bir el Gobi e Maddalena. Ora sulla jeep rossa siamo Riccardo che guida, Mauro ed io. La composizione degli equipaggi si è stabilizzata: Sulla jeep nera di Enrico viaggiano, oltre a lui, Vincenzo, Claudio e Sandro. Daniele, invece è con Hassan e Alì.

 

Superiamo nuovamente il pozzo di Bir el Gobi. Il deserto che percorriamo è il tipico deserto cirenaico: piatto e pietroso, duro e difficile da scavare con i tipici ciuffi di erba. E’ il deserto che ci accompagna da molti giorni, appena lasciate le colline rosse del Gabel el Achdar.

 

Tramite le radio Enrico ci tiene informati sulla nostra posizione e di quanti chilometri manchino a Giarabub. Il GPS da posizione e distanza, come un Tomtom. Ritroviamo il reticolato Graziani, perché la strada asfaltata si avvicina verso necessariamente verso il confine. L’oasi di Giarabub, infatti, è adiacente l’Egitto.

 

Compaiano anche piccole dune sabbiose che a tratti sembrano coprire il reticolato. Poi si ripresenta come intatto e prosegue la sua discesa verso sud.

 

Enrico, però, ci informa per radio che il confine egiziano è a 10 Km verso est.

Ogni tanto, ai bordi della strada asfaltata compaiono strani segnali: piramidi di pietre, copertoni infilzati su pali, taniche con ferri intrecciati, ecc. Indicano ingressi a piste che conducono chissà dove e comunque a piste note solo ai pastori del luogo.

 

Giarabub è annunciata ogni 5 Km da cartelli verdi che indicano il chilometraggio restante. Vi arriviamo alle 15.30. Il vecchio forte appare subito di fronte riconoscibile per la doppia torre allo spigolo nord.

 

Sul lato ovest c’è la porta di accesso, spalancata in quanto il forte è abbandonato. Lasciato a sé stesso da molto tempo ha una parte di muro esterno crollata.

L’interno rispecchia anch’esso l’abbandono del luogo: la palazzina comando ha addirittura il bagno con una grande vasca ma il resto dei sanitari asportati.

 

I locali della truppa, fatti di piccole stanze con bagni in comune sono affrescati con disegni pudici e tutto sommato innocenti. Ritagli di riviste sono incollate ai muri, ma nessuna donna nuda o seminuda compare alle pareti. Una stanza è tappezzata da fumetti italiani “Lancio Story”. Come ci siano arrivati è un mistero.

 

Vincenzo lo aveva visitato nel precedente viaggio e già allora era abbandonato. Ora è ancora più decadente.

 

Scovo una scaletta che conduce in copertura ma non mi azzardo a verificare la stabilità del solaio.

Dal forte si domina l’oasi: palme e le tipiche case ad un piano dall’aria incompiuta. 

 

Mentre noi visitiamo il forte Enrico e Riccardo cercano benzinaio e fornaio per comprare pane. Ma mentre la benzina la trovano il fornaio è chiuso. Il pane ce lo regaleranno alcune famiglie libiche a cui si era rivolto Enrico per informazioni sul panettiere. Non hanno voluto soldi manifestando sempre disponibilità e cortesia disinteressata. Abbiamo recuperato 25 baghette. Per il grande mare di sabbia le faremo bastare.

 

Alle 16.30 lasciamo Giarabub e dirigiamo a sud. La strada asfaltata è finita. Davanti a noi solo fuori pista nel grande deserto di sabbia fino a Cufra (Wāhāt al Kufrah). Oltre 900 Km di fuori pista.

 

La jeep di Hassan fa da apripista e corre veloce verso le dune che compaiono all’orizzonte. Stiamo lasciando il deserto piatto e sassoso con i ciuffi d’erba per entrare in quello sabbioso e cedevole delle grandi dune.

 

L’oasi prosegue con la vegetazione che si dirada progressivamente.

Tra poco farà buio e dobbiamo allestire il campo.

 

Perdiamo di vista Hassan e la radio è irraggiungibile. Poi per fortuna torniamo a connetterci. Stanno verso un gruppo di palme e ci aspettano. Per fare prima attraversiamo una sebka, un tratto di deserto con grandi residui di sale. Si procede cauti e lentamente. Enrico è davanti di cinquanta metri e sonda il terreno che sembra finire poco dopo. Ma è un acquitrino melmoso di sale e fango. Le ruote anteriori affondano inesorabilmente.

 

Si sgonfiano le ruote per garantire maggiore superficie di presa, ma è inutile. La jeep sprofonda sempre più. Ci raggiunge Hassan avvisato per radio del problema. Scarichiamo tutta la jeep e cerchiamo di trainarla con un cavo ma senza successo. Oramai è calato il buio.

 

Enrico ordina di predisporre il campo appena fuori la sebka. Domani mattina si cercherà un mezzo a Giarabub che è a pochi chilometri per tirare fuori la jeep dal fango salino.

 

A braccia e con le altre jeep portiamo indietro il carico della jeep di Enrico e montiamo il campo con le torce e ceniamo con pasta al sugo e formaggio. A letto presto, mentre in lontananza vediamo fari di macchine in direzione Giarabub ed Enrico dice che sono contrabbandieri di prodotti alimentari che in Egitto costano meno. Faccio fatica a immaginare come possano costare meno ma sta di fatto che Hassan consuma marmellate egiziane.

 

In tenda sono mangiato dalle zanzare libiche che stazionano nell’acquitrino. Si sente un ronzio continuo di stormi affamati. Ci stanno confondendo con cammelli. Forse lo siamo anche.

 

Riesco ad addormentarmi. La fatica della giornata e le emozioni vissute hanno il sopravvento sul terreno sassoso sottostante il sacco a pelo, le zanzare fameliche, il pensiero per l’imprevisto contrattempo alla jeep.

 

 

 

Venerdì 19 novembre 2010.

 

Mi sveglio alle 5.30 e metto il naso fuori la tenda. Sento Enrico che parte in jeep con Hassan verso Giarabub.

 

Daniele è già sveglio ed alzato. C’è anche del caffè caldo, pane e marmellata.

 

Insieme andiamo a vedere lo stato della jeep, infossata nella sebka salata. E’ sprofondata di altri 20 cm ed ora il fango ricopre anche il predellino.

 

Si alzano anche gli altri e prepariamo altro caffè. Si fanno supposizioni: ”arriveranno non prima delle nove”, “arriveranno con un trattore cingolato”, “non la tireremo fuori prima di mezzogiorno, se va bene”, e via così. Non siamo molto ottimisti soprattutto dopo aver visto la jeep che sprofonda sempre più con il timore di vederla inghiottire completamente.

 

Nella notte siamo stati tutti mangiati dalle zanzare e ne portiamo i segni.

 

Ma alle 8.00 vediamo nuvole di sabbia che muovono veloci verso di noi: sono due sagome veloci ed una è la jeep di Hassan seguita da un pick-up (sempre Toyota).

 

E’ ciò che hanno trovato, oltre al pane fresco. Si fa un treno con il pick-up e con la jeep di Hassan e tutte le nostre braccia ad ondeggiare la jeep incagliata.

Al primo tentativo esce fuori dal fango come un coltello dal burro. Urla di rabbia, di gioia, di resurrezione. Ridiamo tutti mentre Enrico controlla lo stato della jeep: gomme, sospensioni, pianale. Tutto bene.

 

Il pick-up con i due libici va via tra facce allegre e grandi saluti. Non hanno voluto niente neanche questa volta. Per loro è un piacere rendersi utili. In Tunisia avrebbero voluto almeno 700,00 €. Qui è il nostro sorriso ed i nostri “shucram”, grazie in arabo, che li ripaga. Conferma, anche, che tutti i popoli sono sempre meglio dei loro governi (o che la politica esprime il peggio dei popoli che pretende di rappresentare).

 

Smontiamo il campo velocemente. Scaramanticamente non lo avevamo fatto nell’attesa. Alle 9.00 partiamo in direzione sud.

Di fatto il contrattempo non ci ha fatto perdere neanche un minuto. Tranne lo stress e la fatica di Enrico, ovviamente. Ma lui non lo dimostra ed il suo pragmatismo e concretezza è una garanzia per tutti noi.

 

Torniamo indietro lasciando la sebka e le sue insidie. Attraversiamo il palmeto che vedevamo dall’altra sponda del lago salato e ci addentriamo attraverso piccole dune intercalate da terreno duro e sassoso sul percorso che Enrico conosce bene. Le palme sono sostituite gradualmente dai ciuffi di erba e poi da arbusti semisecchi per diradarsi fino a scomparire. L’oasi e le sue propaggini  è decisamente alle nostre spalle.

 

La nostra meta intermedia è il “Gobbo maledetto”, appartenente alla 278° squadriglia, dichiarato disperso, per il mancato rientro a Bengasi, il 20 aprile 1941 dopo una missione su Creta. Una tempesta di sabbia lo aveva sviato verso sud dalla sua rotta di rientro e finita la benzina aveva tentato una’atterraggio di fortuna. L’equipaggio era sopravvissuto (tranne il pilota morto nell’impatto a terra) ma solo il sergente  maggiore Giovanni Romanini era in condizioni fisiche tali da iniziare la marcia di 90 Km verso nord nel tentativo di raggiungere la pista Gialo-Giarabub.  Nel 1960 fu trovato il suo cadavere semi mummificato nel 1960, da tecnici dell’ENI che svolgevano ricerche petrolifere nella zona. L’aereo fu ritrovato anch’esso poco dopo con gli altri 3 membri dell’equipaggio probabilmente rimasti lì perché feriti. Del quinto componente, invece non fu ritrovato il corpo. Si suppone che si fosse incamminato con Romanini ma morì durante il tragitto come lascia supporre i due orologi trovati al polso del sergente maggiore.

 

Ora è meta di percorsi desertici e punto di riferimento in questo paesaggio apparentemente uniforme e senza steli, ceppi indicatori, segnali tangibili.

La posizione è N 28, 49, 159 E 23, 21, 866. Si cammina veloci perché siamo sul “serir” il fondo duro e pietroso. Gradualmente entriamo nella zona delle dune. Percorriamo possibilmente i “gassi” i pianori tra le dune di media altezza (“barcane”). Ci fermiamo per sgonfiare le gomme mentre i fumatori si concedono le gioie delle sigarette. Da 2,5 a 1,2 così da evitare gli insabbiamenti nella sabbia molle o peggio nel “fech-fech” (sabbia a cipria, pericolosissima per le jeep).

 

Claudio, questa mattina, ha un cappello Herman Meyer con protezione posteriore abbottonata. E’ il tipico berretto tedesco con visiera rigida. Continuo ad invidiare la sua eleganza e l’accostamento dei capi con il deserto che percorriamo.

 

Il sole è potente e disturba gli occhi. Devo mettere gli occhiali protettivi sopra.

 

Lo Sparviero SM 79 era a 89 Km quando abbiamo lasciato il campo alle 9.00. Ci muoviamo ad una media di 30 Km l’ora e arriviamo sul posto alle 11.30.

 

Scopriamo, però, che non essere soli. Una carovana di quattro jeep di italiani ci ha preceduto.

 

Stanno preparando il pranzo e ci scambiamo i saluti e informazioni mentre ci apprestiamo anche noi a fare la sosta panino. Provengono da Cufra, raggiunta in aereo. I loro interessi sono le grotte rupestri e gli aspetti paesaggistici del deserto e stanno dirigendosi a Giarabub.

Gli appassionati di relitti militari sono solo due: tal Daniele Mancini e Riccardo Bellino, avvocato milanese il primo, professore torinese il secondo. Hanno imposto la deviazione per vedere l’SM 79 contro il volere degli altri.

 

Mancini e Bellino seguono affascinati il percorso del nostro viaggio: il box di Bir Hakeim, Tobruk ed il suo fosso anticarro, Bir El Gobi e le bombe a mano trovate. Racconto anche del viaggio di ottobre ad El Alamein e del percorso del fronte sud. Con Daniele scambiano impressioni e valutazioni. Conoscono il sito su internet.

 

Ciò che rimane dello Sparviero è veramente poco. Il relitto si legge appena, spogliato di tutto ciò che era sopravvissuto quando fu trovato. E’ comunque una meta doverosa ed un omaggio obbligato alla sfortuna. Fotografiamo ciò che è possibile. C’è anche una targa in inglese ed arabo con scritto che il relitto è proprietà del governo libico e non sono ammesse manomissioni o asportazioni di parti di esso.

 

Pranziamo anche noi con panini, pomodoro, salame e formaggio e frutta.

 

Ripartiamo alle 13.15 lasciando la comitiva lombardo-piemontese al loro pranzo che si fredda, salutati calorosamente dai due e con indifferenza dagli altri.

 

Direzione sud, proseguendo tra le grandi dune e scegliendo i gassi più idonei per evitare inutili rischi di insabbiamento. Enrico sostiene ed incoraggia Riccardo continuamente, chiedendo temperatura dell’acqua, giri motore, consumo nafta, suggerendogli percorsi e avvertendolo di terreni rischiosi o buche pericolose che troveremo.

 

Lasciamo le dune alle nostre spalle en entriamo nel lago paleo logico che mostra i resti di un fondale lacustre. Ai lati del lago si notano i grandi uadi emissari che lo rifornivano dell’acqua necessaria.

La nostra prossima meta è il luogo di impatto del “Lady Be Good”, il B24 visto a Tobruk.

 

Alle 16.30 ci fermiamo a riparo di una collina per fare il campo. Il terreno è sabbioso ed ideale per dormirci sopra.

 

Montiamo le tende ed aiutiamo Enrico a installare “l’area cena”, mentre tramonta il sole. Non si può fare a meno ad ammirare la gradazione dei colori che accompagna l’evento ingigantito dalla sabbia delle dune e la rifrazione delle pietre dei gassi.

 

Enrico, questa sera, prepara risotto alla milanese. Nell’attesa sgranocchiamo noccioline mentre la conversazione tocca i punti salienti della giornata e poi scivola su divise e copricapi militari. Claudio, che è un grande collezionista avendo oltre 150 divise ci racconta delle sue peripezie giovanili per entrare in possesso della sua prima, una tedesca.

 

Il buio arriva presto. Alle 19 è già notte. Ai colori del tramonto si sostituisce il buio assoluto ed il cielo traforato dalle stelle che fino allo spuntare della luna, che avverrà verso le 22.00, saranno le padrone assolute del deserto.

 

Alle 21.00 siamo pronti per la tenda come se fosse mezzanotte. Ho qualche brivido. Forse troppo sole senza rendermene conto.

 

 

 

Sabato 20 novembre 2010.

 

Sveglia alle 5.30. Daniele è già in piedi e giura che nel prossimo viaggio porterà la tromba. Ma non gli chiedo se la sa suonare.

 

Deve ancora albeggiare e la luna e Giove illuminano il deserto ancora freddo ed umido. Poi gradualmente il sole appare preannunciato dallo schiarire del cielo e la temperatura risale velocemente. Ma fino alle 9.00 si dovrà stare con felpe e giacconi.

 

Il campo si anima progressivamente mentre il boiler del tè e la grande macchina del caffè entrano in funzione.

 

Si parte presto, alle 8.00. con meta il B24 Liberator, dopo aver riempito il serbatoio con la nafta delle taniche.

 

Oggi Claudio sfoggia una magnifica camicia mimetica australiana con collo a giacca.

 

La pista percorre una zona di serir e dopo 80 Km siamo al “Lady be Good”. I resti sono effettivamente pochi con una piccola statua in ferro che riproduce un aereo in picchiata ed una bandierina triangolare. Fotografie e sigarette per i fumatori.

 

Riprendiamo la strada per Cufra con meta intermedia il Bristol Blenheim. Dopo 15 Km compaiono le prime colline a pinnacoli. Il grande deserto di sabbia cambia in continuazione concedendo emozioni che si rinnovano con i vari scenari che compongono il grande mosaico di quest’angolo del Sahara.

 

Uno di questi pinnacoli è la “montagna nera” per il colore dovuto alla natura ferrosa che la compone.

 

Alle 11.00 siamo su ciò che resta dell’aereo inglese ma con le coccarde francesi e la matricola T1867. L’aereo cadde il 5 febbraio 1941 ed aveva tre membri dell’equipaggio morti nell’atterraggio forzato, dopo che si erano persi come molti altri ed avevano terminato il carburante.

 

Era partito da Ounianga Kebir, nel nord del Ciad, per andare a bombardare Cufra, allora ancora italiana. Fu ritrovato nel 1959 ed i corpi dell’equipaggio furono portati in Francia nell’anno successivo.

 

Su ciò che resta la targa in bilingue che raccomanda di lasciare tutto come è.

 

Poco distante i recinti in pietra dove erano sepolti i corpi degli aviatori francesi.

 

Proseguiamo verso sud. Per fermarci in mezzo ad un serir per pranzare con pomodori e formaggio. Sullo sfondo le colline coniche dai colori ferrosi.

 

Proseguiamo rientrando poco dopo in un tratto di deserto con dune e gassi.

Occorre fare attenzione al terreno che percorriamo ed Enrico mette in guardia Riccardo delle piccole onde di sabbia sul terreno, facili da vedere se si viaggia contro il sole perché si notano le ombre.

Sembrano cedevoli invece sono durissime e potrebbero far volare la jeep se presi in velocità come successe a lui una volta con un fuoristrada rinforzato. Viaggiava con il sole alle spalle e quando le notò era troppo tardi. Volò per otto metri e non successe niente, ma il pericolo è sempre in agguato e guidare nel deserto comporta molta esperienza e maestri capaci.

 

Con Riccardo si viaggia sicuri. Segue le indicazioni di Enrico e controlla la strada con grande capacità e giudizio.

 

Alle 16.30 ci fermiamo tra grandi dune per montare il campo.

 

Sistemiamo le tende a raggiera, ognuno a cercare la distanza giusta per non disturbare i compagni, specie chi russa.

Scaliamo le dune da cui si ammira la magia del tramonto rinnovando il caleidoscopio dei colori nel momento in cui scompare il sole.

Si gioca sulle dune, come al mare, ma molto più alte e grandi. La sabbia grossa affonda sotto le scarpe più facilmente di quella fina che si compatta.

 

Finalmente ho superato la mia stitichezza e ritrovo l’equilibrio fisico.

 

Si cena con minestra di fagioli, calda e appagante.

 

Vado a letto presto ma la notte è agitata tra il vento che sconquassa la tenda ad intervalli regolari ed un inizio di malessere che mi fa tremare per i brividi. Mi sembra di restare sveglio tutta la notte, ma so che non è così, perché la mattina mi rendo conto di aver dormito e sicuramente russato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Domenica 21 novembre 2010.

 

Mi sveglio, come al solito presto. Prendo oscillicoccinum e se bene ho superato i brividi sento che proseguono i disturbi intestinali.

 

Faccio colazione con moderazione. Poco caffè e frutta.

Alle 8.00 si parte dopo aver smontato il campo con sempre più maestria e velocità.

 

La direzione è Cufra con meta intermedia il relitto dell’IMAM Romeo 1, coperto proprio da Enrico nel 2007.

 

Vi arriviamo verso le 9.00 e del vecchio biplano italiano resta lo scheletro in metallo mentre le ali in legno e stoffa è scomparso da tempo. Accanto un bidone italiano delle truppe cirenaiche.

 

Proseguiamo verso sud, ora la nostra meta è Cufra. Stiamo uscendo dal grande mare di sabbia e cominciamo a vedere cumuli di tamerici, che anticipano l’oasi. Siamo in anticipo rispetto a quanto previsto. Verso le 10.00 prendiamo la strada asfaltata Cufra-Gialo che appare al nostro orizzonte segnata da una striscia verde di vegetazione che segna chiaramente l’inizio dell’oasi.

 

Cufra è a 10 Km e la raggiungiamo poco dopo. Facciamo benzina riempiendo nuovamente le taniche svuotate nell’attraversamento del grande deserto.

 

Andiamo dritti all’Hotel Sudan, il nostro albergo. Siamo in anticipo per il check-in ma alla fine ci assegnano le camere.

La mia è la 203, al secondo piano. Ci si arriva dopo un dedalo di corridoi. Come negli altri alberghi niente lenzuola, niente, asciugamano ma carta igienica sì. Meno male, nelle mie condizioni è proprio fondamentale.

 

Accendo il boiler e faccio subito barba e doccia, ristoratrice dopo tre quattro giorni di campi e deserto duro.

 

Dalla finestra si ammira il solito scorcio desolante di case non finite e precarie.

 

La stanza, spoglia ed elementare ha il solito televisore con parabola.

 

Pranziamo tutti quanti ad un ristorante sulla piazza adiacente: pollo alla brace, felafel con harissa, verdure fresche. Stiamo fuori accanto la brace che ci affumica e impregna doccia, shampoo, abiti e tutto ciò che portiamo addosso di fumo e di pollo. Spendiamo 10 DL a testa. Ne spenderemo molti di più per bonificare i vestiti.

 

Al pomeriggio, verso le 16.00, andiamo a vedere il “cannone” di Graziani che sembra sia conservato nel deserto a 20 Km da Cufra sulla strada asfaltata. Al posto di blocco chiediamo ai poliziotti che ci accompagnano con la loro macchina. E’ poco distante e quando arriviamo scopriamo che il cannone è un carro armato Light Tank M3 americano, chiamato Stuart dagli inglesi che lo ebbero in dotazione in Africa Settentrionale a partire dal novembre 1941.

 

I carristi lo chiamarono prima Honey, perché semplice e maneggevole e dopo, usandolo, “bara di fuoco”, perché alimentato a benzina e facilmente infiammabile, con un armamento inadeguato contro i carri italiani e tedeschi (un cannone da 37 mm).

 

Cosa ci stia a fare qui è un mistero, tra l’altro con un cingolo rotto, senza il suo motore stellare e l’allestimento interno.

 

Si avvicinano in macchina di libici che vivono nelle vicinanze incuriositi dalla nostra presenza. Ci sono anche dei bambini che approfittano per giocare con il carro armato.

 

In un inglese stentato uno di loro mi dice che il luogo è quello dell’eccidio dei 400 senussi di Cufra compiuta su ordine di Graziani il 19 gennaio 1931.

 

Accanto al carro armato, infatti, c’è un cartello che riporta la data con una scritta in arabo e poco distante dei cumuli di pietre che indicano le fosse comuni. Un luogo comunque trascurato in considerazione della tragicità dell’evento ed il suo stretto legame con la storia di questo popolo.

 

Rientriamo a Cufra cercando il vecchio forte italiano. Chiediamo in giro ma alla fine ci confermano che non c’è più, raso al suolo anni indietro.

 

Cufra è un’oasi di confine. Dal vicino Sudan arrivano merci, profughi, donne, mano d’opera. E’ un’area sotto stretto controllo di polizia.

 

Per la strada si vedono le donne che le mancano nel resto delle città arabe che abbiamo visto. Ma sono sudanesi e vengono a Cufra a vendere le spezie e prodotti vari sulle strade impolverate dell’oasi.

 

La visione è di un luogo al confine del mondo. Sabbia e polvere, case non finite, muri storti, marciapiedi sconnessi, un suk di prodotti elettronici e telefonini, abiti occidentali e scarpe.

Daniele cerca il pepe bianco in grani, ma non riesce a trovarlo. C’è però il pepe nero e pepe bianco macinato. Si trova anche l’harissa “Du cap Bon”, l’harissa tunisina.

 

Il malessere sta peggiorando, così vado in albergo ad infilarmi nel letto senza cenare. Daniele alle 20.00 mi da due tachipirine. Ho bisogno di bere molto per riequilibrare la disidratazione dovuta alla diarrea. Metto anche la sveglia col telefonino. Questa volta correttamente.

 

Mi addormento dentro il sacco a pelo con la televisione accesa.

 

 

 

Lunedì 22 novembre 2010.

 

Mi sveglio alle 6.00 dopo aver avuto una pre sveglia alle 5.20 dal muezzin del vicino minareto. Prendo un’altra dose di oscillococcinum per contrastare i brividi.

 

Doccia e barba. Scendo per la colazione alle 7.00. C’è già Hassan che fa colazione nella sala adiacente alla hall. Ad un lato il tradizionale lavandino in vista per lavarsi le mani prima e dopo.

 

Caffè con nescafè, pane, burro e marmellata.

 

Sono sempre disturbato, anche se mi sento meglio. Ho fatto bene a digiunare ieri sera.

Scendono anche gli altri e scopro che anche Mauro e Daniele hanno disturbi fisici.

 

Partiamo alle 8,00 dall’albergo passando per il mercato per la spesa di verdure e frutta.

 

Ci dirigiamo verso S-SE con meta il Gebel Sharif che dista circa 200 Km.

 

Lasciamo Cufra su una strada asfaltata disastrata dalle buche e circondata da campi recintati con cammelli parcheggiati in attesa di essere ceduti. Enrico spiega che dal Sudan portano cammelli giovani con i camion che a Cufra sono cresciuti e venduti successivamente.

Oltre i recinti ci sono grandi distese di campi con irrigazione industriale.

 

Dopo qualche chilometro abbandoniamo la strada disastrata ed entriamo nella pista desertica. Intorno carcasse di cammelli che non hanno superato la grande traversata e sono abbandonati lungo il tragitto.

 

Incrociamo molte orme di camion, pericolose anch’esse a prenderle trasversalmente con la jeep. Bisogna assecondarne per alcuni metri la direzione e poi uscirne per riprendere la propria direzione. Incrociamo anche molte orme di cammelli. Dunque la transumanza non è fatta solo con i camion.

 

Procediamo veloci su un fondo duro e sufficientemente piatto da consentire i 100 Km/ora. Due jeep della polizia materializzatesi nel bel mezzo del deserto ci fermano e controllano i documenti. Il bravo Hassan mostra i visti e spiega chi siamo e dove andiamo. Tra saluti e sorrisi ci fanno proseguire e scompaiono così come sono apparsi.

 

Il deserto è anche questo e riprendiamo veloci il percorso verso sud. Ma poco dopo siamo raggiunti, superati e bloccati nuovamente da un pick-up della polizia. Scende un poliziotto armato di kalashnikov. Chiedono la firma sul foglio del tragitto. Forse avevano dimenticato di chiederla e così hanno rimediato rincorrendoci a 130 all’ora. Questo continua ad essere il deserto.

 

Alle 11.00 arriviamo al Gebel Sharif: una vallata circondata da collinette nere dove nel gennaio 1941 una pattuglia del Long Range Desert Group (LRDG) i così detti scorpioni del deserto, che operavano dietro le linee italiane in scorribande epiche, fu attaccata da un reparto saharista italiano, comandato dal capitano Moreschini, e sconfitto con la distruzione di tre camion ed il resto della pattuglia dispersa verso il pozzo di Sarra. Il maggiore Patrick Andrew Clayton, il comandante della pattuglia fu fatto prigioniero e portato in Italia.

 

Nella piccola valle ci sono due relitti delle camionette Chevrolet del LRDG incolonnate una dietro l’altra mentre la terza è situata a circa 100 m all’ingresso della valle. La lamiera, arrugginita, ha conferito il colore marrone scuro che stacca dalla sabbia gialla del terreno. Si riconosce il marchio Chevrolet sulla calandra anteriore che protegge il radiatore.

Il luogo è molto raccolto e stupisce il fatto che gli inglesi, famosi per le sue astuzie, siano finiti in questo imbuto di colline nerastre e nella condizione di difendersi con difficoltà. Forse l’attacco italiano fu improvviso e inaspettato. Resta la sconfitta inglese e di Clayton, ancora oggi segnata da questi relitti protetti dalla solita targa bilingue che ammonisce i viandanti di danneggiamenti o asportazioni.

 

Continua il mio malessere intestinale e prendo due compresse di Imodium.

 

Accanto ai due relitti ci sono le tombe di un italiano e di un neozelandese.

 

Pranziamo sul posto ed io mi limito ad un pomodoro ed una mela. Riprendo a bere per compensare ancora la disidratazione.

 

Ripartiamo alle 13.00 appagati di questo luogo e prendiamo la strada verso nord. Siamo arrivati al nostro punto più meridionale del viaggio, quasi al tropico del cancro. Ora inizieremo a risalire verso Tripoli.

 

Attraversiamo una zona di sabbia cedevole in pieno fuoripista. Bisogna correre e tenere il motore su di giri per evitare di insabbiarsi. Commettiamo l’errore di fermare Riccardo per fotografare le dune e restiamo insabbiati. Enrico, avvertito per radio torna indietro ed impartisce la lezione dall’alto della sua esperienza: “…primo, su questa sabbia mai fermarsi in salita ma sempre e solo in discesa, secondo se ci si ferma, occorre tornare indietro fino a ritrovare la discesa, terzo, mai fermarsi…”. Riusciamo a ripartire seguendo le tre regolette basilari della guida sulle dune.

 

Proseguiamo in questo mare di dune separate da ampi gassi. Enrico, avvicinandosi alle dune le percorre parallelamente per individuare la duna più adatta da scavalcare. Trovata accelera e la scala fino a collocarsi sulla cresta e poi, lentamente, ridiscende con cautela ma con decisione. Riccardo, sull’esempio di Enrico esegue le stesse manovre e così si procede tra gassi e dune. 

 

Questo è l’Erg libico, il deserto che conduce fino a Murzuk, dove le dune sono alte e pericolose e non basse e docili come queste, dice Enrico. Ma a me sembrano alte e non sarei stato all’altezza di Riccardo, specie quando sulla cresta si scende a 70° scivolando sulla sabbia.

 

In questo scenario percorriamo circa 300 Km, divertendoci e spaventandoci. Ogni tanto ci fermiamo per far fumare una parte del gruppo e fotografare il panorama che ci circonda.

 

Alle 16.30 facciamo il campo tra le dune, protetti da queste. Ceniamo alle 18,30 riso e patate lesse per rispetto dei “malati”: Daniele, Mauro ed io. Ma Daniele resta in tenda a dormire.

 

Dopo cena Sandro ci mostra sul suo IPad le foto scattate a Duxford, in Inghilterra, dove ogni anno si tiene un raduno di aerei storici volanti. Duxford, vicino Londra, è una vecchia base area della RAF con un importante museo con vari aerei storici.

 

Ma le star sono gli aerei storici che si esibiscono in volteggi ed acrobazie e le foto sono belle e nitide.

 

Vado a dormire sempre disturbato e prendo un’altra compressa di Imodium. Nella notte mi sveglio più volte e quando metto fuori la testa vedo la nebbia.

 

 

 

Martedì 23 novembre 2010.

 

Mi sveglio verso le 6.00 e verso le 6.30 sento rumore di caffettiere e di bombole gas accese. Mi vesto ed esco.

Sto meglio, anche se continua il disturbo e la diarrea. Ho preso nuovamente oscilloccinum ed i tremori sono spariti.

 

Faccio colazione con poco caffè e una mela.

 

Smontiamo il campo e carichiamo le jeep dopo aver riempito il serbatoio della nostra jeep con la nafta delle taniche.

 

Ci muoviamo alle 8.00 e ritroviamo il terreno di ieri: gassi e dune. Alcune sono difficili da superare e le aggiriamo.

 

Poi, verso le 10.00 ritroviamo il deserto con fondo sassoso ed arriviamo all’oasi abbandonata di Buzema, abitata una volta dai pastori Tebu.

 

C’è un grande lago che riflette le colline retrostanti tra una vegetazione piena di palme da datteri.

 

L’oasi è veramente disabitata. Rimangono i resti del villaggio, con pozzi lasciati pericolosamente scoperti. Le case in mattoni hanno, quasi tutte, il tetto sfondato e sono di dimensioni varie: alcune sono tonde, altre rettangolari. C’è anche un complesso più articolato che sembra essere stato il fortino o comunque un posto di polizia.

 

Visitiamo il luogo con attenzione, come si osserva un villaggio fantasma con lo sconcerto che accompagna i paesi abbandonati con le storie drammatiche che ne hanno motivato tale decisione.

 

Dalle oasi vicine, vengono a raccogliere i datteri quando sono maturi. Normalmente verso settembre-ottobre.

 

Riprendiamo il fuori pista in direzione N-NO sempre con il terreno duro e veloce. Dopo circa un’ora di strada incrociamo il grande sistema di pompaggio dell’acqua dalla profondità del deserto. E’ un sistema costituito da filiere di varie pompe automatiche, forse una ventina, collocate a raggiera ogni 2 Km. e convogliano l’acqua dentro un acquedotto che la trasporta verso nord.

 

Le raggiungiamo e costatiamo che sono imponenti, perfette, con il caratteristico rumore delle turbine in funzione.

 

C’è un grande piatto doccia per chi vuole e un rubinetto a saracinesca per bere. Acqua fresca e pura, filtrata dalle centinaia di metri di sabbia sovrastante.

 

Pranziamo lì e pomodori e frutta le laviamo con “la fresca acqua del deserto”.

 

Il grande lago sotterraneo è conteso tra Libia ed Egitto. Un altro motivo di attrito tra i due paesi.

 

Mi limito al solito pomodoro con del formaggio e la mela. Ma sto migliorando. La fase acuta è superata.

 

Alle 13.00 riprendiamo la strada con direzione l’oasi di Tazerbo, che dista 40 Km. Questa sera dormiremo nel giardino di un amico libico di Enrico.

 

Arriviamo a Tazerbo alle 14.00. E’ un’oasi molto più pulita di Cufra: niente rifiuti sparsi per strada ma cassonetti decorosi, pur tenendo conto la battaglia quotidiana contro sabbia e vento.

 

L’amico libico di Enrico si chiama Hajmed e suo fratello minore Alì. Quando arriviamo grandi abbracci con Enrico e grandi strette di mano con noi.

 

Ci accomodiamo dentro casa lasciando fuori le scarpe. Una casa semplice e squadrata. Tre grandi stanze con divani-materassi e tappeti a terra, cucina e bagno.

 

Esternamente la casa è circondata da un grande giardino con palmeti, alberi di mango e orti con verdure di stagione. Hanno abbondanza d’acqua e quando arriviamo stanno annaffiando delle giovani palme che proteggeranno l’ingresso del giardino.

 

Ci offrono tè forte e caldo. In un angolo del soggiorno una televisione è accesa per nessuno trasmettendo una soap opera araba, pudica e con le interpreti femminili rigorosamente coperte di veli.

 

Facciamo un giro in centro che poi è la strada principale con case basse e negozi anonimi. In una specie di supermarket Enrico acquista regali per i figli di Hajmed: zainetti per la scuola. Daniele, Claudio e Mauro acquistano tè nero e harissa.

 

Più avanti c’è un internet-cafè e qualcuno prova a telefonare a casa. Più complesso collegarsi con internet, problematico anche parlare con l’Italia.

 

Rientriamo da Hajmed. Questa sera ceneremo da lui. Poi chi vorrà potrà dormire sui divani.

 

La cena è con cuscus, verdure fresche (cetrioli e pomodori) minestra di verdure, patate fritte, pecora arrosto, datteri e frutta fresca.

 

Io mi limito al cuscus per non rischiare la lenta guarigione dai disturbi intestinali ma non resisto alla tentazione di due datteri freschi.

 

Per il dopo cena è prevista la visione di due DVD con i viaggi del 2004 e 2005 che Enrico ha fatto insieme ad Hajmed, abile driver con un pick-up, Toyota ovviamente. Una parte sono i luoghi visti da noi.

 

Alle 20.30 vado a dormire. Ho scelto la soluzione stanza con divano-materasso. Sono il compagno di Claudio.

Anche Daniele, Sandro ed Enrico sceglieranno questa soluzione. Mauro, Vincenzo e Riccardo optano, invece, per la tenda sotto il giardino.

 

Mi addormento facilmente ma nella notte cadrò più volte dal materasso cedevole, rigirandomi nel sacco a pelo.

 

 

 

 

Mercoledì 24 novembre 2010.

 

Mi sveglia il muezzin alle 5.20. Mi alzo alle 6.00 per usufruire del bagno senza fretta e pressioni della fila esterna. Doccia fredda (non c’è acqua calda) con shampoo. Niente barba perché manca lo specchio, meglio così. Il wc è alla turca con l’imprescindibile manichetta pluriuso. Meglio, la posizione della turca è più adatta nelle mie condizioni.

 

Quando rientro in camera Claudio si sta alzando. Non oso chiedergli se ho russato come una locomotiva, ma il suo silenzio o di cortesia o il mio russare è stati lieve. Di certo io non ho sentito lui tra una caduta e l’altra dal letto.

 

Enrico ci propone di lasciare 35 DL a testa per la cena e l’ospitalità della nottata

Salutiamo i nostri ospiti e partiamo verso nord, fermandoci a comprare il pane nella strada principale. Ci pensano Hassan e Daniele. Ma dopo l’acquisto scompaiono e fatichiamo a trovarli anche con le indicazioni criptate che provengono dalla radio. Poi scopriamo il motivo: Daniele ha fatto una foto di troppo al fornaio che dentro la bottega serviva i clienti. Un soldato che era fuori ha ritenuto che avesse fotografato lui, soggetto “sensibile” stante i rapporti bellicosi con il vicino Ciad e così via in caserma che poi risulta essere una casetta da pollaio dietro un edificio verde.

 

Quando arriviamo Enrico parlamenta in arabo cercando di spiegare l’equivoco, ma il graduato vuole passaporti e visti di tutti. Ha un atteggiamento bellicoso e Hassan va a fare le fotocopie dei documenti (e a chiamare Hajmed).

 

Gradualmente il militare si stempera, comincia a sorridere, ci regala quattro bottiglie di acqua e quando torna Hassan (con Hajmed) ci lascia andare con benevolenza. Cosa che non lasciamo tempo a nessun ripensamento. Dopo pochi secondi siamo con tutte e tre le jeep fuori Tarzebo verso la pista che porta all’oasi di Zilla.

 

Siamo in anticipo rispetto alla tabella di marcia e questo è bene perché ci consente di stare un giorno intero a Tripoli e visitare la città. Se riuscissimo ad arrivare nel pomeriggio, potremmo fare un giro tutti insieme. Il giorno dopo, mentre gli “imbarcati” partono per la Tunisia noi rimarremmo con tutto il tempo a disposizione. Il nostro aereo parte il giorno successivo alle 13.00.

 

Programmi e congetture. Vedremo poi, sulla base dei tempi reali.

Intanto dobbiamo arrivare a Zilah che dista 550 Km e l’arrivo è previsto domani, dopo un campo intermedio.

 

I primi 30 Km sono di mammelloni (piccole collinette tonde) con ciuffi di tamerigi. Poi arriviamo nuovamente alle dune, alte fino a 30 m intercalate da lunghi pianori veloci.

Si rinnova la guida prudente della scelta della duna, l’arrampicata veloce, la sosta sulla cresta, la discesa lenta e cauta e la ripresa a tutto gas per ritrovare il pianoro compatto. A volte la jeep si insabbia ma è nella modalità del tragitto.

 

Verso le 12.00 lasciamo le dune e ritroviamo il grande deserto piatto con i grandi solchi di camion che preoccupano Enrico. Tra questi solchi viaggiamo anche noi, sollevando un grande polverone.

Alle 13.30 ci fermiamo a mangiare nel mezzo del serir. Mangio un pomodoro con grana ed una mollica di pane. Ancora disturbato, ma in netto miglioramento.

Enrico approfitta della pausa per rigonfiare i pneumatici: da 0,80 a 1,40 bar.

 

Riprendiamo sulla pista a buon ritmo: circa 60 Km l’ora. Intorno a noi il deserto totale.

 

La pista che percorriamo è segnata da bidoni collocati a distanze regolari.

 

Uno è italiano, con la segnaletica che indica Zilah, l’oasi verso cui siamo diretti. La direzione è N-NO.

 

Alle 17.00 ci fermiamo per montare il campo. Usciamo dalla pista e ci accostiamo a delle dune, più protetti e con terreno più morbido ma con un leggero vento insistente. Si cena con lenticchie e zampone.

 

Si finisce la serata discorrendo su mezzi militari, uniformi, fucili ed altri equipaggiamenti. A volte si divaga su altri temi ma poi si ritorna ai temi cari, con sorrisi e comprensione benevola da parte di Enrico, che preferirebbe parlare di altro. Claudio distribuisce bottigliette di OP per gli amanti dei liquori.

 

Enrico ci spiega che le dune sono traditrici. A Marzuk ci sono le più difficili ed a volte si rischino ribaltamenti dei mezzi con vittime.

 

Alle 20.15 a letto. Un record.

 

 

Giovedì 25 novembre 2010.

 

Mi sveglio all’alba con il buio totale. E’ ancora notte ma non riesco a riaddormentarmi. Con la conclusione del viaggio che si avvicina si riaffaccia l’insonnia mattutina. Qui non c’è il muezzin che scandisce l’ora e così continuo a rigirarmi con i pensieri del lavoro che mi disturbano.

 

Quando sento le prime voci, tra cui quella di Daniele, sono le 6.30. Mi alzo con il primo timido chiarore. In lontananza si sente il ronzio continuo del generatore del campo petrolifero ad oltre 5 Km da noi.

 

Sto meglio, anche se il malessere si è momentaneamente spostato allo stomaco. Così faccio colazione con un goccio di caffè e marmellata.

 

Smontiamo velocemente il campo mentre Claudio, Mauro e Daniele “gavettano” Riccardo che dorme ancora nella sua tenda appartata.

 

So parte alle 8.00 riprendendo il pistone di sabbia. Per alcuni chilometri si va avanti veloci. Superiamo la montagna nera e raggiungiamo la zona delle introspezioni petrolifere e dei pozzi.

 

Entriamo, così, nella pista dei camion petroliferi: Una strada sterrata abbastanza agevole che consente medie di 80-100 Km/ora.

 

Siamo mezza giornata in anticipo sulla tabella di marcia. Si fa più concreta la possibilità di visitare Tripoli con calma.

 

Siamo nelle vicinanze di Zilah e ci fermiamo qualche chilometro prima per veder la sua valle cosparsa di conchiglie fossili. Sullo sfondo si intravede l’oasi con i palmeti caratteristici che le caratterizzano. C’è pure un laghetto con tanto di anatre starnazzanti.

 

Entriamo nell’oasi e troviamo sulla collina che fronteggia la strada principale, il vecchio fortino italiano. Ci si arriva attraverso una strada sterrata che sale avvolgendo la collina.

 

Il forte ha davanti un piccolo piazzale e la struttura è stata restaurata. Cosa rara e misteriosa, considerando che il forte è incustodito e completamente disabitato. Vi si accede attraverso un cancello di ferro aperto. Si può salire fino al tetto da dove si domina la parte vecchia dell’oasi.

 

Mentre visitiamo il forte arriva un pick-up con due libici e due cinesi. Nel cassone una pecora tramortita. Visitano velocemente il forte e misteriosamente come sono giunti vanno via.

 

Pranziamo sul piazzale con il pane locale, molto buono, che è una specie di “chapati” senza sale e pasta sottile. Io mi limito al solito pomodoro e formaggio con un arancio di Tazerbo molto succoso.

 

Ripartiamo alle 12.30 direzione Tripoli, ma l’arrivo è previsto per domani e quindi faremo un campo intermedio.

Prima di lasciare l’oasi facciamo gasolio alla nostra jeep.

Abbiamo davanti circa 800 Km di strada, ma è tutta asfaltata. Lasciamo alle nostre spalle le piste suggestive ms insidiose del erg libico. Si procede a 120 Km/ora con Hassan che precede tutti per i posti di blocco (mediamente ogni 50 chilometri) in direzione Waddan che dista 170 Km. Vi arriviamo circa due ore dopo e notiamo grandi coltivazioni di palmeti protetti dalla sabbia da barriere realizzate con foglie di palme intrecciate.

Giriamo a sinistra in verso Hun che dista solo 10 Km e dove rabbocchiamo i serbatoi delle jeep.

 

Prendiamo la strada che scende verso Sabha ma dopo 15 Km, a Sawkanah riprendiamo la direzione nord verso la strada che da Sabha porta a Tripoli. La incroceremo all’altezza di Bir al Fatiyah. Vi arriviamo alle 16.30. Lì ci aspetta Alì, su una Hyundai Accent bianca, la guida che darà il cambio ad Hassan. Salutiamo il sorridente Hassan con abbracci e baci, come è uso in tutti i paesi arabi. Gli regaliamo un GPS che desiderava.

 

Proseguiamo ancora per un’ora circa e ci fermiamo per il campo.

 

Lasciamo la strada asfaltata e ci portiamo verso l’interno di alcune centinaia di metri. La strada sembra animarsi con la calata del sole. Il traffico, invece di diminuire aumenta. Nulla da invidiare alla tangenziale di Bologna!

 

Enrico prepara rigatoni con pomodoro e olive. Per secondo formaggio. I discorsi della cena e del dopo cena, per la prima volta, affrontano discorsi diversi da quelli militari: si parla di caccia, cacciatori e giovani. Sintomo che stiamo riavvicinandoci alla realtà con la voglia di tornare anella bolgia ma, al tempo stesso, con la già affiorante nostalgia della solitudine del deserto.

 

Alle 21.00 mi avvio alla tenda sotto il cielo stellato mai visto dalle nostre parti, neanche in campagna. E’ il nostro ultimo campo. Sulla strada asfaltata il traffico è continuo ma mi addormento ugualmente.

 

 

 

Venerdì  26 novembre 2010.

 

Mi sveglio alle 5.30. Daniele è già in piedi e promette che nel prossimo viaggio si porterà la tromba per suonare la sveglia! Lo farà di sicuro.

 

Notte molto fredda e la mattina alle 6.00 la temperatura è ancora a 4°. Il caffè caldo è ristoratore. Sto decisamente bene e senza i disturbi degli ultimi giorni.

 

Smontiamo il campo e alle 7.30 riprendiamo la strada asfaltata.

Ai lati ci sono carcasse di cammelli, probabilmente investiti dai mezzi che la percorrono. Enrico ci informa che nella notte sono incidenti frequenti, dal che si deduce che i cammelli girano pericolosamente la notte.

 

L’avvicinamento a Tripoli (Tarābulus) è caratterizzato da molti posti di controllo. Ora la frequenza è di 30 Km. Ad uno di questi incontriamo due jeep di torinesi, accompagnati da un camion al seguito di supporto logistico. Sono diretti in Tunisia per imbarcarsi e provengono da Murzuk. Sono in attesa del resto della carovana. Ci offrono datteri nello scambio dei saluti.

 

Proseguiamo sulla strada, oramai sempre più transitata e ci fermiamo a Mizdah per un tè verde. Arriviamo a Gharyam e proseguiamo ancora, tra campi di uliveti, per arrivare alle 13.00 a Tripoli.

 

Notiamo una periferia ordinata e pulita. Grandi manifesti di Gheddafi sulla ricorrenza dei 40 anni dalla rivoluzione e sul prossimo vertice con i paesi europei. Traffico ordinato e molta polizia a controllo degli incroci che sono regolati da semafori. Interi quartieri in costruzione, con un’architettura dignitosa di sicura mano professionale. Niente a che vedere con quanto visto nelle precedenti città.

 

Nei pressi del centro svettano alcuni grattacieli tra cui quello dell’ENI.

 

Si vedono anche molte donne in strada, tutte con il chador o il velo. Pochissime vestite all’occidentale. Rarissime, quelle che con il burka.

 

Andiamo direttamente all’albergo: Elmokhtar Hotel. Un albergo nuovo inserito in un’area centrale in forte trasformazione. L’albergo convive con negozi di elettronica, di abiti e di prodotti a bassissimo costo. Siamo anche vicini alla piazza Verde ed alla Medina. La mia stanza è la 101 al 1° piano.

 

Pranziamo davanti l’albergo come fossimo in mezzo alle dune del grande deserto di sabbia. Pomodori, baghette fresche, formaggio e frutta.

 

Poi, in albergo, barba e doccia, finalmente. Allo specchio torno a guardarmi.

La camera ha lenzuola ed asciugamani, ovviamente, televisione con la parabola da cui si riceve RAI 3, aria condizionata rumorosa ma efficace, anche troppo efficace e dopo un poco la devo spengere.

 

Il bagno è ben fornito: saponi, lametta, pettine, shampoo, ecc.

 

L’appuntamento con chi vuole fare un giro è alle 16.00.

Quando scendo sono usciti da poco e li raggiungo in pazza Verde, davanti il Castello di Tripoli. Ci addentriamo nella Medina ma ci fermiamo al Caffè Casa. Un caffè con tavoli all’esterno davanti la piazza della Torre dell’Orologio. Molti i clienti: tripolini altolocati, turisti, giovani tripoline molto occidentali, troppo occidentali con il Fabrizio Corona locale.

 

Il clima di Tripoli è caldo e gradevole. La temperatura è di 21°-22° che consente di vivere all’esterno come se fosse un nostro settembre pugliese. Temiamo le notizie sul tempo che giungono dall’Italia: pioggia, freddo, nebbia.

 

Nelle vicinanze di piazza Verde, mentre osserviamo sprazzi di architettura italiana sopravvissuta negli anni, troviamo un negozio che vende vecchie foto di Tripoli e della Libia. Paghiamo 10 DL e l’addetto le carica tutte all'istante su un cd.

 

Ci raggiunge anche Enrico che cambia euro al primo negozio di oro della Medina: euro a 1,65 dinari libici.  

 

Il giro per la Medina porta Riccardo a comprare i narghilè che voleva ed io i datteri libici da portare a Roma. Daniele, invece, trova uova di struzzo in un bazar dove il proprietario parla italiano e ci informa che domani, sabato, la Medina sarà chiusa perché festa decretata da Gheddafi in occasione della conferenza libico-europea.

 

Rientriamo in albergo per uscire poco dopo per andare a cena sotto i portici della via principale la Shri’ Umar al Mukhtar, la via che conduce alla piazza Verde.

 

E’ un ristorante alla buona, più simile ad una nostra pizzeria ma dove si mangia riso, felafel, pollo, e zuppa di lenticchie. Si cena con 4 DL a testa.

Saldo a Enrico il giorno extra dell’albergo (45,00 €)

 

Rientriamo in albergo presto, alle 21.00. Rinviamo i saluti ad Enrico, Riccardo, mauro e Vincenzo a domani mattina. Appuntamento alle 7.00 per tutti.

 

Mi addormento su RAI 3 e con le sue voci familiari.

 

 

 

Sabato 27 novembre 2010.

 

Colazione abbondante alle 7.00 al piano alto dell’albergo da dove si vede il panorama della città ad Ovest. I grattacieli già visti ieri entrando in città e dietro a loro il mare. Il centro di Tripoli è, di fatto, un promontorio sul golfo della Sirte. Mare ad Ovest e ad Est, con la Medina al centro.

 

La colazione è a buffet. Trovo il mio nescafè ma con burro, pane di vari tipi, formaggio e salame (che poi sarà di vitella dato il divieto del maiale), frutta e dolci.

 

Quando scendiamo in strada scopriamo che nella notte hanno rotto i deflettori posteriori delle due jeep. Erano parcheggiate davanti l’albergo e sotto l’occhio vigile della telecamera. Non hanno rubato niente e neanche aperto le macchine. Uno stupido atto vandalico.

 

Alì, chiede in albergo di visionare i filmati della telecamera ma non si può. Solo la polizia è autorizzata a farlo. Enrico rinuncia e velocemente ripulisce le macchine dei frammenti di vetro e chiude i deflettori con del cartone e nastro adesivo.

Peccato per questo incidente che lascia l’amaro sulla conclusione del viaggio. Dispiace per Enrico che però, come in tutte le altre situazioni difficili, reagisce con decisione e pragmatismo senza abbandonare il sorriso.

 

Salutiamo con calore e con dispiacere gli amici motorizzati. Salutiamo con un regalo e con abbracci anche Alì, la giovane guardia che ci ha scortato sorridendo, per tutto il viaggio.

Rimasti soli andiamo a vedere Tripoli. Abbiamo rinunciato a Leptis Magna perché troppo lontano e troppo stanchi di strade e macchine.

 

Giriamo per la Medina costeggiando le vecchie mura che la delimitavano. Le mura sono molto degradate e ridotte ad una pattumiera di rifiuti ingombranti. Poi arriviamo all’arco romano quadrifronte dedicato nel 163 dc a Marco Aurelio e Lucio Vero.

 

E’ un’area che Claudio ricordava molto degradata. Ora, invece è ripulita, ben tenuta e con locali che affacciano sui resti archeologici. Il ristorante adiacente l’arco è l’Athar Restaurant che ispira molta fiducia e ci spinge a prenotare per la sera, “….vicino l’arco, però“.

 

Ci addentriamo all’interno della Medina e ci fermiamo davanti l’edificio bianco attualmente sede della comunità geco-ortodossa e che nel 600’ ospitava le carceri ottomane che custodivano i prigionieri cristiani. Ha perso l’aspetto tetro che doveva avere all’epoca, ingentilito, anche, dalla bandiera greca che sventola sopra il portone principale dal colore azzurro.

 

Davanti c’è la vecchia chiesa francescana Santa Maria degli Angeli, più volte distrutta e ricostruita ed ora destinata alla chiesa evangelica. Il piccolo sagrato è protetto da una cancellata in ferro e l’interno presenta la classica impostazione a basilica con tre navate. Al lato il campanile.

 

Proseguiamo attraverso i vicoli angusti e ci fermiamo in un negozio di antiquario a comprare, io una collana per Maria, una piccola scatola in avorio per Martina e dei piccoli candelabri berberi, e Daniele delle vecchie piastrelle in ceramica provenienti dai palazzi della Medina. Cambio anche i soldi in maniera favorevole, 170 DL per 100,00 euro.

 

Sono belli i grandi piatti berberi ma di difficile trasporto in aereo. Peccato.

Entriamo anche nella moschea Karamanli, un complesso del 1700 situato all’interno della Medina nelle vicinanze della Torre dell’orologio. Molto belle la decorazione a piastrelle policrome in ceramica che ricoprono le pareti. Sul lato nord ci sono anche delle sepolture. La moschea è di fatto inglobata nel grande bazar che si snoda dentro la Medina con negozi e negozietti di stoffe, di spezie, di generi alimentari, orafi e ogni cosa che occorra. Pochi gli antiquari.

 

Concludiamo il giro al Caffè Casa. Frullato di mango, limonata caffè ed un trancio di torta al cioccolato da dividere tra tutti. Intorno a noi, seduti ai tavolini, i turisti, i notabili tripolini e famiglie della società locale che si godono il sole ed il clima generoso della città.

 

La visita successiva è al Castello, ora trasformato in museo della Jamahairjia. Ingresso 6 DL.

 

Il castello è il monumento simbolo della città con un’origine che risale al periodo romano e fortificato in epoca bizantina. Della sua esistenza ci sono conferme sia dagli arabi (che occuparono la zona nel VII sec. Sia all’epoca della seconda crociata nel 1158. Ma la sua vita prosegue e le sue tracce proseguono e nel 1550 i cavalieri Gerosolimitani ottennero da Carlo V l’investitura di Cavalieri di Malta a condizione che difendessero Tripoli ed il suo castello. La configurazione fortilizia, come la vediamo oggi, risale al periodo spagnolo, XVI sec.

 

La sua storia si intreccia con la storia del Mediterraneo e delle presenze dei vari popoli su terra Libica. Un testimone di secoli di guerre, conquiste, sconfitte e tradimenti.

 

Oggi è un magnifico complesso che accoglie i visitatori dal mare con la sua vasca artificiale prospiciente l’ala nord a ricordare che una volta il mare lambiva le mura. Ora è spostato oltre il grande viale che si frappone tra la vasca e la darsena del porto.

 

La visita al museo è piacevole, specie la parte romana con una selezione di mosaici e statue provenienti dai siti archeologici.

 

Più ingenua la parte moderna con il Maggiolino che fu di Gheddafi e la jeep con la quale si compì la rivoluzione libica.

Da alcuni rari finestroni si può sbirciare sull’interno del Castello che non è visitabile, tranne la parte del museo vero e proprio.

Usciamo alle 13.30 in concomitanza con la chiusura del museo.

 

Rientriamo in albergo passando per il mercato. Accompagno Claudio, infatti, a comprare i datteri nella bottega dove le ho trovati ieri sera mentre io trovo, finalmente, la mia schiuma da barba. In cambio mi fa attraversare il mercato coperto dove oltre alle verdure, le carni macellate in bella mostra e le spezie dai mille profumi. Ci sono anche negozi di animali con uccelli canterini, ma anche tristi gatti rassegnati alle gabbie e, addirittura, scimmiette. Una scena dolorosa.

 

Alle 16.30 ci vediamo nella hall per visitare la parte italiana di Tripoli.

Percorrendo la Shri’ Umar al Mukhtar in direzione della Piazza Verde giriamo a destra dopo la chiesa italiana. Entriamo in un quartiere tipico degli anni venti con case di netto stile europeo e quindi italiano. E’ un’edilizia minore e residenziale, simile all’edilizia del nostro meridione, con case a due-tre piani con marcapiano e ampi infissi con serrande.

 

Ci addentriamo tra le strade costeggiando quello che una volta era chiamata la Galleria De Bono, attualmente chiusa per restauro, ed un edificio ad angolo sicuramente un cinematografo, fino alla ex cattedrale italiana consacrata al sacro Cuore di Gesù in piazza Algeria. Realizzata nel 1928 su progetto dell’Arch. Panteri e dell’Ing. Monticelli, una serie di oggi trasformata in moschea.

 

Davanti l’ex cattedrale l’ex Ufficio delle poste (ancora oggi sede del servizio postale) e l’ex palazzo INPS. Tra i due l’edificio di cerniera tra l’attuale via Shari Muhamad al Magrif (l’ex Corso Vittorio Emanuele III) e la sua ortogonale. E’ un edificio a pianta quadra con grandi archi piacentiniani che garantiscono il filtro dalla piazza con parco retrostante. Al centro dell’edificio un grande fontana.

 

Oggi, sotto gli archi, alcuni tavolini indicano la presenza di un bar, frequentato da gente del quartiere. Approfittiamo anche noi per riposarci dalla camminata e prendere un tè verde.

 

Sulla strada Shari Muhamad al Magrif, poi è ancora in perfetto stato un edificio a quinta, dietro il quale sopravvive il vecchio quartiere italiano di abitazioni per la piccola borghesia. La quinta, maestosa, presenta l’ordine gigante sulla traversa laterale. L’edificio, con porticato a terra aveva su ogni colonna un’asta portabandiera a forma di piccolo fascio littorio. Ne sopravvivono due, dipinti di verde.

 

E’ nel suo complesso un’architettura che rispecchia uno stile attento ai pesi dei volumi e delle gerarchie urbanistiche.

 

Rimane da scoprire dove si trovi l’ex sacrario militare italiano progettato da Caccia Dominioni di cui rimane il muro restaurato di recente a cura dello Stato italiano. E’ il sacrario creduto a Tobruk e invece situato qui a Tripoli. Allunghiamo la passeggiata fino all’Ambasciata Italiana seguendo il navigatore-cellulare di Sandro. Ma l’Ambasciata è chiusa e non possiamo chiedere notizie sul luogo che cerchiamo.

 

Ritornando verso la Medina vediamo grandi alberghi in costruzione avanzata, interventi che indicano investimenti importanti per dare un nuovo volto alla città. Vi arriviamo attraverso il lungomare passando per la grande fontana della gazzella con i suoi giochi d’acqua.

 

Raggiungiamo il ristorante Athar costeggiando il castello e le mura est della Città vecchia. Il nostro tavolo è all’esterno e proprio davanti l’Arco di Marco Aurelio. Un biglietto segnala “Sandro”. Una colonia di gatti scorazza tra i tavoli del ristorante scacciati da appositi addetti con racchette da tennis.

 

Daniele ed io iniziamo con minestra di verdura mentre Claudio opta per la minestra libica (la nostra più carne) e Sandro insalata di tonno. Per secondo prendiamo carne di agnello stufata dentro dei cocci sigillati, portati al tavolo e rotti davanti a noi, guarnita cuscus con ceci e verdure.

 

La cena è ottima a conferma che avevamo visto giusto. Spendiamo 20,00 € a testa. Molto per Tripoli, poco per il livello del ristorante.

 

Rientriamo in albergo attraverso la Medina che alle dieci della sera è ancora animata con molti negozi aperti, molte donne che fanno la spesa, molti bambini, molta vita. La attraversiamo tranquilli, senza timori. Episodio dei vetri delle jeep a parte, Tripoli è una città accogliente con una popolazione cittadina pacifica e ben disposta nei confronti dello straniero.

 

Alla reception chiedo la sveglia alle 7.00. In camera preparo velocemente il bagaglio e mi addormento ancora una volta su RAI 3.

 

 

 

Domenica 28 novembre 2010.

 

La sveglia arriva puntuale con un’inglese corretto. Barba, doccia, shampoo.

 

Colazione alle 8.00 con il solito buffet. Questa mattina provo le uova sode con la salsa rossa piccante.

 

Scendo alla reception alle 10.30 con Alì che ci aspetta. Ieri ha accompagnato la due jeep fino alla frontiera, che i nostri hanno attraversato senza problemi e senza controlli. Penso a Riccardo, al suo teschio di cammello, ai suoi reperti segreti che andranno ad arricchire le vetrine del suo museo militare.

 

L’ultimo tentativo di vedere il muro di Caccia Dominioni fallisce davanti ad Alì che non consce il luogo situato a 2 Km verso nord, riportato dal sito su internet.

 

Rinunciamo definitivamente e ci facciamo accompagnare all’aeroporto.

 

Attraversiamo la città con la sua polizia ad ogni angolo. Oggi arrivano le delegazioni europee e c’è molto controllo e attenzione.

 

Alcuni vecchi quartieri periferici sono stati demoliti ed al loro posto stanno sorgendo nuovi complessi residenziali dignitosi nell’architettura e nelle infrastrutture. Un’ulteriore conferma del ruolo che la città vuole svolgere.

 

Arriviamo all’aeroporto alle 11.15 e salutiamo Alì (la guida) ringraziandolo anche con una mancia adeguata.

 

Dentro l’aeroporto siamo pronti ad una lunga trafila al check-in e ai controlli di sicurezza. Invece dopo poco siamo già nella zona di sicurezza. Dobbiamo attendere più di due ore perché il volo AZ 869 deve imbarcare alle 14.15.

 

La sala di attesa non ha negozi interessanti per gli acquisti dell’ultima ora.

Trascorriamo il tempo scaricando e guardando le mie foto sul IPad di Sandro. Alcune non sono male, la macchina lavora bene, il fotografo meno.

 

Alle 13.00 comunicano che il volo ha un’ora di ritardo. Un’ora che diventano due dopo pochi minuti per aumentare ancora di lì a poco. L’ultima comunicazione segnala 17.30 Il tabellone delle partenze è continuamente osservato per controllare altre funeste notizie. Pare che a Roma, all’ultimo momento, abbiano cambiato aeromobile per problemi tecnici.

 

Inizia una continua comunicazione con Mary attraverso sms. La Tim mi comunica che sto esaurendo la scheda. Mi torna in mente il credito zero di Milano al ritorno dall’Egitto e chiedo subito, con il residuo disponibile, di provvedere.

 

Seccato per la solita disorganizzazione italiana chiedo al banco informazioni del personale Alitalia. Un giovane libico è chiamato dai colleghi e chiedo di avere generi di conforto, come stabiliscono i diritti dei viaggiatori in questi casi di ritardi clamorosi.

 

L’addetto mi assicura che si informerà e mi farà sapere e, infatti, ritorna dopo alcuni minuti per comunicarmi che posiamo servirci al bar esibendo la carta di imbarco. E’ a questo punto che noto una lunga fila alla cassa. Non siamo gli unici ad essere stati informati di questa possibilità. Ci mettiamo in fila e scegliamo hamburger con patatine e pepsi (la birra non la passano).

 

Nel frattempo noto tra i passeggeri in attesa dei vari voli una comitiva di argentini, riconoscibili per il loro castellano ritmato e intercalato dall’inconfondibile “che”. Mi chiedo il motivo del loro viaggio e mi tornano in mente i due argentini di Tobruk.

 

Mi avvicinerò a loro dopo l’hamburger scroccato all’Alitalia. Ma mentre sto addentando la seconda metà del panino chiamano il volo: “imbarco immediato”. Non saprò mai il mistero degli argentini.

 

Sono le 16.00 e passiamo un secondo controllo con il metal detector e poi l’ultima verifica dei documenti sulla manica di collegamento, prime di entrare nell’aereo.

 

Poi, finalmente siamo dentro. E’ un Airbus 320 ed il mio posto è il 18C. Accanto a Sandro e davanti a Claudio. Avviso Mary che sono a bordo prima di spengere il telefono.

 

Il comandante ci conferma che il ritardo è causato dal cambio dell’aereo per motivi di sicurezza. Inoltre, è in corso una tempesta di sabbia su Tripoli con la visibilità ridotta e su Roma piove.

 

Inizia il rullaggio e noto la nuova grande aerostazione in costruzione e subito dopo la collezione di rottami aerei e carcasse di camion già notata all’arrivo. Poi il decollo. Alle 16.15.

 

Il volo durerà 90 minuti. Forse Daniele, Sandro e Claudio hanno perso la coincidenza per Malpensa, che parte alle 17.30 da Fiumicino.

 

Quando le hostess passano con il carrello posso bere acqua frizzante che tanto mi è mancata nel deserto.

 

Il volo trascorre veloce e atterriamo a Roma alle 17.45 sotto la pioggia insistente.

Forse ce la fanno per la coincidenza: il volo è dato ancora sul tabellone con imbarco immediato. Mi separo con rammarico da loro.

 

Io devo attendere il bagaglio per una mezz’ora abbondante. Fuori Mary mi attende per sapere tutto del viaggio. Il racconto inizia subito mentre in macchina raggiungiamo Roma e casa.

 

 

 

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Massimo Malandrino – Novembre 2010

 

 

                                                             

 

 

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