Commemorazioni

                       

                     DAL DIARIO DI VIAGGIO DI ANDREA STASSANO

 

per la documentazione iconografica si rimanda a   :     clicca qui        

                                     

Primo giorno, 13/11. Attaccato all’oblò

 

Siamo sopra un manto di nuvole molto compatto, a 11.000 metri di quota. C’è pochissima gente sull’Airbus A 321 Alitalia che ci sta portando a Tripoli. Sembra quasi di essere da soli, senza nessuno con cui parlare. Daniele, infatti, è alla mia destra, ma sta ronfando come un trimotore. Ho solo l’oblò da guardare: così, penso di essere molto fortunato ad affrontare la traversata del Canale di Sicilia seduto comodamente in una cabina pressurizzata. Settant’anni fa, infatti, i nostri piloti se la passavano ben peggio: oltre al rischio, quelli dei bombardieri avevano mille spifferi, mentre i cacciatori addirittura l’abitacolo aperto, pochi strumenti, niente radio. Altro che pilota automatico e radiofaro, che ti guida dritto dritto all’arrivo… Troppo facile. L’ordine, allora, era di andare a sud, verso l’Africa. E basta. Il resto era improvvisazione e fortuna. Sento i motori rallentare e vedo il manto di nuvole avvicinarsi. Allora ci siamo, stiamo scendendo verso la Libia. La voglia di vederla cresce sempre di più. La grande ala del bireattore taglia la coltre come una torta di panna, quasi un peccato. Siamo dentro le nuvole, fuori c’è solo grigiore e non si vede un accidente. Tra poco saremo al di sotto: ma, ecco, là in fondo, un lembo di terra. Finalmente, è la Libia. Sono il terzo della famiglia ad arrivarci: dopo mio nonno Giulio, soldato del Genio quasi 100 anni fa al tempo della guerra italo-turca, e Guido Sturla, cugino del papà e pilota dell’“Asso di Bastoni”, giunto col suo caccia Macchi 200 il 7 luglio 1941 a Tripoli-Mellaha, dopo una traversata piena d’insidie. La prima immagine del paese nordafricano è una distesa di sabbia punteggiata da palme, oasi con davanti un mare increspato. Pioviggina, l’asfalto è umido, il tempo non è molto africano! Tocchiamo la pista alle 13.22 locali. Eccoci dunque a Tripoli. Non mi sembra vero. All’aeroporto internazionale c’è il caos tipico di questi paesi: ma le code sono poche, perché i turisti, da queste parti, sono merce rara. Attendiamo pochi minuti solo davanti a un ufficietto per avere il visto sul passaporto. Ci chiamano per nome, evidentemente il cognome è impronunciabile per loro. La gente è cortese e ci saluta con un “ciao”: ci riconoscono anche se non parliamo. Incontriamo il funzionario dell’agenzia libica, è cortese, parla bene l’inglese. Ci assiste nel cambio valuta coi dinari locali, poi ci chiede se abbiamo fame. L’avrei, anche, ma visto il bar, soprassiedo. Ci consegna i biglietti aerei, s’informa sul mio rientro anticipato del 18 novembre e mi spiega con professionalità la procedura. A un certo punto ci dice di correre: c’è un aereo per Bengasi prima del nostro. Via, si scatta: qui le certezze vanno afferrate al volo.  

Eccoci dunque di nuovo su un aereo, con rotta Bengasi, che dista quasi 1.000 km in auto. Altro che campi trampolino, qui la tratta si fa in un’oretta e non in giorni. Sull’aereo della “Libyan Airlines” siamo tra i pochi europei: ci guardano tutti, ora i diversi siamo noi.

Al piccolo aeroporto di Bengasi ci accoglie finalmente un tiepido sole. Si fa avanti un tipo, che dice di essere amico di Manfredini: non gli crediamo, anche se lui ha buona volontà e tenta pure di passarci Enrico per telefono. Ah, dannata malfidenza all’italiana: perché ha ragione lui. In ritardo sulla tabella di marcia, Enrico ha mandato avanti il libico per accompagnarci in albergo, a bordo di un comodo van Mercedes. Il signore c’è rimasto male, ma fa buon viso a cattivo gioco. Noi abbiamo detto “Il solito libico…”. E lui avrà pensato: “I soliti italiani…”.

L’Hotel, l’AlWahat, è a quattro stelle nella hall, a due e mezzo nella camera e a una stiracchiata in bagno. Bisognerà farci il callo. Dal rubinetto, poi, cola giù appena un filo d’acqua, che per lavarsi ci vuole una settimana. Non importa.

Giù incontriamo finalmente Enrico, l’altro driver Riccardo e Assan, la guida libica. I primi due sono giunti via nave, approdando a Tunisi e sorbendosi già 1.500 km di litoranea fino a Bengasi. E si è solo all’inizio. Le tre Toyota Land Cruiser, una benzina e due diesel, sono lì davanti all’hotel: con loro affronteremo il resto del viaggio. Sono stracariche di roba fino al tetto, ma nessuno le tocca: lo impareremo presto. La cena, a base di pesce, è notevole: sul lungomare c’è una pescheria con annesso ristorante. Vai lì, ti scegli il pesce e te lo fai cucinare. Perfetto. Appeso, a far colore, c’è anche uno squaletto, con una pelle che sembra ruvida come un maglio.

Il locale dev’essere trendy per loro: arredamento bianco, megaschermi moderni, bel servizio. Alla fine ci facciamo una scrofanata di pesce, di tutti i tipi. Io mi attengo religiosamente al pesce a forma di pesce, ma me ne levo la voglia. Alla fine per 20 euro! Torniamo all’hotel in taxi, uno scassatissimo (e sporchissimo) monovolume Nissan: ancora una bella chiacchierata sulla filmografia di guerra e poi tutti a nanna. Domattina ci si sveglia presto!     

 

     

Secondo giorno, 14/11. Il richiamo della moschea

 

Alle 5.30 spaccate la voce (o un disco registrato) del muezzin raccoglie i fedeli in preghiera e sveglia noi cristiani. Beh, siamo in Africa, no? Un’ora dopo, comunque, dobbiamo alzarci. Alla fine ho dormito sopra al sacco a pelo, perché le lenzuola non erano proprio… linde! Dopo una bella doccia, colazione alle 7. Come equipaggio mi trovo sulla Land Cruiser dei libici: nonostante il chilometraggio “corposo”, la jeep è ancora bella pimpante. Abbiamo scorto il porto di Bengasi, con alcune vecchie navi ferme, e poi via sulla Balbia, verso est, verso Cirene. Lunghe distese di sabbia, con palme qua e là e costruzioni basse. Alle poche rotonde non c’è l’ombra di un cartello: e, se c’è, è rigorosamente in arabo. Alla faccia del turismo globale. Infatti siamo noi a guidare la colonna, con Assan al volante, perché è l’unico a sapere dove andare. Si va spediti sulla Litoranea, anche a 120 km/h, perché fuori dai centri abitati c’è poco movimento; spesso c’è lo spartitraffico a dividere le carreggiate. Il sole è già forte, qui dalla mia parte. Assan e il poliziotto, Alì, sono taciturni: del resto non sanno una parola di italiano e quindi, al massimo, si parla (poco) in inglese.

A un posto di blocco un poliziotto ritira una copia dell’elenco dei nostri nomi. Impareremo presto che l’importante, qui, è anche aver sotto mano una copisteria.

La strada a un certo punto comincia a inerpicarsi: siamo sul Gebel Achdar, il “monte” della Cirenaica. Ma, ecco, sulla sinistra comparire un fortino turco demolito e abbandonato da decenni. Entriamo. Vicino, ci sono anche un casotto italiano e una serie di sbarramenti anticarro. Continuiamo il viaggio, scollinando. Qua e là, a bordo strada, si scorge ancora quel che rimane dei guardrail anni Trenta: li ho notati sulle foto tedesche dell’Afrika Korps.

Sulle pendici gli alberi crescono di pari passo con l’altitudine: sono molti i greggi di caprette, tenute a bada da cani spelacchiati. La luce filtra tra le tante nuvole e illumina coltivazioni e case nuove. C’è sempre molta gente a bordo strada, che guarda, saluta, aspetta chissà cosa. Piove, e di brutto, sul Gebel: sembra una giornata autunnale delle nostre, del resto questa in Libia è la stagione delle piogge. Mi colpiscono le molte casette dei nostri coloni: sono tutte uguali, quasi a distanza regolare, forse perché così, all’epoca, gli italiani si facevano una voce e si sentivano meno soli. Le riconosci per quel piccolo porticato sulla facciata e la forma semplice e squadrata. Sono quasi tutte disabitate, saccheggiate: qualche volta fanno parte di piccole proprietà recintate.

Eccoci a Cirene: le rovine archeologiche sono favolose, purtroppo è destino che non le si possa vedere bene. Appena ritirato il biglietto (6 dinari), comincia a venir giù acqua a secchiate, come su un set cinematografico. Il ginnasio d’origine ellenistica è quasi intatto a livello perimetrale, con un lungo colonnato e un ampio altare al centro: uscendo da un lato, si vedono ancora scavi a perdita d’occhio. Ora, però, sta piovendo davvero forte e un po’ alla spicciolata torniamo alle jeep. La storia e la clutura saranno anche importanti, ma lo è anche la salute. Salgo sulla Toyota di Enrico bagnato fradicio: mi spiace per i suoi sedili! Aspettiamo gli altri, che non tardano ad arrivare. Ok, si va: cerchiamo un posto per mangiare, nella speranza che spiova. Troviamo uno spiazzo davanti a un resort e grazie a Dio smette di diluviare: si mangia come in campagna da noi, pane, mortadella e formaggio. Che meraviglia.

Rifocillati, facciamo rotta per Apollonia, l’antico porto di Cirene, che dista da quest’ultima una ventina di km. Stesso centro abitato un po’ squallido, poi, sul mare, le rovine dei templi, favolose nel loro scenario marino. L’ingresso? Sei dinari, obviously. Compro una cartolina con un bel fotomontaggio di Berlusconi, Gheddafi e due statue. So che piacerà molto a un collega di Milano. Autentiche meraviglie archeologiche si spalancano davanti a noi: tre templi, uno dietro l’altro, con alti colonnati e profondi scavi, pavimenti in parte ancora visibili. Davanti, due scogli e il mare scuro che s’infrange. Fa-vo-lo-so.

Non lontano dagli scavi, in una piazzetta, riconosco una nostra costruzione che ho visto su una cartolina pescata in un mercatino e pubblicata sul mio libro: è proprio lei, il Commissariato generale di Apollonia. Incredibile: peccato che tutto il contesto sia diventato così sporco trasandato, senza manutenzione, quasi senza rispetto per ciò che è stato.

Via di nuovo, sulle jeep: ci attende un lungo trasferimento verso Derna, altra città costiera della Cirenaica, presso la quale il cugino pilota Guido aveva la sua base nel 1941. La strada è semi-deserta e veloce, punteggiata a destra da cespugli e dal manto erboso del Gebel e a sinistra dal mare increspato. Mi appisolo un attimo: sono sulla jeep di Enrico, per una volta rigorosamente seduto dietro. A fianco a me c’è Alì, giovanissimo e sempre poco ciarliero: sull’altra Toyota c’è Malek, un simpatico poliziotto, che veste alla moda, tutto di jeans. Parla inglese e mi racconta di un incidente che ha avuto in settembre proprio su quelle strade, che gli ha lasciato una profonda cicatrice al braccio. Mi parla anche della sua casa, che si trova sulla sommità di una collina: è entusiasta. Sarà lui, dopo, ad aiutarci nella ricerca del campo di El Feteja, a est di Derna, verso il mare. Da lì Guido, l’amico Farina e i compagni del 153° Gruppo CT partivano per le loro missioni di scorta o protezione sul mare e sul deserto: darei un occhio per localizzare il posto giusto!

Siamo quasi alla periferia di Derna: spuntano un sacco di palazzine nuove sull’altura, a mezza costa, di quel grigio cemento grezzo, non ancora intonacato. Dall’altra parte, stabilimenti e strutture piuttosto grandi. L’emozione sale, finalmente ecco Derna: non sarà bella, ok, ma ci siamo. Saliamo sulle colline un’altra volta, mentre diamo un’occhiata giù, alla città bassa sul mare, che pare “densa” e affollata. Dopo un po’ siamo nella zona in cui dovrebbe trovarsi il campo italo-tedesco, ma ovviamente non sappiamo bene dove sia. Di cartelli non ce ne sono e poi tutto è cambiato in quasi 70 anni. Pensiamo solo un istante alle nostre città, che mutano di mese in mese solo perché ci sono negozi nuovi. Chiediamo ai passanti: si prodigano molto, ma non riescono a essere precisi. Ci dividiamo in due gruppi, con Daniele che “batte” un’altra zona. Ci lasciamo guidare dall’istinto e imbocchiamo una strada sterrata. Del resto la spianata era in terra rossa, disseminata di sassi e sassetti, proprio come questa. A un certo punto si accosta a noi un pickup giapponese pieno di libici: con loro, anche un anziano. Quest’ultimo, in un italiano arcaico, racconta che molti anni prima il campo d’aviazione si trovava proprio nei paraggi, lungo quei terreni, e che dobbiamo solo tornare indietro un po’. Mentre ci accingiamo a farlo, chiama Daniele via radio: “Venite con noi, forse abbiamo trovato”. Sarebbe stato il poliziotto Malek a riuscirci: ha telefonato al comando locale, ha chiesto dove fosse il campo e chi ne fosse il proprietario e si è fatto dare la dritta giusta. Prima ci guida a un cancello, che però ci pare l’improbabile ingresso del vecchio campo, poi a un’altra entrata: è quella. Parliamo con un signore sulla sessantina, un tale Gefawi: è lui il proprietario e fa entrare sui suoi terreni (chi avrebbe avuto il coraggio, da noi?) tre jeep e dodici sconosciuti: è un tipo distinto, che sfoggia un inglese fluente. Ha viaggiato molto e si vede, ed è stato più volte in Italia. Ci chiede se siamo del Nord… La terra l’aveva comprata suo padre da un italiano molti anni prima: 90 ettari, ben coltivati. Ci conferma che proprio dal punto in cui ci troviamo partivano gli aerei italiani e tedeschi durante la guerra: da lì in avanti, per 4 o 5 km si spaziava a perdita d’occhio. Ascolto ogni parola con avidità. Gli faccio qualche domanda, lui risponde che ovviamente ora è tutto cambiato: ci sono coltivazioni, alberi, muretti, costruzioni, la casa sua e quella di suo cugino, dove prima gli aerei potevano rullare indisturbati (sassi permettendo: qui molti “scassavano” il ruotino di coda, atterrando). Ce n’erano a centinaia, e questo noi lo sappiamo per certo, almeno fino a tutto il 1941. Chiedo se posso prendere un po’ di terra rossa e lui mi dice che posso portar via tutto ciò che voglio. Altro che ostilità verso gli italiani! Sarà anche merito degli accordi fatti in questi anni da Berlusconi con Gheddafi, ma intanto le buone impressioni sulla gente libica si moltiplicano. Il proprietario ci racconta un’altra cosa interessante: quando i libici parlano di ammortizzatori o di motore, usano i termini italiani, perché le macchine loro le hanno viste con noi. E, ora che si va verso l’inverno, Gefawi ha seminato il suo grande appezzamento a grano, oltre che a pomodori e peperoni.

Mi sento di dover ringraziare di cuore questa gente, che ha fatto di tutto per consentirmi di trovare un luogo importante nella storia di famiglia. Uscendo dal campo, ringrazio anche tutti i miei compagni, che hanno compreso bene l’importanza della ricerca e hanno avuto molta pazienza. In particolare Daniele, che quando c’è da cercare qualcosa del passato, ha il fiuto del segugio vero.

La sera tento ancora di telefonare in Italia dall’albergo, ma non c’è verso. Chiaro, c’è di mezzo una disposizione governativa. Il mio cellulare, dell’ultima generazione, con due schede, rimane infatti sempre muto e non aggancia il gestore libico: sarà, questo, un po’ il tormentone della settimana. E gli altri, simpaticamente, me lo faranno notare. Per Daniele è una fortuna che non funzioni, così a casa possono finalmente tirare il fiato. Non ringrazierò mai abbastanza Massimo, l’“argentino” del gruppo, che è sempre così dolce e gentile da prestarmi il suo cellulare per inviare sms a casa.

 

Terzo giorno, 15/11. Ma che simpatica bestiolina…

 

Si parte più tardi, oggi. La mattina presto ho tempo per qualche foto al litorale di Derna, rischiarato dal primo sole: non c’è in giro anima viva. Massimo, come sempre, è già in piedi e sta cercando spunti interessanti per i suoi scatti. Lui, la tradizione della fotografia, ce l’ha in famiglia.

Si parte alle 8 e mezza, ma prima c’è tempo per un simpatico siparietto: sto per salire sul sedile posteriore di una delle jeep, quando vedo spuntare dall’attacco della cintura di sicurezza una serie di… zampette chiare. È un bel ragno libico, chiaro, poco più piccolo di una mano: di quelli, insomma, che noi vediamo solo in televisione. Si fa avanti Assan, sorridendo, col fare di chi ha “mestiere”: lo prende abilmente con le mani e lo porta lontano dalla jeep. Salgo in auto, guardandomi più volte alle spalle.

Andiamo verso est, Martubah, dove si vede un grande aeroporto tutto recintato: di quello di un tempo, dove nel 1941 erano di stanza i Fiat G.50 del Tenente colonnello Mario Bonzano, non c’è più traccia. Inghiottito dalle sabbie e dal post colonialismo. La strada è tutta rettifili e curve lunghe, di quelle dove si potrebbe anche schiacciare. Ma la nostra marcia è calma e regolare: scavalchiamo anche qualche collina, prima allontanandoci dal mare, poi ritornando verso la costa.     

Sulla destra, in campo lungo, ecco la “palificata”, cespugli bassi, qualche sparuto alberello e alcunechcolonica.llo sparuto e qualche casa colonica.ove si potrebbe schiacciare di brutto. case coloniche, vecchie e nuove.

Il sole è già forte a metà mattinata, si viaggia spediti, sui 100-110 orari, con pochissimo traffico. Superata Ain El Gazala, la sorgente delle gazzelle - nome suggestivo e ricorrente in Africa - ecco Acroma: poco più che un villaggio desolato, con case sparse a cavallo della strada. I libici stanno facendo un mare di lavori per ampliare la vecchia Balbia, forse sperano di continuarli coi soldi promessi dall’Italia: in ogni caso, spesso troviamo asfalto nuovo.

Ad Acroma c’è il cimitero di guerra di Knightsbridge: è la classica struttura alleata, curata e ben tenuta, verde e ariosa, con all’interno migliaia di lapidi di militari del Commonwealth piantate nel terreno. Piccole palme e piante grasse abbelliscono i vialetti. La maggior parte delle lapidi appartiene a caduti tra novembre-dicembre del 1941 e l’inizio del ’42, durante la “Battaglia della Cirenaica”, conseguente all’avvio dell’“Operazione Crusader” (18 novembre). Sono inglesi, neozelandesi, australiani, sudafricani. Tanti. Troppi. A dimostrazione che nulla è stato facile in Nordafrica, nemmeno per loro. Uscendo, non riesco a scacciare un profondo velo di tristezza.

Alle 11.30, alle porte di Tobruk, facciamo sosta per rifornimento di carburante e d’acqua. Il bagno della stazione di servizio è piuttosto… conciato. Il gasolio, poco usato dai locali, si fa sul retro della struttura: costo 11 centesimi al litro! Daniele propone un cambio d’itinerario, su sterrato, dopo aver recuperato la guida libica in città. Proprio da lui, un uomo interessante sopra la cinquantina che ha lavorato in Italia a Padova (piccolo il mondo, eh!), veniamo a sapere che l’aeroporto T.2, utilizzato da noi 70 anni fa, era vicino alla città, presso via Forcellini.

Nella rada, ora semideserta, era ormeggiato il regio incrociatore “San Giorgio”, che dopo una lunga carriera dalla guerra italo-turca del 1911-12, dal giugno 1940 fungeva da batteria antiaerea fissa; purtroppo, il 28 giugno 1940, fu sfortunato co-protagonista nell’abbattimento dell’S.79 di Italo Balbo, di ritorno da una missione. Torneremo su questa storia al nostro ritorno dal deserto.

Ora si prosegue: lasciamo sulla sinistra i sacrari tedesco, alleato e francese (brucia che il nostro sia stato smantellato e “profanato” dai libici) poi, al bivio per l’Egitto, prendiamo la strada per El Adem. Parlando con la guida libica, che di mestiere fa tutt’altro, e conosce la zona solo perché ci veniva anni addietro con gli amici, veniamo a sapere che Gheddafi ha concesso in quella zona una piccola casa anche ai profughi provenienti dall’Egitto, dal Ciad, dal Sudan e dalla Mauritania. Gente ben più povera di loro.

Arriviamo nella zona in cui dovrebbe essere caduto Guido il 7 dicembre 1941, dopo la grande battaglia aerea della tarda mattinata: è una spianata brulla, con pochi cespugli sparsi, interrotta in lontananza da rilievi bassi. Assomiglia un po’ alla zona di El Alamein: è toccante sapere che lui, l’amico Farina e molti compagni, sono caduti in un posto simile. La grande desolazione aumenta, se possibile, lo sconforto. Del resto volevo vederlo, questo posto, ed eccomi qua. È un po’ come se fossimo venuti tutti a salutarlo: sono il primo della famiglia ad aver ritrovato questa zona 69 anni dopo: fa molto effetto. E mi trovo da solo a camminare, nel deserto, imbacuccato e in compagnia del sibilare del vento, che sembra parlarti forte e ricordare fatti lontani, mai dimenticati. In questi luoghi, dove non c’è niente, si può riflettere meglio, i nostri pensieri diventano più taglienti e corrono più veloci, con la voce della Natura più possente. Non mi resta altro che immagazzinare fotogrammi e raccogliere un po’ di terra dura (la devo rompere con lo scarpone), che ho promesso a mio padre e al nipote di Armando Farina, il comandante di Guido, che ha condiviso con  lui la sorte di non essere più ritrovato. Inutile andare in giro in cerca di rottami: si capisce subito che il deserto è più pulito di un giardino di casa. Un ultimo saluto a Guido e ad Armando, e poi si può proseguire. I miei compagni hanno capito, sono rimasti a distanza e mi hanno solo scattato qualche foto. Sono loro riconoscente.

Le tre Toyota hanno ripreso la marcia per Bir Hacheim, dove faremo il campo per la notte. Appena abbandonata la strada asfaltata, troviamo un beduino che sta pregando: vive lì coi suoi cani e ha un recinto con caprette e altri animali. Per noi è difficile comprendere come si possa vivere in un posto simile, che pare così inospitale.

Siamo a Bir Hacheim verso le 17. La luce, complice un cielo coperto e poco amichevole, è già bassa. Enrico ci dice di prepararci per la notte. Qualcuno di noi compie un giro esplorativo del complesso fortificato, che si “legge” ancora bene sul terreno. Sullo sfondo il bir, il pozzo, con due rilievi a lato, che i francesi chiamavano “mammelle”. Tutto attorno, ci sono postazioni, trincee, resti di muretti e di una battaglia che dev’essere stata dura. Rientriamo al campo a piccoli gruppi, con Enrico che sta già pensando alla cena. Alla luce fioca della lampada, cominciano a raccontarcela: il Tavernello aiuta a scaldarci e va giù bene. Siamo già vestiti per la sera, con giacche a vento: la temperatura, infatti, sta calando rapidamente.

 

Quarto giorno, 16/11. Lawrence colpisce ancora

 

La notte non è stata delle più tranquille: a differenza degli altri, l’ho passata nella Toyota rossa, sul divanetto posteriore, ma non è stata una gran trovata. Ho letto fino a tardi, col lumicino sulla testa, poi sono crollato. Ogni tanto mi svegliavo per capire dove fossi e guardavo fuori dai finestrini, con l’unica compagnia delle stelle, grandi e luminose. Freddo poi, al mattino, ce n’è lo stesso, nonostante sacco a pelo, giacca a vento e bardature varie: in più stai scomodo. Rimedieremo.

Così la sveglia diventa quasi una liberazione: le voci si moltiplicano e il campo riprende vita. Per aggiungere un po’ di vigore al risveglio, Enrico attacca la canzone “Lawrence d’Arabia” e la prima conseguenza è quella di veder schizzare in piedi Alì, il poliziotto che ha dormito per la prima volta nel deserto, ai piedi della jeep, avvolto in qualcosa di molto simile a un tappeto e circondato da un’improbabile cintura di sassi anti-bestie. E giù grandi risate, chissà lui cosa avrà pensato di noi: poi Alì s’allontana, per continuare a dormire in santa pace vicino a un’ex postazione d’artiglieria. Dopo il caffè, pane e marmellata o nutella, si parte in esplorazione. Il sole comincia a fare capolino e a scaldare. Camminiamo, io e Mauro, lungo il perimetro sud-est della fortificazione: ci sono moltissime postazioni da questa parte, singole, doppie e più grandi, per mitragliatrici e artiglieria. C’è più di un souvenir (una maschera antigas, molti nastri per mitragliatrici, taniche, scatolette) e qualcosa lo portiamo al campo.

Alle 9 siamo di ritorno in attesa della guida, che è tornata a casa per la notte. Si sente già, sarà una giornata calda. Nell’attesa, mi rinfresco un po’, imitato da altri. Dopo un’ora di attesa, riprendiamo la marcia a ritroso e incontriamo la guida che ci stava venendo incontro. Siamo di nuovo sull’asfalto. Al bivio per Tobruk giriamo a destra e subito a sinistra, verso sud, direzione Bir El Gobi. Questa è una landa assai desolata, se possibile ancor più di Bir Hacheim. C’è solo un semplice pozzo con gettata esterna di cemento e una scaletta che porta nelle viscere del deserto. Su una piccola piattaforma, di lato, sono indicate le distanze dai “centri” principali più vicini: Tobruk, Mechili, Giarabub. Dall’altra parte della strada, un’istallazione militare, con una grossa antenna: il soldato di guardia viene lì e, amichevolmente, insieme ad altri libici, dice la sua riguardo cosa ci sia da visitare nei paraggi. Poco o nulla, si direbbe. A perdita d’occhio ci sono sempre cespugli bassi e sabbia, ancora sabbia: il cielo è sgombro, là in fondo solo un fronte di nuvole. La luminosità è molto alta, il sole è forte e, con poco vento, lo senti di più. Enrico e io mangiamo, perché gli altri sono in giro a cercar reperti. Io non me la sento: in definitiva è qui che Guido è venuto per la sua ultima missione, di scorta agli Stuka d’attacco a colonne motorizzate inglesi. Vedere questo posto, in fondo, mi ha messo tristezza.

La chiacchierata con Enrico è molto interessante: è una persona solida, mette molto entusiasmo in ciò che fa e ha le idee chiare. È un vero capo spedizione e lo dimostrerà a breve. Gli altri stanno tornando, segno che l’appetito supera anche la curiosità. La guida libica, invece, è andata a mangiare l’agnello nella casermetta.

Facciamo il punto della situazione: andremo verso la Ridotta Maddalena, vicino al confine con l’Egitto. L’idea, poi, è quella di proseguire verso nord, lungo il confine, verso il mare. Vedremo.

Salutiamo questo posto spoglio e triste e andiamo avanti fin verso le tre e mezza. La pista è diventata sassosa e la velocità scende di parecchio, spesso sotto i 50. Le molte pietre e  irregolarità costringono i nostri driver a guidare con maggiore attenzione. Al volante c’è Riccardo, già molto bravo per la sua giovane età (ne ha quasi la metà del sottoscritto…). Si balla un po’, fa caldo, tanto che l’aria condizionata rimane accesa.

Si prosegue fino alle 17, quando ecco spuntare le rovine della Ridotta Maddalena. Le battaglie e gli anni restituiscono solo i resti di questa imponente fortificazione: in piedi, in pratica, rimangono solo le pareti esterne, ma l’atmosfera è di quelle che fanno effetto. Qua e là, enormi cumuli di latte e taniche di benzina, segno che in passato è stato fatto un bel repulisti. Tutto parla di scontri e distruzione qui, al confine con l’Egitto.

Il fondo è molto compatto, cotto dal sole, quindi per piantare le tende ci vuole un po’ d’energia: forza e coraggio! Sì, perché vista l’esperienza della notte passata, ascolterò Enrico e questa me la passerò in tenda, da solo. Ascolterò da vicino il concerto del russare, in do maggiore, dei miei compagni: ovvio, loro si sorbiranno il mio.

Sistemato tutto, alle sei ci mettiamo intorno al tavolo per un “happy hour” un po’ diverso, con la luce del sole che se ne sta andando in fretta. I libici sono andati a cuocere l’agnello, perché è la loro festa. A noi tocca per fortuna una bella pasta col pomodoro: ma vuoi mettere… Anche nel deserto non ci facciamo mancare un pezzo d’Italia. È questo, forse, il momento più bello della giornata: siamo stanchi, ma felici, e con un sorso di vino si scherza e ci si scioglie più facilmente. Ci raccontiamo un po’ di storie, di guerra, ma anche di Formula 1 e devo dire che stavolta, mio malgrado, tengo un po’ banco.

I libici ci portano un po’ d’agnello: vorrei dire che sono a posto così, ma l’assaggio è d’obbligo. La guida, non più giovanissima, è un tipo dalla storia curiosa. Ha vissuto e lavorato in Italia per quattro anni, negli Anni 70, per giunta a Padova: incredibile, per me che sono patavino d’adozione! Mi parla di posti e società che conosco: ha lavorato alle Officine meccaniche Tessari: pensate che alle medie avevo in classe il figlio più piccolo, Michele… Si ricordava della Concessionaria OM Stimamiglio dove ha lavorato per una vita mio padre… Che coincidenze: il mondo è microscopico!  

Ma, ad attirare la nostra attenzione è soprattutto il cielo stellato, le costellazioni, come sempre nel deserto. Peccato, stavolta, per una luna a metà che fa molta luce e per i faretti del campo… A esser sinceri il cielo del deserto mi aveva fatto più impressione la prima volta in Egitto, nell’oscurità piena: ricordo che si scorgeva perfettamente la trama delle microstelle tra una grande e l’altra, che si vede solo qui, lontano da tutto. E che spiega molto del fascino di questi posti. In ogni caso, il cielo libico è bello lo stesso: e Sandro, col “Solar Walk” del suo telefonino, ci fa vedere le costellazioni con tanto di didascalie… Cosa si può volere di più?

Un po’ dopo le 21 si va a nanna: qualche parola scambiata tra una tenda e l’altra prima di addormentarsi, la mia lucina accesa per leggere racconti di tempi lontani. E poi attacca la sinfonia, prima in una tenda, poi in un’altra. Ecco perché qualcuno si è piazzato più lontano… Io, invece, sono molto vicino alla tenda di Daniele… Povero Riccardo, che dorme con lui: avrà i tappi alle orecchie o un sonno di pietra.

 

Quinto giorno, 17/11. La nebbia nel deserto

 

Notte in tenda: dopo l’immancabile lettura, crollo. Fino alle 4.30: ora sono sveglio, sento rumori, il deserto sembra vivo. Mi riaddormento ma, pur vestito, con tanto di piumino e cappello di lana addosso (chissà cosa mi direbbe Daniele, se mi vedesse…), sento un bel po’ d’umidità. Così, alle 6 e mezza, metto fuori la testa e mi sembra di stare… nella campagna pavese. C’è un bel nebbione! Il sole sta già salendo, ma non si vede, come non si scorge la torre d’osservazione, qui dietro a pochi metri. Facciamo colazione al… fresco poi, a piccoli gruppi, ci mettiamo a fare un giro esplorativo tra le rovine della Ridotta. La bruma “scozzese” dà un effetto parecchio suggestivo, ma un po’ spettrale. Nebbiolina, cumuli di rovine: trovo 5 o 6 batterie per una radio da campo italiana. Poi 3 bossoli sparati forse di un Lee Enfield e alcune schegge di granate. Le taniche sono un po’ dappertutto: italiane, inglesi, anche del dopoguerra.

Rimetto a posto in fretta la tenda, è quasi ora di ripartire. Ora fa meno freddo e il sole comincia a fare capolino e a scaldare un po’.

Si va, in direzione nord, verso il confine con l’Egitto, che risaliremo in parallelo dalla parte del reticolato libico. Subito, lì, c’è un casotto costruito dagli italiani, che negli Anni 80 e 90 è stato evidentemente posto di presidio libico. All’interno ci sono grandi disegni, per personalizzare un po’ l’ambiente, di per sé molto squallido: una jeep Toyota, aironi, la civetta. Proprio come facevano italiani, tedeschi e alleati nelle loro baracche nel deserto, 70 anni fa. Riprendiamo il tracciato, ingombro di oggetti (c’è anche un proietto intero!), e ci troviamo in una zona delicata, con parecchio filo spinato dalle due parti. Aguzziamo tutti la vista, e il fascino, in tutto ciò, deriva anche dal pericolo palpabile. Siamo proprio lungo il confine, in parallelo col reticolato, che sta alla nostra destra. Qua e là ci sono dei varchi, che ci spalancano la “terra di nessuno”. Urge una sosta, con foto: ma là, più avanti, il percorso è sbarrato da un cumulo di pietre. Chiedo ad Assan: “Che cos’è?”. Risposta sintetica: “Bomba”. Beh, buono a sapersi. A destra c’è un enorme varco nel reticolato, si vede che bisognerebbe passare di qui. La guida libica entra nella “terra di nessuno” e procede tranquillo per un bel pezzo. Io resto dove sono. Dall’altra parte del reticolato, oltre la “terra di nessuno”, binocoli egiziani ci tengono d’occhio, vicino ai casotti di osservazione: staranno pure vedendo che siamo turisti, però non si sa mai. Uno di loro guarda per un po’ e poi s’infila velocemente nel casotto, forse per telefonare al comando e chiedere istruzioni. C’è un conciliabolo tra noi: qualcuno vorrebbe proseguire e la guida libica - quella che aveva lavorato a Padova - dice che si può fare, stando attenti. È una parola, mica mi convince: e anche altri sono scettici. Alla fine l’ultima parola spetta a Enrico, responsabile di uomini e mezzi. E il nostro “comandante” è categorico: si torna indietro e ciao. Qualcuno, ovviamente, è deluso di non poter vedere la Ridotta Capuzzo e il Villaggio Berta, ma io e altri siamo sereni: inutile rischiare coi campi minati così vicini, non puoi sapere cosa ti attende là avanti. Facciamo dietrofront, ripassiamo davanti alla Ridotta Maddalena, per un ultimo saluto, e via. Stiamo tornando verso la strada asfaltata, che ci condurrà a Tobruk. La strada è lunga e capita un “diversivo”: la Toyota di Assan fora il pneumatico posteriore destro. Forse un sasso acuminato, come ce ne sono tanti su queste piste. Assan e il poliziotto non perdono tempo, sembrano due meccanici nella pit-lane di Monza alle prove del sabato. In pochi minuti tirano giù la ruota, la sostituiscono con quella di scorta, come più velocemente non si sarebbe potuto fare. Bravi, si vede che capita spesso da queste parti! Si riparte: sulla jeep di Riccardo abbiamo poco carburante per i miei gusti, circa un quarto di serbatoio… Lo centelliniamo, andandoci leggeri con l’acceleratore e spegnendo pure l’aria condizionata. Oggi possiamo farlo, è bel tempo, ma il cielo è un po’ velato. Dopo ripetuti sguardi all’indicatore del carburante (non abbiamo il doppio serbatoio, come sulla Toyota di Enrico) arriviamo all’area di servizio - forse sarebbe meglio dire al rifornimento -, al bivio di Tobruk. Facciamo oltre 80 litri, pagando una manciata di euro…

La fame è brutta, dunque non si guarda in faccia a nessuno: così facciamo sosta per mangiare davanti al… Cimitero di guerra francese. La struttura è un po’ spoglia, quasi dimessa, anche se pulita e ben tenuta: all’ingresso c’è una costruzione che vorrebbe ricordare un fortino del deserto e che invece sa più da villaggio vacanze nordafricano; nella parte destra, un po’ nascosti, s’intravvedono i panni stesi della famiglia del custode. All’aperto ci sono circa trecento lapidi della 1ª Brigata Francia libera, che combattè nell’estate 1942 per difendere il presidio di Bir Hacheim (Bir Hakim per i francesi) dalle truppe dell’Asse. Molti, come sempre, i senza nome. All’interno della costruzione ci sono belle illustrazioni sul presidio, sulle sue fortificazioni, sulla disposizione delle forze in campo e le varie fasi della battaglia. Ci aiuta a capire meglio quanto abbiamo visto.

È la volta del Sacrario tedesco, che si trova in cima alla collina che domina la rada di Tobruk. Dopo aver visto il sacrario germanico di El Alamein, è quanto ci si può attendere: una specie di fortezza medievale, forse ancora più tetra di quello egiziana. Ti colpisce subito la porta d’ingresso, davvero minuscola, come se quasi non si dovesse entrare: di fronte, una corona d’alloro metallica, dedicata ai soldati tedeschi, alla spedizione africana, a Rommel. I corridoi bui del “castello” ci conducono al cortile interno, dove si trova la classica composizione al centro, con il braciere sorretto ai quattro lati da figure scolpite. All’interno dei colonnati, diverse lastre riportano i nomi di tutti gli oltre 6.000 soldati qui ricordati: colpiscono proprio i nomi, in ordine alfabetico, scritti in modo molto compresso e in stile gotico. Sono quasi illeggibili se non ti avvicini molto, come se a importare non fosse il singolo, ma la massa compatta. È così, la filosofia alla base dei sacrari tedeschi è quasi di tipo “intimista”: le lapidi non si vedono, perché uomini, dolore ed emozioni devono rimanere volutamente nascosti, contenuti nell’anima e basta, per una sorta di pudore a mostrarli. Salendo una scala buia, si accede al camminamento perimetrale sul tetto: da lì si apre la veduta del porto e, ovvio, quella del cortile interno. Tutto dà l’idea di grande forza e compattezza, di qualcosa di fatto per durare per sempre.

Ora però ci mettiamo in cerca del punto esatto in cui precipitò il trimotore di Balbo. Là dovrebbe esserci un cippo, una targa, qualcosa. Dovrebbe. Saliamo sul ciglione: mi viene subito in mente il servizio che pubblicai a inizio 2010 sull’argomento, sulla rivista “Volare”. Avevo avuto la fortuna d’intervistare un testimone oculare del fatto, il generale Romano Cingolani, che ora non c’è più. Lui mi disse di aver visto chiaramente la dinamica dell’abbattimento: si trovava proprio sulla salita che avevamo passato noi, aspettava il pullman che l’avrebbe ricondotto alla sua base, dopo aver consegnato al T.2 un biplano Fiat. Era appena cessato l’allarme di un attacco aereo inglese. A un certo punto Cingolani vide l’S.79 di Balbo, fortunatamente senza gregario, già disimpegnatosi, effettuare un’ampia virata sul porto, inseguito dai traccianti della contraerea di terra e dell’incrociatore: il bombardiere venne colpito al motore sinistro, che s’incendiò subito. Balbo cercò di allontanarsi, ma precipitò poco dopo, ai piedi della scarpata. Di certo una grande perdita per l’aeronautica italiana e della Libia: un uomo che avrebbe potuto fare molto all’inizio della guerra con la sua intraprendenza. Comunque, si cerca. Chiediamo a un paio di libici: rispondono di sapere dov’è il punto esatto. È lì vicino, ci accompagnano. Scatta in tutti la delusione: al posto del cippo o della targa, c’è un… tombino sul quale non si legge niente di niente. C’è solo una data, 28/1/19… che non significa nulla. Questa la brutta notizia: quella bella è che, d’incanto, escono fuori dalle case circostanti un sacco di ragazzi (non ragazze, eh!), incuriositi dalla nostra presenza. Qualcuno indossa la tuta dell’Inter, segno che seguono bene il nostro calcio grazie al satellite. Ci si spiega in qualche modo, ci confermano che il luogo è quello, i vecchi lo ricordavano spesso. C’è cordialità, curiosità, vogliono scattare una foto con noi: occasioni come queste, non capitano tutti i giorni. Insomma, è bello, e in buona parte ripaga delle “delusioni storiche”. Un ragazzo esibisce sul braccio ricoperto da un guanto addirittura un falco pellegrino, bellissimo e orgoglioso: ha una zampetta legata al padrone perché non se ne voli via, e un cappuccetto sugli occhi, per farlo stare tranquillo. Più volte, infatti, il falco tenta di spiccare il volo: è nella sua natura.      

Insomma, in questa bella terra i segni della guerra e del duro passato coloniale sono stati in massima parte attentamente cancellati. Non costituiscono attrazione turistica, come succede invece, in parte, in Egitto. Restano, è vero, nostre costruzioni un po’ ovunque, ma solo se servono ancora a scopi militari o civili. Per il resto la Libia è un paese che cerca faticosamente di scriversi una storia sua, staccandosi dall’Italia appena può, ma chiedendo la nostra collaborazione appena ha bisogno, ad esempio, di tecnologia e conoscenze specifiche.

Tobruk è un esempio lampante di tutto ciò. Arriviamo in città poco dopo le 15: l’Hotel Giarabub, dove alloggeremo, è uno dei migliori - se non il migliore - della zona. E forse è il meno peggio di quelli visti finora: si trova in una via dove ci sono, sparsi, parecchi detriti lasciati lì da chissà quanto tempo. Ma anche questo fa parte del fascino di questi posti. Siamo in uno degli ultimi giorni di una festa islamica e ciò provocherà, come vedremo, qualche problemino. Infatti, i negozi sono quasi tutti chiusi, e i pochi aperti, lo sono solo di facciata. Inutile chiedere qualcosa, ti rispondono: “Oggi non si può, torna domani”. Come se ogni normale attività fosse “congelata” fino a dopo la festa.

Gli altri sono pronti per un giro di Tobruk, ma i miei desideri si concentrano su una doccia e un po’ di restauro. Rimango in camera fino alla cinque passate. Poi, in strada, trovo Enrico: ho appena chiesto nella hall di poter chiamare l’Italia, ma la risposta, cordiale, è sempre la stessa: non si può. Chiaro, disposizioni superiori. Anche stavolta m’assiste “San satellitare”: grazie Enrico! Riesco finalmente a parlare col papà, ed è una bella sensazione. Si sente bene, come fossimo dietro casa. Faccio due passi per strada: la genti ti guarda con curiosità, ma non ti senti a disagio. Basta salutare e subito tutti ti rispondono e sorridono.

Altro problema (grosso): dove si va a mangiare la sera? Con ’sta festa islamica, è tutto chiuso: poveri cristiani… Nella hall incontriamo un signore gentile che parla bene l’italiano, perché ha vissuto un anno e mezzo a Terni, a inizio degli Anni 80. Si prodiga per aiutarci per la cena, ma anche per indicarci dove andare l’indomani per vedere qualcosa delle vecchie fortificazioni: si consulta con l’albergatore, che mastica qualche parola d’inglese. Salta fuori anche una bella carta australiana, con le tre antiche linee di difesa di Tobruk, di cui però l’interessato non si vuole disfare, nemmeno a suon di euro. Alla fine, visto che di ristoranti aperti non ce ne sono, albergatore e signore si offrono di prepararci la cena: molto carini e provvidenziali! Accettiamo senza riserve.

Dunque, cena in albergo. Ammettiamolo, l’appetito è notevole. Arrivano da fuori pentole e teglie: sono stati gentili, ci hanno preparato la pasta. I libici fanno di tutto per metterci a nostro agio e accendono pure la tv sul canale che trasmette la partita di calcio della nostra Nazionale. Difficile pretendere di più. Sul tavolo ci sono pasta e agnello: io mi fiondo sulla prima. Alla fine paghiamo pochi dinari a testa, lasciando la giusta mancia.

La serata si conclude davanti all’albergo, dove sono parcheggiate le Toyota. Si parla, si trinca un po’ e si scherza. Poi, tutti in stanza. 

 

Sesto giorno, 18/11. Ci dobbiamo separare

 

È il mio D-Day. Purtroppo devo cominciare il mio ritorno verso l’Italia: andrò in auto da Tobruk a Bengasi, per poi salire sull’aereo della sera per Tripoli. Ma è anche il giorno in cui devo salutare i miei compagni, che prendono la via delle oasi e dell’avventura vera. Parto alle 8.30 e mi dispiace molto. Gli abbracci e i saluti si sprecano. Ma, è così.

Appena partiti, siamo già… fermi: rimaniamo un’ora davanti al posto di polizia, per avere il timbro dell’immigrazione sui passaporti di tutti. L’auto è una berlina Nissan Maxima QX 3.0 V6, vecchiotta ma veloce: è di Tare, un amico di Malek il poliziotto, che ne va molto fiero. Nell’attesa chiacchieriamo, come possiamo: più che altro ci si intende a gesti. Tare è giovane, ma ha già moglie e tre bambini, di cui mi mostra orgoglioso le foto su uno dei suoi tre (!) cellulari: e pensare che me ne basterebbe uno solo a posto… Alle 9.30, finalmente, si riparte: lasciamo Assan all’albergo con i passaporti degli altri e prendiamo la direzione opposta, verso ovest, verso Cirene. Mi sembra tutto così strano…

Parlo ogni tanto in inglese con Malek, ma le pause di riflessione sono numerose, anche perché Tare, nel frattempo, ci sta dando dentro con l’acceleratore. Malek fa da interprete, il suo amico è una specie di driver super eclettico: sa guidare scavatori, camion, auto da corsa, muletti e moto: all’appello, in pratica, manca solo l’hovercraft. Di sicuro c’è che ci va giù pesante con la sua Maxima: appena la strada è libera, cioè appena fuori Tobruk, la lancetta del tachimetro rimane fissa sui 180, con punte di 200 e oltre. Sembra quasi che voglia mostrare la sua abilità. Mah… Comincio a irrigidirmi, guiderà anche benino, mi dico, ma non c’è da fidarsi, nemmeno di chi incrociamo. I sorpassi, qui, sono tutti buoni, anche quelli che non ci sono… Lo schema, più o meno, è il seguente: Tare arriva letteralmente in scia al malcapitato “doppiato” di turno, lo sfila, si mette a centro strada, quando dall’altra parte un altro suo connazionale sta facendo l’identica manovra. Brividi veri. Vuoi vedere che… Comincio a parlare di sicurezza, di velocità, che tanto non c’è fretta, che in Italia in autostrada il limite è a 130... Malek, che è sveglio, capisce e sussurra qualcosa a Tare. La velocità scende a 140. Divoriamo così la Via Balbia, come non avrei mai immaginato.

Facciamo una sosta per cappuccino e merendina: niente code, paga tutto Malek e non accetta discussioni. La coda alla toilette, invece, è proibitiva, quindi me la tengo e ciao.

All’ora di pranzo siamo a Cirene: chiedo a Malek se si può fermare in un negozio di telefonia, per acquistare una scheda libica: ma la sorte, beffarda, vuole che a quell’ora sia tutto chiuso. Poco dopo la Maxima comincia a singhiozzare e a dar segni di noie all’alimentazione. E io zitto. Secondo me la bella galoppata del nostro prode ha lasciato il segno sull’anzianotta berlina made in Japan. Mentre Tare cerca di capire se il guasto è riparabile (e io già ne dubito), Malek, che è di Cirene, mi porta a visitare il sito archeologico che avevamo visto di corsa all’andata, sotto il diluvio. Entriamo nella zona degli scavi e, puntuale, arriva per cellulare il verdetto: la Maxima è leggermente defunta. Bene, penso, e ora? Ricapitolando, mi trovo a piedi a divorar cultura a Cirene, quando invece dovrei essere sulla strada per Bengasi… Ma, quando pensi di dover dire “Houston, abbiamo un problema…”, ecco che Malek tira fuori dal cilindro la soluzione. Chiama un amico di Cirene, che fa il tassista: sarà lui a portarci a Bengasi, ma come ho fatto a non pensarci prima? Così, quasi dal nulla, si materializza in pochi minuti una grossa monovolume Hyundai. Tiro un sospiro di sollievo: l’auto sta insieme col nastro adesivo - strano per la Libia, dove girano molte auto nuove -, ma in questo momento meglio non fare gli schizzinosi. Intanto scatto molte foto al sito, che è davvero favoloso, uno dei più grandi che abbia mai visto, conservato così com’era stato riportato alla luce.

Usciamo, ma non è mica finita con la lezione di storia antica. Malek vuol farmi vedere altre meraviglie e io, pur guardando l’orologio, acconsento. Ha ragione lui, il tempio di Zeus, nascosto in un boschetto, lascia senza parole: a parte il tetto, è quasi integrale. Trovo un gruppo di ragazzi libici che mi chiedono da dove vengo: facciamo subito una bella foto insieme. Sono molto aperti e simpatici.

Ma il meglio deve ancora venire: arriviamo a un cancello grigio, chiuso. Ci aprono, breve classico conciliabolo e il custode ci spalanca le porte di un magazzino, evidentemente non aperto al pubblico. Sembra la grotta di Alì e i 40… archeologi: ci sono bellezze artistiche senza pari. Trattengo il respiro e mi guardo in giro, senza costrutto: credo che ogni appassionato di storia vorrebbe essere al mio posto. Alla scena i libici ridacchiano di gusto. Statue, sfingi, corpi perfetti, con o senza testa, marito e moglie sul divano, capitelli interi, mosaici, lapidi, iscrizioni in greco e romano, teche preziose. Incredibile: allora è questo che si prova quando si scopre qualcosa del passato… Scatto foto a mitraglia, a tutto: e quando mi ricapita?

La visita è breve, ma intensa: ora è tempo di rimettersi in marcia, la strada è ancora lunga. Non abbiamo più il driver eclettico, in compenso qui c’è un bel “martello” che fa del suo meglio per tenere sotto pressione una macchina lenta e pesante. In pratica, mantiene i 110-120 ovunque: curve, salite, discese, sorpassi… Tanto qui si supera preferibilmente in curva cieca, sennò che gusto c’è? Mordo il freno e spero vada tutto per il meglio.

Siamo sul Gebel Achdar, quello dell’andata, che in salita si va coprendo di vegetazione montana. La terra diventa sempre più rossa, il paesaggio più simile ai nostri. C’è parecchio traffico su questi saliscendi, molti viaggiano a manetta: dai velocissimi pickup alle vetuste e corrose Peugeot 504.

Ogni chilometro, o quasi, c’è una classica casa colonica italiana, abbandonata, sventrata, lasciata andare. Quasi mai sono abitate, talvolta hanno a fianco costruzioni più moderne o sono state inglobate in recinti più recenti, che mantengono uno stile simile. C’è un senso d’imitazione costruttiva, da parte dei locali, ma quello che è stato importante per i nostri coloni, ora è triste e senza vita, lasciato lì a perenne monito di un passato non lontano e ancora non del tutto sparito.

Una sosta è d’obbligo, prima delle 16. La fame si fa sentire, nonostante la tensione per i contrattempi e la guida dei libici. Si mangia qualcosa e si beve una Coca al ristorante turco: ottimi gli spiedini di pollo con verdure, fatti sparire in modo avido. La vista? Ottima: sui lavori stradali con annessa betoniera.

Verso Bengasi la strada torna in pianura, si allarga ed è tutta dritta, frammista da provvidenziali rallentatori, che mettono a dura prova le anchilosate sospensioni della nostra Hyundai. La vegetazione è quella classica nordafricana, con palme e cespugli bassi, vista tante volte nelle foto a colori del magnifico libro tedesco “Recon for Rommel”. Ora si parla meno, anche con Malek, la stanchezza comincia a pesare.

Alle 16.45 siamo, finalmente, all’aeroporto di Bengasi-Benina, che non è più lo stesso del vecchio K.2. Non dovete immaginarvi chissà cosa, per il secondo “hub” della Libia: un parcheggio neanche tanto grande, un solo terminal, più piccolo dell’aeroporto di Treviso e pochissimi aerei sulla pista. Malek mi dice di accomodarmi lì, poi sparisce per un’ora col mio passaporto. Non ho nemmeno un giornale: di edicole o negozi, qui, neanche l’ombra e il cellulare è sempre un inutile peso in tasca. Aspetto e mi guardo attorno: ci sono diversi turisti - francesi, scandinavi, anche italiani -, il resto sono uomini d’affari o famiglie libiche. Sorrido, perché in fondo allo stanzone ci sono solo due (sic!) desk per i bagagli e, chiaro, nessun display. Il traffico di volo non dev’essere proprio caotico da queste parti… Le uniche informazioni (si fa per dire) arrivano da uno speaker che parla solo in arabo. Mi siedo vicino a una comitiva di toscani, che hanno una guida bilingue: prendono il mio stesso aereo per Tripoli, mi accoderò a loro.

Torna Malek, mi consegna il biglietto e il prezioso passaporto. Sembra tutto in ordine. Prende la mia valigia, salta tutta la coda che intanto si era formata al desk 2 e la mette sul nastro trasportatore: la saluto da lontano, sperando di ritrovarla all’arrivo. Poi mi dice di seguirlo. Mi indica l’angusto stanzino prefabbricato attraverso il quale dovremo passare tutti, uno alla volta, per il controllo del bagaglio a mano, poi mi saluta. Gli sono riconoscente, è stato in gamba e mi ha risolto un mare di problemi: gli lascio il mio numero di cellulare e una corposa mancia in dollari, che forse non si aspettava. Ci abbracciamo: è un bel momento, anche un po’ simbolico.

Ora sono solo, senza poter chiamare nessuno e in mezzo a un mare di sconosciuti: mi dico, dai, che diamine, sei abituato a viaggiare, vedrai che andrà tutto bene. Ma il tempo non passa mai.

A un certo punto la voce in arabo si rifà viva e chiama qualcosa: immagino sia il mio volo, perché ce n’è soltanto uno all’ora. Al controllo bagagli a mano suona tutto quando passo, mi perquisiscono, ma non mi fanno tirar fuori nulla. Siamo al piano di sopra, altro stanzone: un funzionario mi chiama perché non mi sono fatto timbrare per l’ennesima volta il biglietto dalla solita ragazza avvolta da un foulard. Mi siedo di nuovo, in fondo c’è una sola uscita, quindi non si può sbagliare. Poco dopo inizia l’imbarco, con precedenza a donne, bambini e mariti accompagnatori. Questa sì che è una bella idea! Sull’autobus che ci accompagna all’aereo - un airbus A321 della “Libyan”,piuttosto recente - penso che un po’ mi dispiace abbandonare la Cirenaica: chissà quando potrò rivederla… In fila, prima di accedere alla scaletta, mi resta una cosa da fare, che non sapevo di dover fare: vedo gli altri passeggeri cercare la propria valigia e metterla su un carrello; faccio lo stesso, capisco che è indispensabile per non giocarmi il bagaglio. Quei pochi colli che restano per terra, vengono riportati nel terminal.

Sono seduto al mio posto, non mi sembra vero: di fianco a me c’è un egiziano, che si addormenta prima del decollo. Anch’io posso rilassarmi un po’. Si parte quasi in orario e mi metto a scrivere la cronaca di queste ore: per un po’ riesco a non pensare a chi è a casa e non ha mie notizie. Mi sento comunque un privilegiato: 70 anni fa non c’erano telefoni o telefonini, si comunicava solo per lettera, che arrivava a destinazione se e quando l’aereo o la nave non venivano, rispettivamente, abbattuti, bombardati o chissà che cos’altro: che mestiere poco “eroico”, ma così importante, era quello di portare la posta in tempo di guerra!

All’arrivo a  Tripoli, come al solito, è tutto ok: ormai ho imparato, in Libia ogni aspetto è ben organizzato a livello “centrale”. Ci sono due persone ad attendermi, col mio nome: un driver e un poliziotto giovane, dall’espressione apparentemente un po’ scocciata. Mi ricrederò a breve. Gli spiego che devo assolutamente acquistare un carta sim libica per poter chiamare in Italia: mi risponde “No problem”. Mi accomodo dietro, su un bel van Mercedes e mi dico: qui a Tripoli, si fanno le cose in grande. E, in effetti, l’impressione, osservando strade e costruzioni, è subito assai differente rispetto al resto della Libia. Qui siamo nella Capitale e l’ordine e la pulizia sono molto più curati. Tanto per dire, la grande strada che collega l’aeroporto internazionale al centro, circa 30 km, è a quattro corsie, percorsa da numerose BMW e Audi. Familiarizzo un po’ con i mie accompagnatori, qualche battuta e il ghiaccio si rompe. Vogliono sapere da che parte dell’Italia vengo, che lavoro faccio (e qui resto sul vago…), per che squadra di calcio tifo. Nei sobborghi scorgo bei palazzoni appena ultimati, pitturati di giallo, con sotto parcheggi ben ordinati, e penso che è molto peggio il nostro Gratosoglio, verso Rozzano. È l’ennesima conferma che qui la gente vive nettamente meglio che in altri paesi nordafricani vicini. Oltre alle tante auto nuove, mi colpiscono i semafori con display che indicano i secondi che mancano al verde e quanti secondi di verde avrai: noi non li abbiamo. Su per giù ogni 500 metri c’è un cartellone pubblicitario col faccione del Colonnello, che sappiamo essere notoriamente un tipo discreto. Ecco, i cartelli stradali sono sempre in arabo, tranne quelli che indicano l’aeroporto: tanto, da solo non puoi andare in giro… In città mi vengono incontro un sacco di luci, tipo le nostre di Natale sui vialoni, e molta confusione: sono le 21.30 e Tripoli ribolle. La notte è giovane.

Mi portano a un centro Libyan Telecom, la nostra Tim, con un sacco di sportelli e molto personale. Col passaporto risolviamo tutto in una decina di minuti: 5 dinari per la scheda e 20 di ricarica, non si sa mai. C’è anche un simpatico ragazzo che in un fluente italiano mi spiega, molto professionalmente, la procedura per attivare la scheda e verificarne il credito. Fantastico, il mio iper-tecnologico cellulare riprende magicamente vita e torna ad avere un senso. Finalmente posso parlare e sentire la voce di Laura, prima, e dei miei poi, mi emoziona, dopo un così lungo blackout. La voce di casa è bella e la voglia di tornare, a questo punto, è tanta.

Beh, la giornata non è stata delle più facili, ma i libici hanno mostrato buona capacità d’adattamento e una bella dose di praticità, che li aiuta a risolvere in fretta le situazioni. Insomma, mi sono piaciuti, alla faccia dei luoghi comuni in questi casi. L’albergo l’El Mokhtar, è praticamente in centro. Alla reception non capiscono subito se sono lì per lavoro, o se faccio parte di un tour organizzato: insomma, se devo ancora pagare o meno. Poi tutto si spiega. Con le mie due “guardie del corpo”, ci diamo appuntamento alle 8.45, la mattina dopo.

Salgo in camera, finalmente posso farmi un bagno: la stanza è bella, pulita, altra cosa rispetto alla provincia. Qui le stelle appese sulla placca dell’hotel sono vere. Ora mi sento meglio, sono stanco ma non riesco a dormire: troppe emozioni, oggi. Guardo fino a tardi su Italia 1 (ah, la tv italiana…) “Csi, la scena del crimine”: non l’avevo mai visto prima. Poi crollo, luce accesa. Alle 5.30 la voce dal minareto mi dà la sveglia, ma ormai ci sono abituato e mi giro dall’altra parte.

Settimo giorno, 19/11. La tv libica: meglio del Grande Fratello…

 

Mi sveglio con la sveglia, cosa strana per me. Faccio due foto dal balconcino sul retro, dove ci sono diverse case vecchie, mezzo crollate. Inganno l’attesa scrivendo. Poi, nella sala all’ultimo piano, c’è la colazione: con me, solo una signora inglese e una coppia di francesi. C’è di che scegliere da mangiare, come nei nostri alberghi: del resto questo è frequentato solo da stranieri. Istruttivo e spettacolare (vero, Guido Trac?) il programma che va in onda a ciclo continuo sulla tv di Stato: parate militari, cori patriottici dalle tribune, sorvoli di jet e saggi discorsi autocelebrativi elargiti dal Colonnello. Un paese di sei milioni di anime (di cui circa due a Tripoli) che mostra i muscoli e dimostra di essere una nazione unita e felice.

Sono pronto: tra poco i libici saranno qui e potrò finalmente visitare Tripoli! Puntualissimi, all’orario stabilito, i miei due accompagnatori sono nella hall. C’è sempre qualche incomprensione, quando si parla in inglese, ma poi si va avanti al motto di “No problem”. Arriviamo alla famosa Piazza Verde, quella della Rivoluzione del 1969. È un bel posto, curato: da un lato offre bei palazzi italiani, al centro una ricca fontana e, di fronte, il Castello Rosso, che proprio dalla sua parte dischiude i vicoli della Medina. Là, in fondo, oltre alle altissime palme, c’è il mare.

La visita comincia proprio dalla Medina: peccato, è completamente deserta, negozi chiusi, non perché siano appena le nove del mattino, ma perché di venerdì è festa per tutti, tranne che per chi mi sta accompagnando. Strano vedere un luogo solitamente pieno di gente e colori, con le serrande abbassate: e anche il suo fascino, un po’, si perde. In certi punti la Medina è anche bella scalcinata, con il “cielo” tutto aperto e le travi che sembrano quasi venir giù: un problema, abbiamo visto - quello della mancanza di manutenzione delle strutture - molto generalizzato in Libia. Le case sono basse, una attaccata all’altra, con finestre piccolissime: proprio come avevo letto sulla guida del Touring Club degli Anni 30, scovata in un mercatino. Sui due lati si aprono un sacco di vicoli, tanto che dopo poco ci si perde. Qualcuno porta in qualche casa, altri in alberghi o ristoranti, che alla sera devono essere molto popolati e chiassosi. Più in là si vede la moschea, ma anche un originale palazzo-torre con tanto di orologio: si alternano parti comuni all’aperto più curate e rimesse a nuovo, ai vecchi suq, più malconci e lasciati andare, ma sempre molto folkloristici.

Entriamo nella moschea più vecchia di Tripoli, lasciando fuori le scarpe: mi lasciano fotografare. Mi colpisce la sua sfarzosità, la lucentezza e brillantezza dei suoi marmi e dei lampadari. La luce bianca è la sua caratteristica: altare e tabernacolo - sempre che si chiamino così - sono invece di legno pregiato. Poco più avanti, ecco il bagno turco più antico della città (è dell’800) e il Consolato britannico. Siamo sempre “inseguiti” da una numerosa comitiva di inglesi, con molti anziani belli pimpanti che si “tirano” l’un l’altro.

Molto suggestivo l’angolo dell’Arco di Marco Aurelio, in cui puoi passare sotto e ammirare parti di capitelli lasciate lì, alle intemperie. Il cielo è ancora grigio, fatica ad aprirsi, l’aria è piacevolmente fresca. Scendiamo verso il porto, con molti palazzi dell’epoca coloniale. Nella rada ci sono pochi, grandi traghetti e una manciata di navi da carico: come sempre, non si muove una foglia.

Mi vogliono portare a tutti i costi al mercato ittico, anche se non mi sembra così interessante. Ma a Tripoli è famoso e si capisce subito il perché: la struttura è recente, ma l’ambiente è molto caratteristico, coi suoi banchi ricolmi di pesce di ogni tipo, appena pescato. Uno spettacolo di colori e odori mica male… Da una parte si vende, dall’altra si pulisce e si prepara il pesce secondo le esigenze dei clienti. E infatti c’è già molta gente, nonostante sia abbastanza presto.

Percorriamo all’esterno il lungomare, dall’altro lato della strada, in parallelo al muro perimetrale dell’antica fortificazione (il Castello Rosso), che sbuca poi proprio dietro alla Piazza Verde. C’è un grande giardino, con palme, fontane e gruppi numerosi di mauritani, nigeriani e sudanesi, che riconosci subito per il colore molto scuro della pelle. Tripoli è il crocevia dell’immigrazione del Centrafrica verso l’Italia (nonostante gli accordi) e il Nordeuropa. Anche loro ti salutano e ti danno il benvenuto, anche in italiano, pure se qui non sono proprio di casa.

Il nostro giro si conclude con la piazza che dà sulla grande moschea nuova, la Libyan Arab Jamahiriya e i palazzi di chiara origine italiana. Quest’ultimi parlano ancora di un non lontano splendore, ma sono lasciati un po’ andare, adibiti a uffici pubblici. Tripoli è così: ha strade e palazzi anche molto belli, ma non ben tenuti. Peccato anche per i bei lampioni di ferro, qualcuno un po’ storto, qualcuno un po’ “sbeccato”. Ma la capitale libica ha anche tanti complessi nuovi, che spiccano sui quartieri più vecchi, spesso caratterizzati da strade non asfaltate, anche se posizionati in pieno centro.                              

La lunga scarpinata ha termine e Mustafà (il driver) ci viene incontro con l’auto (santo subito). Gli dico che ormai voglio andare verso l’aeroporto, per avere un buon margine di tempo prima del volo, previsto per le 14.15. Lui mi risponde serafico “No problem. Non c’è in giro quasi nessuno, una mezz’oretta e siamo lì”. Ok.

Sulla strada intravedo un cartellone che, purtroppo, non riesco a fotografare: è di quelli “pesanti”. Raffigura soldati coloniali - evidentemente italiani - con tanto di classico copricapo color crema, che su una spiaggia sparano alla schiena a donne e bambini libici. Peccato non sia riuscito a fotografarlo: poteva essere interessante da mostrare a casa nostra. Pensate un po’ alla faccia della nostra diplomazia che avrebbe dovuto spiegare perché il nostro amato partner nordafricano, cui abbiamo promesso mari e monti, sotto sotto incita all’odio razziale verso gli antichi colonizzatori, oggi primi clienti e collaboratori finanziari e tecnici. Una brutta pagina, direi l’unica, in una vacanza meravigliosa, in cui peraltro la gente non dà alcun peso a queste polemiche pretestuose.

Al parcheggio dell’aeroporto, sul cui lato stanno costruendo un nuovo terminal, riecco Gheddafi: il suo alone mistico raffigurato in una pubblicità di telefonia, è quasi un saluto e un commiato. Il mio viaggio nella Libia del Colonnello finisce qui. Varcate quelle porte, ormai, tutto sarà orientato al rientro in Italia.

Passo il bagaglio sotto al metal detector, che suona di continuo. Tutta la roba metallica è in valigia, i proiettili li ho lasciati a Tobruk. Sarà lo Swatch... Poi eccomi al check-in: c’è un solo uomo dell’Alitalia, il resto è personale locale. Ora ho in mano i due biglietti per l’Italia. Con i due ragazzi è il tempo dei saluti, ma non c’è il feeling che ho sentito con Malek. Del resto con quest’ultimo ne abbiamo passate delle belle.

Infilo il piccolo corridoio che conduce alla sala del controllo passaporti: un primo funzionario mi timbra passaporto e biglietto e li passa a un collega, quello delle segnalazioni dei nominativi. Ok, non sono sulla lista, passo il controllo sommario del bagaglio a mano e mi trovo al secondo piano: ci sono asiatici, egiziani, che salutano e italiani, che invece si sentono superiori… Ah, c’è già aria di casa: potrei anche pentirmene… Telefono in Italia, davanti a una Coca e a un display - che lusso - in arabo e inglese.

 

Che cosa mi è rimasto del viaggio in Libia? Qualcosa che porterò con me tutta la vita e che ho cercato di trasmettere in queste pagine. Il ricordo di una terra cui mi sento legato da due esperienze di famiglia, il grande calore e l’attaccamento della gente libica, che ci guarda sempre con amicizia e simpatia e, in fondo, come a un modello. I miei compagni, splendidi, che ho dovuto lasciare a metà del cammino per tornare al lavoro: sono stati i migliori che avrei potuto desiderare. A loro va un pensiero particolare.

Il fascino di posti ancora incontaminati, magari un po’ lasciati andare, ma di sicuro non sfruttati a livello commerciale e dalle grandissime potenzialità: basti pensare alla loro storia ultramillenaria. Luoghi che hanno visto invece solo per pochi anni i segni della nostra faticosa e sfortunata colonizzazione, ancora visibili oggi, pur coi limiti di cui parlavo, e che legano questa terra indissolubilmente alla nostra. Più di quanto non si creda. La gente di qui cresce se non col mito, almeno con l’idea e la bellezza dell’Italia, che avrà tanti difetti, ma è sempre un gran bel posto dove andare a vivere o fare esperienze. Ma, per me, è stata anche la Libia di Guido, dove lui scelse di andare nel 1938 e dove realmente arrivò nell’estate del 1941, sulla scia delle speranze di un giovane pilota di 23 anni: un posto bello e magico, ma anche un triste posto di morte, che ha ghermito lui come tantissimi nostri altri ragazzi. Tenevo moltissimo a immergermi in ciò che lui aveva visto, ma è vero che ormai sono passati tanti anni e la storia, se non è quella dei vincitori, finisce col coprirsi di sabbia. Ma, di sicuro, lui aveva trovato questa “quarta sponda” meravigliosa e affascinante e così l’ho trovata io.

Infine, il viaggio mi ha lasciato il bello della notte nel deserto, in mezzo al nulla, in compagnia della propria solitudine, col fischio del vento in grado di portare molto più lontano i pensieri: un’esperienza da fare, almeno una volta nella vita. Che un po’ ti cambia, ammettiamolo, e alla fine ti fa capire quanto sia bello aver la possibilità di scegliere e di poter tornare alla sicurezza della propria vita e della propria casa.  

 

Andrea Stassano               

 

 

                                                             

 

 

QATTARA HOME PAGE
DOCUMENTI & TESTIMONIANZE HOME
 

BACK



Se volete fare quattro chiacchiere sul deserto del Sahara, scrivetemi:
danielemoretto@libero.it



© qattara.it 2006-2007-2008. Tutti i diritti riservati. Contenuto: Daniele Moretto. Disegno: Giorgio Cinti