Nuovi capitoli in "Le mille e una favola" e "Alla ricerca dei relitti perduti"

                                                                           

 

                                                L’Italia e le colonie d’Africa.

 

Con l’apertura del canale di Suez del 1869 comincia da parte di tanti esploratori italiani l’interesse per l’Africa,

Bianchi, Bottego e tanti altri si avventurano in quelle terre ed i nostri giornali pubblicano ampi ed appassionati resoconti su quelle missioni, tali esplorazioni fanno si che l’interesse verso la quarta sponda italiana diventi sempre piu’ marcato nella classe politica del giovane Regno d’Italia.

La “colonia primogenita”, come era anche chiamata, fu la prima colonia italiana ed ha i confini dell’attuale Eritrea. 

La vicenda storica della colonia primogenita ebbe inizio intorno ad Assab nel 1880 e si concluse ufficialmente col Trattato di Pace del 1947, quando l'Italia dovette rinunciare a tutte le sue colonie.

In tutto il sogno coloniale italiano duro’ sessantasette anni.

L'inizio dell'occupazione italiana si ebbe nel novembre 1879 con il padre lazzarista Giuseppe Sapeto che, per conto della società di navigazione Rubattino di Genova, avviò le trattative per la cessione della Baia di Assab al Governo italiano. È il primo atto della presenza ufficiale italiana nel continente africano. Nel 1869 fu siglato con il Sultano locale l'accordo per l'acquisizione da parte dell'armatore Raffaele Rubattino della baia, allo scopo di farne un porto di servizio alle sue navi. Il governo egiziano contestò tale acquisizione e rivendicò il possesso della baia: da ciò seguì una lunga controversia che si concluse solo nel 1882.

Non a caso il nostro primo approccio con l’attivita’ coloniale vede come protagonista un sacerdote, l’avventura coloniale italiana venne sempre vissuta dai vari governi come una missione civilizzatrice che doveva riportare la civilta’ appunto ed il benessere alle popolazioni africane.L’Italia a differenza delle altre potenze coloniali creo’ in Eritrea, Etiopia e Libia una rete di infrastrutture che resiste ancora oggi. Tali attività dovevano nelle aspettative dei governanti dare lavoro ai nostri disoccupati e fermare il flusso di emigrazione di disperati che cercavano fortuna nelle americhe.

A parte le dure repressioni in Libia del ventennio gli italiani non si lasciarono mai andare a violenze gratuite sulla popolazione civile, risposero duramente con rappresaglie in occasione di episodi singoli in cui i nostri avversari si resero colpevoli di massacri ai danni di civili o di prigionieri.

Il 10 marzo 1882 il governo italiano acquistò il possedimento di Assab, che il 5 luglio dello stesso anno diventò ufficialmente italiano. Negli anni dal 1885 al 1890 fu acquisita l'importante città portuale di Massaua (che divenne capitale provvisoria del possedimento d'oltremare) e il controllo italiano si estese nell'entroterra. Nel 1890 l'Eritrea fu ufficialmente dichiarata colonia italiana, con capitale Massaua. Suo primo governatore fu il generale Baldassarre Orero, sostituito pochi mesi più tardi dal generale Antonio Gandolfi, uomo di fiducia di Francesco Crispi.

Nel 1893 il Negus etiopico Menelik denunciò il trattato di Uccialli. L'Italia continuò la sua espansione verso l'entroterra (Axum, Macallè, Adua) e nel settembre 1895 si svolse la battaglia di Amba Alagi tra le truppe italiane e quelle etiopi, comandate dai Ras Macconen, Alula e Mangascia. Il 1 marzo 1896 gli italiani furono sconfitti ad Adua.

Il 1 Marzo 1896 piu’ di 100.000 etiopi a cui i nostri stessi governanti avevano venduto poco tempo prima le armi da fuoco e munizioni affrontarono ad Adua   17.700 italiani, Il generale Oreste Baratieri disponeva in totale di 36 000 uomini, tra italiani ed Ascari. Una metà la lasciò a presidio di Massaua, Asmara e delle altre piazzeforti della Colonia Eritrea, di cui era governatore; organizzò i restanti 18 000 in un corpo di operazione, strutturato su quattro brigate, che comandò personalmente nella marcia verso l'interno.

Le quattro brigate, per un totale di 17 700 uomini, potevano contare su 56 pezzi d'artiglieria. Una brigata sotto il comando del gen. Matteo Francesco Albertone era composta da ufficiali italiani e da truppe di ascari (fanteria indigena, dal termine arabo askar, “soldato”) reclutati in Eritrea. Le rimanenti tre brigate erano composte da effettivi italiani sotto il comando dei generali di brigata Vittorio da Bormida, Giuseppe Ellena e Giuseppe Arimondi. Queste contavano su truppe d'élite (bersaglieri, alpini e Cacciatori), ma molti dei soldati erano coscritti malamente addestrati e senza alcuna esperienza, da poco trasformati da reggimenti metropolitani in battaglioni destinati al servizio in terra africana.

Fu una carneficina peraltro ampliamente prevedibile, 7.000 morti,1.500 feriti,3.000 prigionieri da parte italiana fu il bilancio della battaglia di Adua, cosi’ impietosamente lo storico Chris Proutky esprime il suo pensiero:

« gli Italiani avevano carte geografiche inadeguate, armi antiquate, scarsi e inefficienti strumentazioni per le comunicazioni e scadenti scarponi inadatti per il terreno roccioso. (I nuovi fucili Remington non erano stati assegnati perché Baratieri, costretto ad operare in regime di stretta economia di bilancio, volle esaurire le vecchie cartucce che non erano adatte ai Remington). Il morale era terribilmente basso perché i veterani erano malati i nuovi arrivati troppo inesperti per coltivare un qualche “spirito di corpo”. Inoltre vi era una penuria di muli e di selle».

Non meno duro con  Baratieri fu David Levering Lewis che testualmente  affermò che il piano della battaglia italiano: «Prevedeva che tre colonne marciassero in formazione parallela verso la cima di tre montagne - da Bormida al comando della destra, Albertone alla sinistra e Arimondi al centro  con una forza di riserva al comando di Ellena che seguiva Arimondi. Il fuoco incrociato d'appoggio di ogni colonna avrebbe dovuto falciare il nemico.La brigata di Albertone avrebbe dato il passo alle altre. Essa era in posizione sulla sommità chiamata Kidane Meret, cosa che avrebbe fornito agli italiani la possibilità di dominare il terreno in cui si sarebbero scontrati con gli etiopici.

Tuttavia le tre brigate italiane erano giunte separatamente alla fine della loro marcia notturna e si erano sparpagliate dopo l'attraversamento di numerosi chilometri di terreno molto accidentato. Le loro mappe lacunose indussero il generale Albertone a scambiare per errore una montagna per Kidane Meret e quando un esploratore gli rivelò il suo errore, Albertone avanzò direttamente contro la posizione tenuta da ras Alula. Mentre il generale Baratieri ne era inconsapevole, l'imperatore Menelik sapeva che le truppe del suo nemico avevano esaurito la capacità dei contadini del luogo di aiutarle e aveva programmato di irrompere nell'accampamento italiano il giorno seguente (2 marzo). L'Imperatore s’era svegliato presto per le sue preghiere ed invocare l'ausilio divino quando spie di ras Alula, il suo principale consigliere militare, gli portarono notizie circa l'avanzata degli italiani. L'Imperatore convocò gli eserciti separatamente dai suoi nobili e, con l'imperatrice Taytu che lo seguiva, ordinò alle sue forze di avanzare a loro volta. Il Negus Tekle Haymanot comandava l'ala destra, ras Alula la sinistra e i ras Makonnen e Mengesha il centro, con ras Mikael alla testa della cavalleria d'élite oromo, mentre l'Imperatore e la moglie rimasero con la riserva. Le forze etiopiche si posizionarono sulle colline che guardavano la vallata di Adua, in perfetta posizione per accogliere gli italiani che erano esposti e vulnerabili al fuoco incrociato dei nemici.

La brigata di ascari di Albertone fu la prima a incontrare l'assalto etiopico alle 6:00 del mattino, presso Kidane Meret, dove gli Etiopici erano riusciti a montare la loro artiglieria. I suoi ascari, nonostante la schiacciante inferiorità numerica, tennero le loro posizioni per due ore, finché Albertone non fu fatto prigioniero e, sotto la pressione etiopica, quanti sopravvissero cercarono rifugio nelle file della brigata di Arimondi. Essa fu costretta ad arretrare sotto i colpi degli etiopici che ripetutamente caricarono la posizione italiana per tre ore con una forza gradualmente evanescente fintanto che Menelik lanciò nella mischia la sua riserva di 25.000 shewani e sommerse i difensori italiani. Due compagnie di bersaglieri che erano arrivate in quel medesimo momento non ebbero la possibilità di portare alcun aiuto e furono annichilite.

La brigata italiana del generale da Bormida s’era messa in movimento per sostenere Albertone ma non fu in grado di raggiungerlo in tempo. Tagliato fuori dal restante dell'esercito italiano, da Bormida cominciò un arretramento, pur combattendo, verso le retrovie italiane. Tuttavia da Bormida diresse la sua forza inavvertitamente - per colpa di mappe grossolanamente inesatte e l'inaffidabilità, se non il tradimento, delle sue guide - in una stretta vallata in cui la cavalleria Oromo massacrò la sua brigata al grido di «Ebalgume! Ebalgume!» ("Falcia! Falcia!"). I resti umani del generale da Bormida non furono mai ritrovati, sebbene suo fratello avesse saputo da un'anziana donna che viveva nell'area che ella aveva offerto acqua a un ufficiale italiano ferito a morte, "un capo, un uomo grosso con occhiali e orologio e stellette dorate". Le rimanenti due brigate, sotto Baratieri, furono aggirate e fatte a pezzi sui declivi del Monte Belah. A mezzogiorno, I sopravvissuti dell'esercito italiano erano in piena ritirata e la battaglia era finita.

Nel loro rifugiarsi in Eritrea, gli italiani abbandonarono tutta la loro artiglieria e 11 000 fucili, come pure la maggior parte dei loro trasporti. Dei 3000 italiani prigionieri 200 morirono durante la detenzione, 800 furono gli ascari catturati, considerati traditori dagli etiopici, ebbero amputate la mano destra e il piede sinistro. Ci furono notizie di alcuni prigionieri italiani  evirati  ma a quanto sembra non furono raccolte prove certe di mutilazioni o maltrattamenti a carico di nostri connazionali.

Prima conseguenza della disfatta fu la firma del trattato di Adis Abeba fra Etiopia e Regno d’Italia, tale trattato

Durera’ fino al 1935 quando iniziera’ la seconda guerra italo abissina che si concludera’ con la vittoria delle nostre armi.

Emilio Lussu nel suo libro “un’anno sull’altipiano” racconta di un suo conversare con un tenente colonnello reduce da Adua che dice: « Non si affidi alle carte, altrimenti non ritroverà più il suo reggimento. Creda a me che sono un vecchio ufficiale di carriera. Ho fatto tutta la campagna d'Africa. Ad Adua abbiamo perduto, perché avevamo qualche carta. Perciò siamo andati a finire a ovest invece che a est. Qualcosa come se si attaccasse Venezia al posto di Verona. »

Adua arrivò poco dopo lo “schiaffo di Tunisi” ad opera dei francesi che non tenendo conto delle mire italiane sulla Tunisia che ospitava gia’ una folta colonia di italiani e con la quale   aveva siglato un trattato  l'8 settembre 1868 la occuparono militarmente l’11 Maggio 1881.

Stretta fra la Francia in Tunisia e l’inghilterra che con la scusa di proteggere il canale di Suez scavato  pochi decenni prima l’Italia di Giolitti nel primo decennio del 1900 comincio’ a guardare verso la Libia che apparentemente non suscitava gli appetiti delle altre due potenze europee, per un sottile gioco di alleanze l’impero ottomano sembrava ancora essere in grado di governare quella provincia.

Nel 1911 l'Italia era alleata con Germania e Austria-Ungheria nella Triplice Alleanza, tuttavia manteneva anche ottimi rapporti diplomatici con Gran Bretagna e Russia, invece la situazione diplomatica della Turchia era molto meno brillante, dato che, in perenne contrasto con la Russia, si stava allontanando dall'alleanza franco-inglese del 1909  per allinearsi con gli Imperi Centrali, trovandosi per sua disgrazia "in mezzo al guado". Del resto nel 1908 la rivoluzione chiamata “dei giovani turchi” a cui aveva preso parte anche di Kemal Atatürk futuro fondatore della moderna Turchia. Prima dell'inizio della guerra in Italia si manifestarono forti correnti interventiste, con una convergenza di interessi fra la borghesia settentrionale, che vedeva un intervento come un'occasione per allargare i mercati per i prodotti agricoli e, soprattutto, industriali, ed il proletariato agricolo del sud, che vedeva nella Libia, descritta come terra generalmente fertile, un'occasione per ridurre la piaga dell'emigrazione. Non tutti erano comunque di questo parere, Salvemini definì la Libia “uno scatolone di sabbia”, Nenni per i repubblicani, Mussolini per i socialisti tuonarono sulle colonne dei rispettivi giornali di partito contro l’intervento, fu dichiarato anche uno sciopero generale alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia. Il conflitto era ormai inevitabile, per non essere messa di fronte al fatto compiuto di un’altra occupazione di queste terre da parte di Francia od Inghilterra che confinavano con le rispettive zone di influenza con la  Cirenaica e la Tripolitania; Giolitti ruppe gli indugi, il giorno 28 settembre l'ambasciatore italiano a Costantinopoli consegnò alla governo turco un ultimatum che come rifeì lo stesso Giolitti nelle sue memorie: «fu compilato in modo da non aprire strade a qualunque evasione e non dare appigli ad una lunga discussione che dovevamo ad ogni costo evitare» . Il termine per accettare le condizioni dell'ultimatum (che, fra l'altro, imponeva al governo ottomano di dare «gli ordini occorrenti affinché essa [l'occupazione militare della Tripolitania e Cirenaica] non incontri da parte dei rappresentanti ottomani alcuna opposizione» ) era di sole 24 ore. La risposta turca fu estremamente accomodante, ma giunse con un ritardo di due ore, quando già era avvenuto il primo scontro bellico. La guerra iniziò alle ore 14 del 29 settembre 1911; dopo pochi minuti il capitano di fregata Guido Biscaretti, che si trovava al comando di un gruppo di cacciatorpediniere, incrociò la torpediniera turca Tocat in veloce allontanamento dal porto di Prevesa (attualmente in Grecia). I cacciatorpediniere Artigliere e Corazziere la presero sotto il fuoco delle loro artiglierie, costringendola ad incagliarsi in fiamme. La torpediniera Antalia tentò di uscire dallo stesso porto per appoggiare l'altra unità turca, ma, raggiunta dalle bordate delle navi italiane fu messa fuori uso prima di poter impegnare il nemico. Con questo primo combattimento la guerra era iniziata e non esistevano più margini diplomatici per evitarla. La guerra italo-turca non inizio’ in Libia ma nel Mediterraneo al largo delle coste greche. Ufficialmente gli eventi bellici ebbero termine l’anno successivo, il 18 Ottobre 1912.

I Caduti italiani della guerra italo-turca  furono ufficialmente 3.380, i feriti circa 4.200 su un totale di 100.000 uomini, da parte turca i Caduti furono 14.000 e circa 5300 feriti su di un totale di 24.000 combattenti. A fianco dei turchi combatterono formazioni irregolari arabe facenti capo al ras senussita Omar al-Mukhtar, tali bande diedero parecchio filo da torcere alle nostre truppe anche dopo la fine del conflitto con la Turchia. Allo scoppio della Grande Guerra le guarnigioni italiane dovettero ritirarsi a seguito dell’ordine del giorno di Cadorna,che di fatto abbandonava la colonia al suo destino, nei presidi lungo la costa dove subirono per tutta la durata del conflitto bombardamenti dal mare da parte di sommergibili tedeschi che affondarono anche parecchi mercantili mandati a rifornire le guarnigioni e tenuti sotto scacco dalle bande arabe di  Omar al-Mukhtar. La pacificazione della Libia ad opera di Badoglio e Graziani si compi’ con l’esecuzione di Omar al-Mukhtar avvenuta il 15 settembre 1931. Ancora oggi negli incontri ufficiali Gheddafi espone con orgoglio appuntato alla tunica un ritratto del capo senussita giustiziato dagli italiani. Innumerevoli furono le atrocita’ commesse da ambo i contendenti, gli arabi si macchiarono di torture e massacri di massa perpetrati nei confronti di prigionieri e di feriti, gli italiani per ritorsione applicarono la legge del taglione,  deportazioni di massa (isole Tremiti) per finire nel ventennio con la creazione di grandi campi di concentramento ed esecuzioni capitali. Nel frattempo l’Italia costruiva nella colonia una linea ferroviaria, una rete viaria, acquedotti ed ospedali, la terra coltivata cominciava a dare i primi frutti. Italo Balbo governatore di Libia a differenza dei suoi predecessori preferi’ utilizzare il guanto di velluto nei confronti della popolazione locale, rispettando la religione musulmana e cercando di dare lavoro o di reclutare come combattenti nel nostro esercito la gioventu’ libica. Ma torniamo alla prima colonia, dopo la pace imposta da Menelik l’Italia per qualche decina d’anni spostò le sue mire coloniali verso la Libia. Dopo il 1929 le aspirazioni di Mussolini e anche certamente di Vittorio Emanuele III erano quelle di rifondere l’impero di Roma, non rimanevano in Africa che due stati indipendenti, la Liberia e l’Etiopia. Il resto dell’Africa era sotto il controllo di Inghilterra e Francia. Aile’ Selassie’ nel 1934 lasciò mano libera ai ras locali di attaccare i presidi italiani, l’intento era quello di costringere l’Italia gia’ umiliata da Adua a rivedere a proprio danno i confini con l’Etiopia. Gli atti di ostilità che portarono al conflitto furono gli incidenti di Gondar e di Ual Ual. Il 4 novembre 1934 il consolato italiano di Gondar fu attaccato da gruppi armati etiopici che causarono la morte di numerosi ascari eritrei e il 5 dicembre 1934 la postazione italiana di Ual Ual, presidiata da 200 militari, venne sottoposta all'attacco di 1.500 soldati abissini che causò 80 vittime tra i difensori italiani. Quest'ultimo episodio divenne il casus belli. Mussolini chiese delle scuse ufficiali e il pagamento di un'indennità per le famiglie degli uccisi da parte del governo etiope, conformemente a quanto stabilito nell'accordo del 1928. Il negus Selassie, avendone la possibilità in virtù del medesimo trattato, decise invece di rimettersi, tra le riserve italiane, alla Società delle nazioni. Ciò provocò la cosiddetta crisi abissina all'interno della Società delle Nazioni, che, per far luce sulla vicenda, si impegnò in un arbitrato tra le parti, temporeggiando. Tuttavia, i rapporti italo-etiopi erano irrimediabilmente compromessi e entrambi gli stati iniziarono a mobilitare le proprie truppe in previsione di un prossimo conflitto. Cominciò il solito tiro alla fune fra Italia e Gran Bretagna sul diritto della prima ad avere delle colonie, la Francia di Laval non aveva intanto preso una posizione netta, rimaneva poi sempre aperto il contenzioso sulla “vittoria mutilata” quando all’Italia che era uscita vincitrice dalla Grande Guerra non vennero adeguatamente ripagati i sacrifici sopportati nel corso del conflitto. Gran Bretagna e Francia che già avevano dato sfogo alle loro mire espansionistiche ed imperialistiche non ebbero la lungimiranza di comprendere le aspettaive italiane ed in breve si arrivò al conflitto italo-etiopico. Il regime del negus non era sicuramente da prendere come esempio di democrazia, mancavano totalmente le infrastrutture e la schiavitu’ era ancora una pratica accettata. Nonostante questo l’Inghilterra appoggiò le ragioni del Negus a danno dell’Italia aprendo quella stagione di ripicche e rivalse che fecero finire Mussolini e l’Italia nell’abbraccio mortale con Hitler. Il 3 ottobre 1935 100.000 soldati italiani ed un considerevole numero di Áscari, sotto il comando del maresciallo Emilio De Bono iniziarono ad avanzare dalle loro basi in Eritrea. Il 5 ottobre il genero del Negus, Hailè Sellasiè Gugsà, passò dalla parte degli italiani permettendo così all'esercito coloniale di avanzare in territorio abissino per molti chilometri, portando con se alcuni reparti e interrompendo l'unica linea telegrafica che collegava l'Eritrea ad Addis Abeba. Il 6 ottobre, tre corpi d'armata italiani occuparono Adua, cittadina presso la quale gli italiani avevano subito una cocente sconfitta nel 1896 durante la campagna d'Africa Orientale. Il 15 ottobre venne occupata Axum, la capitale religiosa dell'Etiopia. Una delle prime decisioni assunte da De Bono sul territorio abissino conquistato fu la liberazione degli schiavi e l'abolizione della schiavitù il 14 ottobre 1935. Dopo una lunga sosta, il 3 novembre, De Bono riprese la marcia verso Macallè con il 1° Corpo d'Armata del generale Ruggero Santini e il Corpo d'Armata Eritreo del generale Alessandro Pirzio Biroli, raggiungendo l'obiettivo sei giorni dopo. Contemporaneamente, all'inizio della campagna nel nord, un contingente comandato dal generale Rodolfo Graziani dalla Somalia Italiana sul fronte sud e, in una ventina di giorni, occupò i presidi etiopi di Dolo, Ualaddaie, Bur Dodi e Dagnarei, incontrando deboli resistenze. Il 28 novembre De Bono venne sostituito dal generale Pietro Badoglio, dato che Mussolini riteneva il vecchio quadrumviro troppo cauto nell'avanzata . Seguirono le battaglie del Tembien, di Passo Uarieu, dell'Endertà, dello Scirè, di Maychew, la conquista di Neghelli, l'occupazione di Harar e Dire Daua ed infine il 5 Maggio 1936 Badoglio entrava in Addis Abeba. Di fronte ad una situazione sempre più disperata, il 2 maggio Haile Selassie aveva già abbandonato la guida delle truppe etiopi e la capitale ed era scappato portando seco in esilio il tesoro della corona. Il 7 maggio l'Italia annetté ufficialmente l'Abissinia, e il 9 maggio, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciò la fine della guerra e proclamò la nascita dell'Impero , riservando per Vittorio Emanuele III la carica di Imperatore d'Etiopia e per entrambi quella di Primo Maresciallo dell'Impero. Eritrea, Abissinia e Somalia Italiana vennero riunite sotto un unico Governatore, e il nuovo possedimento coloniale venne denominato Africa Orientale Italiana. Il 4 luglio la Società delle Nazioni decretò terminata l'applicazione dell'articolo XVI e le sanzioni caddero il 15 dello stesso mese (l'unico stato che si oppose fu il Sudafrica, dove pure vigeva l'Apartheid contro la popolazione nera). Per un certo periodo in Etiopia si verificarono continui attacchi della guerriglia fedele all'Imperatore appena deposto, che venne duramente repressa anche con fucilazioni sommarie. L’Italia fu accusata di aver utilizzato l’iprite nel corso del conflitto, non ci sono prove certe di utilizzo massivo di tali armi anche se come nel caso della guerra italo-turca l’Italia aveva sempre applicato la legge del taglione e della repressione dura in caso di torture o sevizie in danno di militari italiani prigionieri. Il 26 dicembre la brutale uccisione del pilota Tito Minniti, che caduto in territorio nemico, era stato torturato, evirato e infine decapitato fu presa a pretesto per l'utilizzo dell'iprite; alcuni recenti studi riconducono in ultima analisi la responsabilità sull'uso di tali ordigni (vietati dalla convenzione di Ginevra del 1925) direttamente a Mussolini, che in diversi ordini telegrafati ai due comandanti al fronte ne avrebbe autorizzato l'uso in caso di estrema necessità. Lo storico Arrigo Petacco tuttavia riferisce che "L'iprite fu comunque utilizzata sia sul fronte sud che sul fronte nord, ma non su larga scala (Mussolini ne aveva autorizzato l'impiego solo in casi eccezionali per supreme ragioni di difesa)" . Ancora dibattuta rimane invece la questione sull'utilità di questi bombardamenti, che lo stesso Petacco riteneva usati "non con tale frequenza da poter sensibilmente mutare il corso della guerra". Le bombe all'iprite, di cui sono un esempio le C500T, dove T era l'abbreviazione di 'Temporizzata' (un meccanismo a spoletta le faceva esplodere in quota in modo che ne venisse aumentato il raggio d'azione), furono utilizzate in particolar modo sul fronte sud comandato da Graziani, nei pressi di Dolo. Le proteste internazionali non tardarono e Mussolini criticò l'operato di Graziani e proibì pubblicamente l'uso di aggressivi chimici. Ciò nonostante l'iprite fu utilizzata ancora sul fronte nord da Badoglio in almeno due occasioni. Il 30 dicembre 1935 in un bombardamento italiano a Malca Dida, eseguito secondo gli espliciti ordini di Graziani, venne colpito un ospedale da campo svedese con i contrassegni della Croce Rossa provocando la morte di 28 ricoverati e di un medico svedese. La notizia farà il giro del mondo. Pure i soldati abissini utilizzarono armi proibite, in modo particolare i proiettili esplosivi Dum-dum, anch'essi vietati dalla convenzione di Ginevra ,  che gli vennero forniti regolarmente dal Regno Unito e Svezia. Lo storico britannico James Strachey Barnes sostiene, come riferisce Arrigo Petacco, riguardo all'uso dell'iprite che gli italiani "lo fecero legalmente quando gli abissini violarono altre convenzioni: l'evirazione dei prigionieri, l'impiego delle pallottole esplosive e l'abuso del simbolo della Croce Rossa" . Per quanto riguarda la Guerra d'Etiopia, prendendo a riferimento il periodo fino alla fine del 1936  furono di 2.317 morti per l'esercito, 1.165 della milizia, 193 dell'aeronautica, 56 della marina, 78 civili nell'eccidio del cantiere Gondrand, 453 operai e 88 uomini della marina mercantile, per un totale di 4.350 morti; di questi circa  2.000 caduti in combattimento, gli altri per malattia. Inoltre circa 9.000 feriti e 18.200 rimpatriati per malattia . per quanto riguarda gli ascari le perdite sono stimate fra i 3.000 e 4.500 morti . Nel complesso, gli italiani persero più uomini per malattie e incidenti che non per la guerra. Ad esempio, per quanto riguarda l'aeronautica, se si considerano solo le perdite nel periodo della campagna, i morti scendono a 160: di questi solo 40 in combattimento e 44 in incidenti aerei; lo stesso vale per gli aerei: solo 8 velivoli furono abbattuti dagli abissini, mentre ben 65 furono perduti per incidenti o avarie. Le perdite etiopi non sono mai state conteggiate esattamente in quanto il Negus alla fine del conflitto aumento’ in maniera spropositata il numero dei caduti e dei danni subiti a causa della guerra al fine di ottenere dalla Società delle Nazioni un piu’ elevato risarcimento, un dato attendibile potrebbe essere vicino ai 250.000 morti ed a circa 500.000 feriti.

Dopo appena 4 anni dalla proclamazione dell’impero l’Italia e’ di nuovo in guerra, La campagna del Nord Africa, o guerra nel deserto, si combattè in Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco. L'Esercito italiano in Libia, poteva dusporre di 220.000 uomini, ma era impreparato ad una guerra moderna.  Nel settembre del 1940 varca il confine con l'Egitto, difeso da poco più di 40.000 soldati inglesi, con lo scopo di impossessarsi del canale di Suez. Dopo qualche successo iniziale (occupazione di Sidi el Barrani) nel dicembre dello stesso anno gli inglesi iniziarono la loro controffensiva che li portò ad occupare l'intera Cirenaica, cioè la metà orientale della Libia. Quando Mussolini chiese aiuto ad Hitler, la Germania inviò in soccorso alcuni reparti della Luftwaffe e l'Afrika Korps, formato da due divisioni al comando di Erwin Rommel, che sarebbe divenuto celebre con l'appellativo di "Volpe del deserto". Dopo una serie di offensive e controffensive in Libia e in Egitto, la decisiva battaglia di El Alamein costrinse le forze italo-tedesche ad abbandonare la Libia e ad attestarsi in Tunisia. Nel frattempo lo sbarco di forze americane ed inglesi in Africa nel 1942, determinarono l'anno successivo l'espulsione totale delle forze dell'Asse dal teatro africano.

All'inizio delle ostilità il comando superiore dell'Africa settentrionale era affidato al maresciallo dell'aria Italo Balbo. In Libia si trovavano due armate: la Quinta, comandata dal generale Italo Gariboldi, al confine con la Tunisia e composta da 8 divisioni, 500 pezzi d'artiglieria di medio calibro, 2.200 autocarri e 90 carri leggeri da 3 tonnellate; al confine egiziano c'era invece la Decima Armata del generale Berti, con 5 divisioni, 1.600 pezzi d'artiglieria, 1.000 autocarri e 184 carri leggeri. In totale 214.654 uomini (7.024 ufficiali, 207.630 sottufficiali e soldati), 3.200 autocarri, 2.100 pezzi d'artiglieria, 1.000 motociclette, 274 carri piccoli; inoltre la 5° squadra aerea, agli ordini del generale Porro, costituita da 315 aerei da guerra.

Piu’ dettagliatamente la cronistoria della guerra del deserto si puo’ così condensare:

Il 13 settembre 1940 le forze italiane di stanza in Libia, comandate da Rodolfo Graziani, lanciarono un' offensiva entrando in territorio egiziano dopo un violento bombardamento dell'artiglieria. Gli inglesi si ritirarono senza combattere e si asserragliarono nel campo trincerato di Marsa Matruh. Il 16 settembre, le truppe italiane entrarono a Sidi el Barrani. Durante questa operazione gli inglesi persero 50 uomini e gli italiani 120; gli inglesi ebbero però perdite anche tra i mezzi (11 autoblindo e 10 carri armati leggeri distrutti, 11 carri leggeri avariati, 4 autocarri distrutti, 12 danneggiati). Graziani ordinò di sospendere l'offensiva per costruire un acquedotto e altre strutture logistiche. Sebbene le forze inglesi potessero contare solo su 30.000 soldati, queste erano meglio equipaggiate, e, il 9 dicembre 1940 lanciarono una controffensiva (operazione Compass) che portò entro il mese di gennaio del 1941 all'occupazione della Cirenaica fino ad El Agheila, dopo la sconfitta italiana nella battaglia di Beda Fomm e la cattura di migliaia di prigionieri di guerra. Come rinforzo, Adolf Hitler inviò in Libia il Deutsches Afrikakorps al comando di Erwin Rommel. Sebbene gli ordini iniziali di Rommel fossero quelli di mantenere la linea e di salvare Tripoli, lui colse l'occasione favorevole lanciando un'offensiva che costrinse gli inglesi ad abbandonare El Agheila e a perdere Bengasi. In aprile Rommel era in possesso di tutta la Cirenaica, e, di fatto avevo respinto gli inglesi alle loro posizioni iniziali. Rinforzata con unità provenienti dall'Australia, dall'India, dal Sudafrica, dalla Nuova Zelanda e con le forze della Francia Libera al comando di Pierre Koenig, l'8ª Armata inglese al comando di Auchinleck attaccò nel novembre 1941 (Operazione Crusader) costringendo i tedeschi, privi di rifornimenti, a ritirarsi fino alla linea difensiva di Marsa El Brega. Dopo aver ricevuto i sospirati rifornimenti, Rommel attaccò nuovamente: sconfitti gli Alleati a Gazala e catturata Tobruk, oltrepassò la frontiera libico - egiziana ma venne fermato in quella che è ricordata come la prima battaglia di El Alamein. In una situazione ormai disperata venne nominato comandante generale delle forze in Nord Africa, Bernard Montgomery, il quale, dopo aver sconfitto le forze italo - tedesche ad Alam Halfa e nella seconda battaglia di El Alamein, iniziò a respingere le forze dell'Asse, fino ad occupare l'intera Libia fino a Tripoli. Nel tentativo di prevenire le forze tedesche, gli Americani sbarcarono nel Nord Africa occupato dalle forze francesi di Vichy, trovandovi una flebile resistenza. Tuttavia, gli Alleati trovarono alcune difficoltà con le forze dislocate ad Orano e in Marocco, ma non ad Algeri, dove il putsch dell'8 novembre, era riuscito a neutralizzare il XIX Corpo d'armata francese, prima degli sbarchi e che si era concluso con l'arresto dei generali francesi collaborazionisti. Tre giorni dopo il generale Clark, assistente di Eisenhower, riuscì ad ottenere la resa dell'Ammigraglio François Darlan, e ogni resistenza ad Orano e in Marocco cessò tra il 10 e l'11 novembre. Circondato dalle forze Americane e del Commonwealth, Rommel si impegnò in una serie di operazioni difensive, la più importante e famosa delle quali fu la battaglia del Passo di Kasserine, che portarono la guerra ad una situazione di stallo, con le forze Alleate incapaci di prevenire ed arrestare gli attacchi tedeschi. Tuttavia la mancanza di uomini, di mezzi e soprattutto di rifornimenti avevano segnato la sorte delle forze in Tunisia. Dopo aver sfondato le posizioni italo - tedesche sulla linea del Mareth con l'operazione Pugilist e la successiva operazione Vulcano, gli Alleati posero fine alla resistenza delle forze dell'Asse in Africa facendo migliaia di prigionieri. Dal 10 Giugno 1940 al 16 Maggio 1943  le perdite italiane ammontarono a 22.341 morti e dispersi . La storiografia ufficiale ha per anni esaltato le virtù militari di Rommel e dell’esercito tedesco, vale la pena di ricordare come gli italiani pur sprovvisti di rifornimenti, mezzi, ordini precisi da parte dello stato maggiore italiano, spesso dislocato a centinaia di chilometri dal fronte non abbiano mai sfigurato nei confronti dell’ingombrante alleato, specie nell’ultima parte del conflitto Rommel ed i tedeschi sacrificarono senza tante remore interi reparti italiani, lasciandoli a bellaposta in retroguardia a protezione della ritirata di uomini e mezzi tedeschi. In molti casi gli italiani vennero lasciati senza acqua e cibo, i pochi mezzi in loro possesso compresi quelli catturati agli alleati vennero sequestrati dall’ Africa Korps. Illuminanti sono i libri di Paolo Caccia Dominioni sull’argomento, specie Tafkir dove giorno per giorno viene narrata l’epopea della Folgore e di quanti abbandonati dalla madre patria preferirono combattere piuttosto che arrendersi agli alleati. I nostri mezzi corazzati definiti dagli stessi equipaggi “scatole di sardine” si lanciarono nell’impari lotta contro mezzi enormemente più solidi e performanti con l’unica sicurezza di essere annientati .I pochi superstiti dei reparti corazzati italiani che riuscirono a ritirarsi in Tunisia una volta fatti prigionieri subirono ogni sorta di angherie dalle truppe marocchine che combattevano nelle file dei degollisti. Nel diario di uno dei pochi capoequipaggio scampati al massacro della divisione Ariete si denuncia il caso di giovani brutalmente sodomizzati dalle truppe indigene senza che nessun ufficiale intervenisse a fermarli. Altri reduci di El Alamein finirono in fondo al mare vittima dei siluri di sommergibili tedeschi e della vilta’ degli alleati come nel caso del Laconia, altri prigionieri italiani morirono nei campi di prigionia del Sud Africa, spesso vittima di malattie, a volte per la crudelta’ dei carcerieri. Per i P.O.W. che non volevano collaborare c’erano i campi di prigionia speciali, i criminal camp dove autentici aguzzini si prendevano cura dei nostri militari, lasciati per punizione giorni interi con pochissima acqua in buche ad arrostirsi al sole d’Africa. E’ imprecisato il numero dei morti nei campi di prigionia in India ed Australia, la Croce Rossa fu spesso ostacolata nell’opera di controllo sulle condizioni dei prigionieri e spesso la distanza impediva o scoraggiava l’intervento delle comissioni. La filmografia e la cultura post bellica ha sempre ignorato la sorte di tanti nostri connazionali lasciati morire senza pieta’ nelle marce di trasferimento dal fronte ai campi di raccolta dei prigionieri, chi si fermava perché ferito o semplicemente debilitato veniva finito o peggio lasciato solo a morire dopo una lunga agonia. La storia è scritta dai vincitori ma è compito dei vinti di ricordare chi combattendo sicuramente per una causa sbagliata ha comunque fatto il proprio dovere fino alle estreme conseguenze. Una battuta di un comico americano ha preso di mira i soldati italiani piu’ o meno recita così : “ il libro piu’ piccolo al mondo e’ quello che narra degli atti di valore degli italiani.” Il Sacrario di El Alamein da solo puo’ smentirlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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16 Agosto 2008 / v06
 

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