FRANCESCO BRUNACCI
n. 1882 Ascoli Piceno (Marche)
m. 1914 nel deserto del Fezzan
(Libia)
UNA TRAGEDIA DIMENTICATA
MACERATA, 2 febbraio 1914
I
ritornare. Non ne aveva parlato con
la famiglia, ma contava di farsi coraggio e di farlo la
prossima volta. Ora desiderava
soltanto ritornare al più presto in Libia.
Il 2 febbraio 1914 Francesco tornò in
Libia.
LIBIA, 2 settembre 1914
Da quando Francesco era partito per
la sua missione nel deserto del Fezzan, Amina andava
tutti i giorni prima nella sua casa,
dove riordinava e puliva, poi nel suo ufficio, dove faceva
altrettanto e dove sperava di
ricevere la buona notizia del suo ritorno.
Di solito tutti gli sorridevano e la
salutavano con rispetto, ma quel giorno vi era un’aria
strana. Sembrava quasi che tutti la
evitassero.
Il padre, seduto davanti alla sua
capanna, la vide arrivare a passi lenti, spenta negli occhi.
La vide accovacciarsi vicino a lui,
prendere tra le braccia le proprie ginocchia e dondolarsi.
Poi, quasi risvegliandosi
d’improvviso, Amina lo guardò fisso negli occhi.
“Tu lo sapevi!”, gli disse.
Il padre distolse da lei gli occhi e
non rispose. Certo, sapeva che … sarebbe accaduto!
ITALIA
Il fratello Bruno, professore
all’Università La Sapienza di Roma, ricevette per primo la
terribile notizia.
Furono avvertiti Pietro che si
trovava a Torino, l’avv. Ignazio che si trovava a Civitanova
Alta e la sorella Pia Rosa che si
trovava a Perugia. (Il loro padre, Cesare era morto nel
1909, mentre la loro madre Bocci
Giovanna lo aveva preceduto nel 1897.)
Tutti si precipitarono a Roma dove
furono loro consegnati pochi ricordi: delle lettere e delle
foto.
Il corpo di Francesco non fu più
ritrovato.
LE FOTO
Le foto di Francesco, scattate in
Libia, fortunatamente si sono salvate ed oggi sono in
possesso di Lina (figlia della
sorella Pia), che risiede a Perugia.
GLI ARTICOLI
La notizia della morte di Francesco
fu pubblicata in Italia il 4 ottobre e ricordata anche il
14 successivo.
ILLUSTRAZIONE ITALIANA
4 ottobre 1914
IN LIBIA
Una carovana italiana sorpresa nel
Fezzan.
Due ufficiali uccisi. Attraverso le
ingombranti notizie della grande guerra europea, arrivano, ad intervalli,
brevi telegrammi recanti notizie
della guerriglia che continua in Libia, specialmente nel
settore Cirenaico, sopra Bengasi,
contro i ribelli ostinati.
Sono piccoli scontri nei quali le
truppe italiane, in formazioni miste di bianchi e di
indigeni, hanno sempre e facilmente
il sopravvento.
Un episodio impreveduto e spiacevole,
però, è accaduto nel Fezzan, la cui occupazione si
compì tanto pacificamente. Una
carovana diretta a Brack, con due ufficiali di artiglieria, il
tenente De Virgiliis ed il tenente
Brunacci, tre soldati bianchi e nove ascari indigeni,
doveva portare alla colonna Miani
grande quantità di viveri e 300 mila lire italiane in
oro.
La carovana trovò fino dall'inizio
non poche difficoltà. A Bungeim i cammelli
scarseggiavano ed i pochi cammellieri
che si trovavano in quella località esitavano ad
ingaggiarsi. Finalmente dopo quindici
giorni di preparaziane, la carovana potè costituirsi.
Il De Virgiliis nell'ultima lettera
inviata alla famiglia in data 25 agosto annunciava da
Gherat che sarebbe partito il giorno
dopo.
Il 2 settembre la carovana fu
assalita e tutta la scorta uccisa da predoni beduini, i quali
dovevano avere avuto sentore del suo
imminente passaggio ed erano stati spinti ad
aggredirli dalla prospettiva di
grosso bottino.
Infatti il tenente Brunacci aveva
scritto in data 29 agosto a suo fratello in Italia,
esprimendo preoccupazione sulla poca
sicurezza della strada da percorrere, e sul dubbio
che i predoni fossero informati della
grossa somma che la carovana avrebbe avuto seco.
Il tenente Alfredo De Virgiliis, che
comandava la scorta, era nato a Napoli nel gennaio del
1884, Dopo avere compiuto gli studi
nell'Istituto tecnico di Napoli, passò all'Accademia
militare di Torino e ne uscì fra i
primi col grado di tenente di artiglieria.
Si trovava in viaggio per un porto
della costa calabra lungo lo stretto di Messina il giorno
del terremoto che distrusse Messina e
Reggio e subito imbarcatosi sopra una torpediniera,
si recò a Messina ove fu tra i più
zelanti ed intelligenti nell'opera di salvataggio. Per la sua
intelligenza e per la sua speciale
cultura fu poi assegnato alla. formazione delle nuove
battene di mortai, che si andavano
costituendo a Casal Monferrato. Di là venne trasferito
al poligono di Nettuno, destinazione
assegnata ai migliori ufficiali di artiglieria. Anche a
Nettuno il De Virgiliis si fece molto
onore. Aveva presentata quattro volte la domanda per
essere trasferito in Libia ma solo
ultimamente era riuscito a raggiungere il suo intento.
Coetaneo del De Virgiliis era il
tenente Francesco Brunacci, nativo di Potenza Picena
nelle Marche. Fece parte nel novembre
1911 della prima spedizione a Tripoli, e si distinse
in tutti i successivi combattimenti.
Tornato in Italia dopo la pace di Losanna, fu preso
dalla nostalgia della vita di
campagna, ed ottenne di ritornare in Libia il 2 febbraio
scorso.
ILLUSTRAZIONE ITALIANA
14 ottobre 1914
IN LIBIA
Il tenente Brunacci.
Nuove ferrovie inaugurate.
La morte di Negib Effendi
Narrammo gli ultimi avvenimenti
guerreschi di Libia, nello scorso numero. Diamo in
questo il ritratto (foto) del tenente
di artiglieria Brunacci caduto col tenente De Virgiliis,
nella sorpresa della carovana di
rifornimento diretta al Fezzan: di questo deplorevole fatto
e della vita dei due valorosi
ufficiali dicemmo nel numero scorso.
Il 20 settembre - festa nazionale
italiana - fu inaugurato il primo tronco Bengasi-Benina
della linea ferroviaria Bengasi-Derna,
i cui lavori di tracciamento e la cui costruzione
furono diretti dall'ing. Vincenzo De
Donato, ispettore delle ferrovie dello Stato. Il progetto
di prolungamento di questo tronco -
alla cui festa inaugurale sono dedicate alcune
fotografie pervenuteci da Bengasi - è
stato ideato dall'ingegnere ferroviario Forziati.
Il 1° ottobre poi, nel settore
tripolino, venne inaugurato con solennità il tronco ferroviario
EI Maja-Zavia, lungo 17 chilometri e
costruito in pochi giorni sotto la direzione dall'ing.
De Orchi, capo dell’ufficio delle
costruzioni ferroviarie in Libia.
Da Zavia la ferrovia proseguirà per
Zuara, fino a congiungersi con le ferrovie tunisine,
attraversando due volte l'oasi di
Zavia, e proseguendo per Surman e Marsa Sabbad, e di
qui per Zuara.
L'esercizio della nuova linea ha
grande importanza politico-commerciale, perchè
congiunge Tripoli con uno dei
principali centri agricoli della Tripolitania occidentale.
Ciò spiega il grande entusiasmo col
quale venne accolto da centinaia di arabi abitanti
nell'Oasi Zavia il treno inaugurale
imbandierato, che era partito da Tripoli alle ore 7,
recante il governatore generale
Cigliana, col segretario generale Conti Rossini, i generali
Del Mastro e Amari ed altre autorità
militari: oltre l'ingegnere Nicotra, direttore delle
Ferrovie libiche e un gruppo di
notabili tra cui Hassuna Pacha, Muktar Bey e Coobar,
Caimacan del Garian.
All'arrivo alla stazione di Zavia
alle ore 10, lo sceicco lesse ad alta voce parole augurali,
terminando col grido di Viva
l'Italia, Viva Vittorio Emanuele III. AI grido fecero eco un
coro di centinaia di arabi esultanti.
Si svolse quindi una animata, pittoresca fantasia di
capi arabi a cavallo.
Concordi e precise informazioni da
Bengasi dicono accertata la morte di Negib Effendi,
ufficiale turco ostilissimo
agl'italiani.
Egli, sotto gli ordini di Aziz Bey,
tenne già il comando nel settore bengasino di Koebia.
Passato poi alle dipendenze del
Senusso, fu al campo di Defna, donde da qualche mese era
tornato sul territorio italiano
capeggiandovi i ribelli durante il raid della colonna Cantore.
Negib Effendi cadde, ferito alla
testa e all'addome, in uno scontro avvenuto il giorno 9
settembre presso Mbreigat (regione di
EI Abiar), fra le sue genti e tre compagnie del
battaglione Billia (15.° eritreo).
Quaranta ribelli furono uccisi. Negib
fu portato in salvo presso Msus dove morì e dove fu
sepolto con solennità il giorno 14.
ANTEFATTO
1911: l’Italia in Libia
di Sergio Romano
Corriere della Sera 19 marzo 2008
La guerra dell’Italia per la
conquista della Libia non piacque ai tedeschi.
La Germania stava diventando il
protettore internazionale della Turchia dove le sue
aziende avevano conquistato posizioni
importanti.
I suoi generali addestravano
l’esercito turco. Il governo del Reich progettava la
costruzione di una grande ferrovia da
Berlino a Bagdad. Ed ecco che l’alleato italiano rischiava
di rendere ancora più
traballante, con le sue ambizioni mediterranee, il
pericolante edificio dell’Impero
Ottomano.
La stampa tedesca pubblicò articoli
in cui si leggeva, tra l’altro, che la popolazione araba
non avrebbe mai accettato dagli
italiani ciò che era disposta ad accettare da altri popoli,
più progrediti ed evoluti.
Il Keiser Guglielmo II parlò
privatamente di rapina e ironizzò sprezzatamente su un Paese
che andava a cercare le colonie
altrove, quando le aveva in casa propria. Il socialista
Kautsky scrisse sulla Neue Zeit che
la politica italiana era banditesca.
Ma la diplomazia italiana (il
ministro degli Esteri era Antonino di San Giuliano) riuscì a
neutralizzare le resistenze tedesche
ottenendo anzitutto l’accordo della Francia e della
Gran Bretagna.
Germania e Austria capirono allora
che non potevano negare al loro alleato ciò che
l’Italia aveva già ottenuto a Parigi
e a Londra.
I due imperi centrali attribuivano
molta importanza alla coesione della Triplice e si
chiusero in una sorta di imbronciato
silenzio.
Quando l’ambasciatore di Germania
chiese al ministro degli Esteri italiano che cosa
l’Europa avrebbe detto
dell’occupazione della Tripolitania, San Giuliano rispose
ironicamente: “Dirà che è una
bruttissima cosa, dirà cioè quello che ha detto quando noi
abbiamo fatto la nostra unità e voi
la vostra.”
San Giuliano aveva ragione. Nel giro
di qualche mese la bolla dell’indignazione cominciò
a sgonfiarsi. Quando Vittorio
Emanuele III e l’imperatore Guglielmo II s’incontrarono a
Venezia, nel marzo del 1912, la
conversazione fu fredda all’inizio, cordiale alla fine.
Guglielmo II esortò Vittorio Emanuele
a costruire una grande flotta per meglio tenere a
bada la Francia nel Mediterraneo. E
il Re gli rispose che l’Italia stava già provvedendo. E
aggiunse che “voleva vedere finita la
guerra al più presto possibile per poter ritirare il suo
esercito dall’Africa, lasciandovi
solo le guarnigioni necessarie, e per aver riunita tutta la
sua forza militare in territorio
europeo onde adempire ai suoi obblighi di alleato”.
Guglielmo apprezzò l’impegno e
promise che avrebbe parlato agli austriaci perché
adottassero un atteggiamento più
comprensivo verso l’Italia.
Ma le preoccupazioni della Germania,
pur essendo motivate da considerazioni
strettamente tedesche, non erano
infondate.
La guerra italo-turca per la
conquista della Tripolitania e della Cirenaica ebbe l’effetto di
scatenare contro la Turchia le
ambizioni degli Stati balcanici.
Scoppiarono due guerre, nel 1912 e
nel 1913, che resero ancora più debole e vacillante il
vecchio Impero Ottomano.
Qualche storico, parecchi anni dopo,
sostenne addirittura, con una evidente forzatura, che
la prima causa della Grande guerra fu
l’invasione italiana della Tripolitania e della
Cirenaica nel settembre 1911.
LA COLONNA MIANI
LA GUERRIGLIA IN LIBIA OCCUPAZIONE
DEL GHARIAN, DI TARHUNA E
DI BENI ULID COMBATTIMENTO DI ASSABA
- OCCUPAZIONE DI
GHADAMES, BUNGEIM, MISDA E SOKNA - LA
COLONNA MIAMI E
L'OCCUPAZIONE DEL FEZZAN -
COMBATTIMENTO DI SCEB, ESCHIDA E
MAHARUGA - MURZUK
Mentre si combatteva la guerra
balcanica, durava ancora, nonostante la pace di
Losanna, quella libica. Da parte
della Turchia una vera e propria cessione formale
della Libia all'Italia non era mai
stata fatta, solo la rinuncia ad amministrarla e ad
occuparla militarmente, anche se
continuerà a mantenere alcuni presidi in Cirenaica
e Tripolitania; e per rivalsa
l'Italia non restituirà le isole del Dodecanneso e Rodi, e
continuerà ad occuparle.
Dobbiamo inoltre aggiungere che la
popolazione araba sia in Tripolitania sia in
Cirenaica, non diedero per nulla il
benvenuto alle truppe italiane che le avevano liberate
dai turchi. Creando non poche
difficoltà al governo italiano, costretto a
mantenere un contingente di 50.000
uomini nella regione, che in pratica era poi solo
Tripoli e alcune città costiere,
quasi nulla all'interno. Le spese militari che
annualmente erano dal 1900 in poi
costanti, annualmente di circa 250-300 milioni di
lire, questi dodici mesi di guerra in
Libia costarono 1 miliardo e 300 milioni, oltre
diverse migliaia di vite umane
Ufficiali turchi, come abbiamo detto,
erano rimasti in Tripolitania e in Cirenaica, altri
vi tornarono, altri ancora vi furono
inviati per organizzare e guidare la resistenza
degli indigeni, i quali trovarono
anche capi in avventurieri della propria razza e del
proprio paese, tra cui acquistò grido
e grandissima autorità SULEIMAN EL
BARHUNI.
Continuarono pertanto gli attacchi
alle difese italiane nelle zone costiere, continuò il
contrabbando delle frontiere della
Tunisia e dell'Egitto, continuarono le molestie da
parte dei ribelli alle popolazioni
che si erano all'Italia sottomesse e fu necessario
organizzare colonne volanti di
soldati metropolitani e di colore, e mandarle ad
attaccare gli accampamenti dei
nemici, a sorprendere i loro concentramenti, a
catturare o a disperdere le loro
carovane.
Non essendo sufficienti queste
operazioni per debellare il nemico, si pensò di occupare
stabilmente alcuni punti
dell'interno. I primi balzi in avanti portarono all'occupazione
del Gharian, di Tarhuna e Beni Ulid;
il 23 marzo del 1913 il generale LEQUIO
sconfisse ad Assaba, in un memorabile
combattimento, i berberi condotti da Suleiman
El Barhuni; quindi sottomise tutto il
Gebel, spingendosi a Jefren, a Giado e a Nalut;
sul finire dell'aprile il capitano
PAVONI, alla testa di 500 ascari libici, occupò la
lontana oasi di Ghadames.
Dopo queste fortunate operazioni,
sembrò giunto il tempo di occupare il Fezzan.
Mentre si preparava la spedizione,
che doveva esser comandata dal colonnello
MIANI, si precedette ad alcune
operazioni preliminari: il 19 giugno del 1913 il
capitano NEGRI, proveniente da Beni
Ulid, occupò Bungeim; il 5 luglio una colonna
partita dal Gharian occupò Mioda; il
22 luglio il capitano HERCOLANI GADDI
proveniente da Sirte occupò Sokna,
stabilita come punto di concentramento e di
costituzione della colonna operante.
Il 10 agosto, la colonna Miani - 1
compagnia di ascari eritrei, 1 sezione mitragliatrici,
3 compagnie di ascari libici, 1
batteria da montagna cammellata su 4 pezzi, 1 reparto
del genio, 1 sezione di sanità, 1
convoglio di viveri, acqua e materiali del servizio genio
e sanitario e 1700 cammelli da soma e
da sella- partì da Sirte e dopo 16 giorni, il 26
agosto, giunse a Sokna.
Compiuta la preparazione logistica e
politica, il colonnello Miani con 1 battaglione
eritreo, tre compagnie libiche, dieci
pezzi da montagna, 1 sezione mitragliatrici, tutti i
servizi accessori e un convoglio di
2000 cammelli lasciò Sokna il 4 dicembre. I1 10
sconfisse a Sceb un piccolo corpo
nemico; il 13, dopo vivacissimo combattimento, mise
in fuga una grossa colonna nemica che
a Eschida gli sbarrava il passo; alcune ore più
tardi occupò Brak e il 15 ricevette
la sottomissione dei capi dei Mugarha e degli
Hassaùna.
Il 23 dicembre, lasciato a presidio
di Brak il capitano ROSSI con una compagnia
libica e una sezione mitragliatrici,
il colonnello MIANI, alla testa di 775 armati con 12
pezzi e mitragliatrici, mosse su
Agar, dove passò la notte e il giorno dopo marciò su
Maharuga. Prima di giungere in questa
località la colonna incontrò il nemico, forte di
circa 3000 uomini, che comandati da
MOHAMMED ben ABDALLAH, assalì gli italiani
durante la marcia, cercando di trarre
tutto il profitto che poteva dal terreno a
lui favorevole.
Un aspro combattimento fu ingaggiato,
che, iniziato alle 9.30, durò fino alle 13. La
colonna Miani, fornendo prova di
valore, di spirito aggressivo e di mobilità, mandò a
vuoto due pericolosi tentativi di
avvolgimento del nemico, resistette superbamente con
alcune compagnie al soverchiante
numero dei beduini, quindi con un vigorosissimo
contrattacco sgominò e mise in fuga i
nemici, che persero una bandiera verde,
abbandonarono i carichi dei loro
cammelli ed ebbero 300 uomini uccisi, tra cui
numerosi capi e lo stesso Mohammed
ben Abdallah, e moltissimi feriti.
Le perdite italiane furono: il
capitano degli ascari eritrei DE DOMINICIS morto; il
capitano SEVERINI e i tenenti TERUZZI,
FRACCHIA, CARRARA e MINELLA
feriti; un sottufficiale italiano
ferito; 18 ascari eritrei e 3 libici morti; 63 ascari eritrei e
12 libici feriti. In totale 103 tra
morti e feriti.
Si distinsero nella battaglia il
maggiore SUAREZ che con un vigoroso contrattacco
impedì che il nemico avvolgesse il
battaglione eritreo; le batterie Locurcio e Mondini;
le compagnie libiche e sopra tutti
gli ascari eritrei.
Alle ore 17 la colonna Miani giungeva
a Maharuga e la notte stessa cominciavano a
giungere offerte di sottomissione da
parte dei capi dello Sciati occidentale, offerte che
continuarono nei giorni seguenti. Il
21 dicembre i capi sottomessi furono riuniti a
Maharuga e il 1° gennaio del 1914
avvenne con grande solennità la cerimonia della
sottomissione.
Nel corso del gennaio MIANI ricevette
la sottomissione dei capi di Murzuk, degli
"uidian" Scerghi e Garbi e dell'Hofra
e il 16 febbraio, con una colonna di mezzo
migliaio di armati, mosse da Brak su
Sebha, dove giunse il giorno dopo e fu raggiunto
dalla compagnia benadiriana del
capitano CORTICELLI, distaccata fino allora a Bir
Mogalte. Il 26 febbraio, lasciati a
Sebha cento uomini, il colonnello Miani partì per
Murzuk e vi giunse il 4 marzo fra
l'accoglienza entusiastica della popolazione.
"Con quest'ultima pacifica operazione
- scrive Corrado Zoli - l'occupazione del Fezzan
era un fatto compiuto. Il colonnello
commissario ne aveva curato da allora
l'ordinamento e l'organizzazione nel
nobile intento di consolidare quel dominio, che la
sua energia e la meritata fortuna
delle sue armi avevano conquistato al Governo
d'Italia".
Ma proprio al governo d'Italia ora
dobbiamo ritornare con molti avvenimenti sia
politici che sociali.
Mentre l'incendio cresceva di
proporzioni, moriva, il 20 agosto, PIO X, dopo undici
anni di pontificato. Il 31 si riuniva
il Conclave, presenti 57 cardinali, e il 3 settembre
veniva eletto Pontefice il cardinale
GIACOMO DELLA CHIESA, arcivescovo di
Bologna, che prendeva il nome di
BENEDETTO XV.
L'8 settembre il nuovo Pontefice, nel
suo primo concistoro, pronunciava parole di
pace; ma intanto la guerra infuriava
e traeva nel suo vortice altre nazioni. Due giorni
dopo del concistoro, la Turchia
avvertiva le potenze che col 1° ottobre avrebbe
soppresso le "Capitolazioni"; il 27
settembre (timorosa di una espansione russa,
chiudeva con i Dardanelli le
comunicazioni tra la Russia e i suoi alleati) e il 13
novembre entrava in lizza a fianco
degli Imperi centrali e proclamava la "Guerra
santa".Questa naturalmente non poteva
non avere serie ripercussioni nella Libia, dove i
Sentissi, d'accordo con la Porta,
brigavano ai danni dell'Italia occupante e la
guerriglia ricominciava con colpi di
mano contro tribù già sottomesse e attacchi alle
carovane che rifornivano i presidi
italiani. Il commissario del Fezzan, colonnello
MIANI, che invano aveva chiesto
rinforzi, ricevuto l'ordine di raccogliere tutte le
forze della regione a Brak, dava le
dimissioni; furono sgombrate Nufiliah e Marsa
Lurgia nella Sirtica, Semeref e
Gheriat, Ghadames e Sinanen; Nalut fu assalita dai
ribelli, il 15 dicembre liberata
dalle truppe del colonnello ROVERSI, ma Sebha fu
persa e da quel momento tutto lo
Sciati occidentale entrò in rivolta.
Caduta Sebha, sede del commissariato,
fu affrettato il ripiegamento di tutti i presidi
del Fezzan. Quello di Murzuk il 12
dicembre giunse a Sokna, dove pervenne il 22
anche il colonnello VIANI con 35
ufficiali, 12 sottufficiali, 35 metropolitani, 700
eritrei, quattrocento meharisti, per
ripartire il 26 diretto a Misurata e a Tripoli; il
presidio di Ubari, attaccato da forze
infinitamente superiori, resisté a lungo, ma non
riuscì a salvarsi; quello di Ghat,
invece, messosi in marcia a metà dicembre, poté,
dopo una lunga marcia attraverso il
territorio francese, raggiungere e mettersi in
salvo sulla costa.
Abbiamo già parlato in un altro
capitolo di questa storia dello sgombro del Fezzan;
narreremo ora gli avvenimenti della
Tripolitania durante tutto il 1915, anno in cui
impegnata la guerra contro l'Austria
non permise all'Italia di occuparsi molto della
colonia libica e, in Tripolitania non
solo non inviò più uomini, ma ridusse
l'occupazione all'oasi di Tripoli e a
qualche altro punto della costa. Questo permise ai
Turchi di riprendere l'iniziativa,
fino al punto critico che l'Italia fu costretta a
dichiarare guerra anche alla Turchia.
RIPIEGAMENTO DEI PRESIDII DALLE OASI
SIRTICHE
Già il 15 gennaio del 1915, uno dei
figli di Ser-en-Nassen, fiduciario dell'Italia nella
Sirtica, unitosi ad altri capi della
regione, attaccava il presidio italiano di Raddum, il
quale fu colto alla sprovvista, e una
buona parte libici, che erano nel presidio con loro,
passava nelle file dei ribelli,
riparando nei dintorni di Sodna e a Hon. Allora fu
stabilito lo sgombro di Socna, che
avvenne il 27 gennaio, dopo alcune brillanti
ricognizioni offensive eseguite verso
i centri di raccolta dei ribelli per intimidirli.
L'8 febbraio, un migliaio di ribelli
assalì presso Bungen una colonna italiana di
cammelli scortata da 300 armati, ma
il nemico fu respinto e messo in fuga. Tre giorni
dopo, la colonna Gianninazzi, col
presidio di Bangen (35 ufficiali, 114 bianchi, 1400
libici ed eritrei), incendiato il
paese e distrutto il materiale che non poteva esser
trasportato, si ritirava su Beni Ulid.
Quel giorno stesso, un forte nucleo di ribelli, che
aveva assalito Taorga, ma n'era stato
respinto da due compagnie del 6° fanteria, era
attaccato e sconfitto dal maggiore
MAUSSIER a CADURIAN.
Iniziavano intanto le operazioni per
la rioccupazione di Ghadames, affidata al
capitano VOGLINO, il quale vi si
diresse con la banda di Fossato, giungendovi il 17
febbraio dopo aver sostenuto aspri
combattimenti con forze nemiche superiori alle
sue.
Il 18 febbraio giungeva a Ghadames la
colonna GIANNINI; partita da Ghat fin dal 2
dicembre per dare aiuto alle colonne
Voglino, Giannini muoveva da Nalut col 5° libico
il colonnello NIGRA, che entrava a
Ghadames il 6 marzo.
Nonostante queste energiche
operazioni, la ribellione divampava, e dal Fezzan e dalle
oasi sirtiche colonne di ribelli,
forti di molte migliaia di fucili, avanzavano verso il sud misuratino,
il Gebel e la Sirte, razziando,
inducendo alla rivolta le popolazioni rimaste
fedeli all'Italia e assalendo, dopo
averli isolati i presidi italiani più deboli e lontani.
Per fronteggiare questa situazione il
nuovo governatore, generale TASSONI, stabilì di
mantenere i presidi ancora occupati,
rafforzarli con opere di difesa e far eseguire dalle
loro truppe frequenti ed opportune
escursioni nelle zone circostanti; stabilì inoltre di
costituire colonne mobili che
mantenessero aperte e sicure le vie di comunicazione tra
i vari presidi e operassero
offensivamente contro i ribelli nei loro centri di raccolta.
Furono pertanto, oltre le colonne
NIGRA e MAUSSIER che operavano, la prima nel
Gebel occidentale, la seconda nella
Sirte, costituite la colonna GIANNINAZZI (1°
battaglione libico, due sezioni
d'artiglieria, e bande, totale 1500 uomini a piedi, 100
montati e 4 pezzi da montagna) che
doveva operare nel Gharian; le colonne ROSSO e
FINELLI, di 1500 uomini ciascuna,
libici la prima, bianchi la seconda, che
opererebbero nella regione degli
Orfella, e infine la colonna MIANI, con base a
Misurata, forte di un battaglione
libico, una di bersaglieri, una batterla di volontari
italiani, uno squadrone di savari e
le bande di Kassabet e Gefara, di Homs, Sliten e
Misurata: in totale 4500 uomini.
Nell'aprile del 1915, la colonna
GIANNINAZZI, sorpresa da numerose forze ribelli, fu
costretta con gravi perdite e col
comandante ferito a ripiegare frettolosamente su
Misda. In quei giorni il colonnello
MIANI coadiuvato dalle colonne mobili ROSSO e
FINELLI, effettuava operazioni di
polizia nelle zone degli Orfella e del Misuratino. A
conoscenza che a Casr-Bu-Hadi si
concentravano numerosi ribelli, si mise in marcia
verso quella località.
Dal 10 al 23 aprile fece sosta a
Tarrah dal 24 al 25 a Bu-Ratma e il 26 giunse a Sirte.
La mattina del 28 il colonnello MIANI
uscì da Sirte e, passata la notte ai pozzi di BuHanef,
puntò su Casr Bu-Hadi. L'ordine
di marcia era il seguente: d'avanguardia,
sulla medesima linea, lo squadrone
Savari, i meaharisti, e metà dei cavalieri delle
bande; quindi il grosso su tre
colonne, quella di sinistra formata dalla banda di Sliten,
dal 15° eritreo, dalla batteria
cammellata e dalla 2a compagnia del 57° fanteria, quella
di destra dalle bande di Tarhuna e di
Misurata, dal 13° libico, dalla batteria dei
volontari italiani e dal battaglione
bersaglieri, quella del centro dalle bande di
Msellata, Gefara ed Homs, seguita
dalla colonna munizioni, dalla colonna viveri, e
dalle salmerie dei reparti e delle
bande; di retroguardia la 3a compagnia del IV
battaglione libico. Il resto dei
cavalieri delle bande fiancheggiavano a distanza la
colonna.
Questa alle 10 aprì il fuoco
dell'artiglieria contro il nemico, costringendo la sinistra
avversaria ad indietreggiare ma
subito dopo i ribelli effettuarono un vigoroso attacco
contro la sinistra italiana
minacciandola d'avvolgimento. Contemporaneamente altro
forze nemiche attaccavano alla destra
il 13° libico, la batteria dei volontari e i
bersaglieri contro di cui si
volgevano le bande di Tarhuna e di Misurata, mentre le
bande della Alsellata, della Gefara e
di Homs si gettavano sul convoglio, e lo
spingevano nel campo nemico.
Il tradimento delle bande scosse il
morale delle truppe italiane, le quali dopo un
combattimento confuso, quasi
sopraffatte, iniziarono il ripiegamento che avvenne in
un così gran disordine causando
rilevanti perdite: 18 ufficiali morti e 25 feriti, 252
uomini di truppa metropolitana morti
e 141 feriti, 234 indigeni morti e 296 feriti.
Dopo la giornata di Casr Bu-Hadi, la
situazione della occupazione italiana in
Tripolitania si fece critica e
pericolosa. Nella regione degli Orfella gli elementi che gli
italiani credevano fedeli si
schierarono contro di loro e il presidio di Beni Ulid rimase
isolato. Nel Misuratino il numero e
l'audacia dei ribelli aumentarono a dismisura: il 12
maggio una colonna italiana che da
Misurata città andava a Misurata marina fu
attaccata e costretta a rientrare in
città; il 23 il presidio di Taorga fu bloccato; le
comunicazioni con Misurata marina
furono riattivate solo dopo un aspro
combattimento, ma alla colonna Penco
non riuscì a sostenere il presidio di Taorga,
perché a Fonduk Gamel fu assalita da
forze di molto superiori e fu costretta a
rientrare a Misurata dopo aver
perduto 10 ufficiali e 109 uomini di truppa. Le truppe
che presidiavano Taorga agli ordini
del tenente colonnello TESI, uscite dal villaggio,
fuggirono verso il mare, quindi
protette dalle navi, riuscirono a riparare a Misurata
marina.
Anche nella zona di Tarhuna ben
presto scoppiò la ribellione e furono tagliate le
comunicazioni telegrafiche. A stento
e dopo accaniti combattimenti riuscì da Azizia il
tenente colonnello ROSSOTTI con una
colonna forte di 6 compagnie, 1 squadrone, un
battaglione eritreo ed una batteria,
riuscì ad arrivare a Tarhuna; ma dietro di lui le
comunicazioni furono nuovamente
chiuse dai ribelli, i quali, il 21 maggio, attaccarono
la colonna Monti che tentava di
riaprirle e la costrinsero a ritornarsene ad Azizia con
11 ufficiali e 150 uomini di truppa
di meno.
A riaprire le comunicazioni con
Tarhuna fu allora mandata da Homs, una forte
colonna agli ordini del colonnello
CASSINIS; ma questa, giunta a Kussabat, vi fu
bloccata dai ribelli e si dovette
alla colonna del maggiore Balocco se si riuscì a
ristabilire le comunicazioni tra
Kussubat ed Homs.
Il 17 giugno, il colonnello CASSINIS,
appreso che il presidio di Tarhuna avrebbe il
giorno dopo ripiegato su Tripoli per
Uadi Sart, mosse verso Tarhuna per dargli mano,
mentre da Azizia usciva per sostenere
il presidio medesimo una colonna agli ordini del
tenente colonnello MONTI, il quale
giunse combattendo quasi all'Uadi Megenin,
donde però dovette ripiegare alla sua
base per non essere sopraffatto dai ribelli che lo
fronteggiavano sempre più numerosi.
Il 18 il Cassinis, avendo udito un forte
cannoneggiamento, che s'andava
allontanando da Tarhuna verso Tripoli, credendo
che il presidio si fosse aperta la
strada e non avesse più bisogno d'aiuto, rientrò a
Kussabat.
Invece il presidio di Tarhuna,
composto di 1500 italiani e 700 indigeni, comandato dal
tenente colonnello ANTONELLI,
iniziato il ripiegamento il 18, non riuscì ad aprirsi la
strada, e attaccato a Suk-cl-Ahad da
forze superiori alle sue, si sbandò. Nel
combattimento fornirono mirabili
prove di valore la signora MARIA BRIGHENTI,
moglie del maggiore BRIGHENTI,
distaccato a Beni-Ulid, che cadde come una
condottiera mentre incitava i soldati
alla lotta. Quelli che non caddero sul campo, in
parte furono fatti prigionieri, in
parte riuscirono a raggiungere Azizia.
Il 23 giugno la colonna Cassinis
sgombrò Kussabat e combattendo ripiegò su Homs;
quindi si riunì al presidio di Sliten.
Il 28, parte di questa colonna, agli ordini del
tenente colonnello TORRE, mosse su
Beni Ulid per soccorrerne il presidio ma ad una
diecina di chilometri da Sliten si
scontrò con i ribelli e dopo una giornata intera di
combattimento, disperando di aprirsi
un varco ritornò a Sliten.
Anche da Misda sgombrò il presidio,
ripiegando, il 15 giugno, su Gharian; da
Sinanen, nel Gebel, il presidio uscì
il 10 e, attraverso il territorio Tunisino, riuscì a
ripiegare, il 24, su Nalut. Allo
stesso modo fu sgombrata Cabao e il presidio si ritirò a
Giosc.
Intanto il governatore TASSONI aveva
proposto al Ministero delle Colonie di
raccogliere tutte le truppe nei
presidii di Misurata Marina, Homs, Zuarà e Tripoli,
abbandonando tutte le altre località
e tenendosi sulla difensiva. Il Ministro delle Colonie avrebbe
voluto, che oltre la costa, fossero
tenute le località di Gharian e di
Jefren, ma, avendo il Tassoni
risposto che non era possibile con le scarse forze di cui
disponeva, autorizzò il 4 luglio, il
governatore a ritirare tutti i presidii dell'altipiano
verso la costa.
Il 6 luglio, il presidio di Jeffren
insieme con la colonna Nigra, giuntavi il giorno prima,
ripiegò ordinatamente su Zuara. Il
giorno stesso i presidii di Giosc (380 uomini del 6°
Fanteria) e di Fassato (840 uomini
del 37° fanteria), oltre a piccoli reparti di
carabinieri, fanteria montata,
artiglierie genio, sgombrarono le località da loro
occupate, dirette a Scek-Sciuk, dove
giunsero il 7.
L'8 mattina arrivarono a Bir Ganen,
ma, trovati i pozzi asciutti, proseguirono
disordinatamente la marcia, privi
della guida della maggior parte degli ufficiali,
tormentati dalla sete e dal caldo e
inseguiti dagli insorti. I superstiti di quella
disastrosa ritirata giunsero il 10
luglio a Zuara.
Il presidio di Gharian si ritirò in
ordine ad Azizia; quello di Ziutan, bloccato dal 3
luglio, dopo una settimana di dura
resistenza, tentò di aprirsi un varco, ma,
sopraffatto, fu fatto prigioniero. Il
presidio di Nalut, formato di due compagnie di
fanteria, una compagnia libica e tre
somale, tentò di ripiegare su Dehibat, in territorio
tunisino; assalito a poca distanza da
Nalut, una parte col comandante fu fatto
prigioniero dai ribelli, l'altra
parte, combattendo, proseguì per Dehibat, dove giunse il
10 luglio.
Sempre attraverso il territorio
tunisino riuscì a ripiegare verso la costa il presidio di
Ghadames.
Dei presidii della zona orientale
quello di Sliten fu trasportato per mare parte a Homs
e parte a Tripoli; quello di Misurata
ripiegò su Misurata marina, che più tardi fu
anch'essa sgombrata; quello di Beni
Ulid, comandato dal maggiore BRIGHENTI,
dietro consiglio del comando di
Tripoli, il 5 luglio, concluse a buoni patti la resa, che
avvenne il 7, dopo un inutile e
sanguinoso tentativo degli ascari libici di aprirsi il passo
con le armi.
Anche nella zona di Tripoli e di
Zuara non tardò ad effettuarsi il ripiegamento dei
presidii: quello di Fonduck Ben
Gascir riparò a Suani Ben Aden; quello di Azizia il 16
luglio ripiegò su Bir Miami e,
raccolte le truppe che occupavano questa località,
proseguì per Suani Ben Aden, donde il
17 le truppe qui riunite marciarono verso
Gargaresc. Lo stesso giorno 17 il
presidio di Zaira si ritirò a Zanzur e quelli del
territorio di Zuara ripiegarono su
Zuara città che fu sgombrata il 24 luglio.
Così ai primi di Agosto del 1915 di
tutta la Tripolitania e del Fezzan non rimanevano
all'Italia che le città di Tripoli
(compresa l'oasi) e di Homs.
L'ultima fase del ripiegamento dei
presidi fu effettuata dal nuovo governatore della
Libia il generale GIOVANNI AMEGLIO,
giunto a Tripoli il 17 luglio per sostituirvi il
generale TASSONI, richiamato in
Italia.
L'Ameglio era uomo da risollevare le
sorti della colonia se gli fossero state concesse un
buon contingente di truppe; ma gli
furono perfino negati 10.000 uomini da lui richiesti
e poche mitragliatrici, e alle
insistenze sue e del Governo, CADORNA si rifiutò di
mandare in Libia soldati ed armi,
affermando che "…la guerra si vinceva sulle Alpi e
non nei deserti dell'Africa";
cosicché all'Ameglio non rimase altro da fare che
affrettare il ripiegamento e
provvedere alla difesa dei punti della costa rimasti ancora
in possesso dell'Italia. Anche in
Cirenaica ci fu un ripiegamento di presidi, ma in misura infinitamente
minore di quella adottata per la
Tripolitania. Infatti, eccezione fatta per la zona di
Agedabia-Zuetina e per Omm-es-Rzem ed
El-Mdamar, gli italiani rimasero in tutti gli
altri punti della costa e all'interno
sgombrando solo quei presidii che distavano dalla
costa 50 o 100 chilometri, come
quelli di E-1-Cuba, Slonta, Marana, Bu-Gassal,
Tecnis, El-Abiar, Omm-Scicaneh ed
Es-Scleidima, più esposti degli altri alle offese dei
ribelli e meno degli altri in
condizione di esser sostenuti dalle scarse forze del comando
di Bengasi.
INTRIGHI DELLA TURCHIA IN LIBIA IL
TRATTATO DI LOSANNA VIOLATO
DAI TURCHI. L'ULTIMATUM DEL GOVERNO
ITALIANO ALLA TURCHIA.
LA NOTA ITALIANA ALLE POTENZE E LA
DICHIARAZIONE DI GUERRA .
PROCLAMA DEL GENERALE AMEGLIO ALLA
POPOLAZIONE LIBICA.
Secondo l'opinione pubblica italiana
la principale causa della nostra situazione in
Libia era da ricercarsi nel contegno
sleale della Turchia che non aveva mai eseguiti i
patti del trattato di Losanna. I
giornali italiani parlavano di frequenti sbarchi
clandestini sulla costa libica, di
ufficiali agenti ed emissari ottomani, che incitavano le
popolazioni alla ribellione e
facevano nella colonia attivissima propaganda senussita
ed antitaliana; annunziavano che
intenso era il contrabbando esercitato sulle coste
della Cirenaica, specie tra Solum e
Tobruk, da velieri turchi, che sbarcavano armi e
munizioni per i ribelli, ufficiali
turchi e anche tedeschi, divulgavano notizia di
un'adunata a Costantinopoli di
Giovani Turchi alla quale aveva partecipato il
segretario del Naib Ul Sultan
dall'Italia riconosciuto, e si era deciso di lanciare alla
popolazione libica un
manifesto-lettera del Senusso, incitante alla rivolta; facevano
sapere della cattura da parte di una
torpediniera francese di un veliero greco che
recava una missione turca per il
Senusso con regali, decorazioni, armi, manifesti
antitaliani e 150.000 franchi di oro;
e infine affermavano che la guerra santa
proclamata dal Califfo contro la
Francia, l'Inghilterra e la Russia e non contro l'Italia,
era stata comunicata anche al Senusso
e ai capi delle tribù dell'interno della Cirenaica
e della Tripolitania.
"La Turchia - scriveva sul Corriere
della Sera del 26 luglio l'on. Torre - ha cercato
sempre di dissimulare e mentire il
suo atteggiamento nemico all'Italia. Ai primi di
maggio essa faceva dichiarare
dall'ambasciata a Roma che le notizie riferite da alcuni
giornali intorno alla presenza di
ufficiali turchi in Libia erano assolutamente prive di
fondamento .... La verità, viceversa
era un'altra. Enver pascià aveva fin dal marzo
inviato suo fratello Nury bey in
Cirenaica. Era stato sbarcato da un battello greco
insieme con un ufficiale portando con
sé 8000 lire turche. Lo stesso battello greco ed
altri, pure greci, avevano sbarcato
farina, riso e olio spediti per ordine di
Costantinopoli. Al campo ribelle di
Casr Bu-Hadi si trovavano, intanto, ai primi di
maggio vari ufficiali arabo-turchi,
di cui il governo della Libia conosce i nomi, e 3
ufficiali turchi oltre ad alcuni
ascari siriani, adibiti forse quali istruttori dei ribelli. In
altre località era stata notata anche
la presenza di ufficiali turchi. Verso la fine di
maggio il solito battello greco
approdava a Mraisa sbarcando altri 2 ufficiali turchi,
latori di 7000 lire turche, e casse
di cartucce per fucili Gross e Mauser. A Solum, al
campo di Sidi Ahured-Scerif, fratello
del Senusso, vi erano, alla fine di maggio 3
ufficiali turchi e inoltre fucili,
munizioni e uniformi provenienti dalla Turchia. Ai
primi di giugno una nostra nave
catturava nelle acque di Marsa-Gabes 5 ribelli tra i
quali si trovava Hamed ben Omar già
ufficiale turco, che col grado di maggiore era al
servizio del Senusso. Nel corso del
giugno furono sequestrate dal nostro Governo
alcune corrispondenze, dalle quali
risultò chiaramente che Nuri Bey, il fratello di
ENVER pascià, manteneva dalla Libia
corrispondenza con Costantinopoli e relazioni
con il consolato tedesco di Bengasi;
e risultò che, fin dalla fine del 1914, il famoso EL
BARUNI, senatore ottomano, insieme
con il noto ribelle e agitatore SCEK SOF,
incitava i notabili della
Tripolitania alla rivolta per incarico del Governo turco. Un
veliero greco, che fu catturato alla
fine di giugno, trasportava una missione turca composta
di 2 ufficiali e 7 soldati
inviati da Enver pascià con regali al Senusso. NURI
BEY continuava l'opera sua in Libia.
La Turchia continuava i suoi aiuti e i suoi
incitamenti; inviava cannoni,
munizioni e danari. Il Senusso aveva potuto raccogliere
nel suo campo 40 ufficiali e 47
sottufficiali turchi, e Nuri Bey aveva assunto il
comando in capo dell'accampamento
senussita dell'Amscat. Anche nel Gharian vi era
il capitano BEN TANTUSCH con altri 7
ufficiali turchi. Le corrispondenze scoperte
hanno rivelato che il piano d'azione
per la Tripolitania era stato preparato a
Costantinopoli: nomi e fatti sono
ormai noti. Come è noto che il Senusso ha pagato
gran parte dei debiti suoi a Solum
con moneta turca. Il Senusso anzi avrebbe
dichiarato che Nuri Bey gli portò
tanto oro quanto può bastare per sei anni ai bisogni
della Tripolitania e della Cirenaica.
Non vogliamo insistere nei particolari; quelli che
abbiamo citato sono sufficienti a
fornire la prova della volontà dell'opera della
Turchia a danno dell'Italia .... Il
trattato di Losanna è stato lacerato dai Turchi; a loro
quindi la responsabilità degli
eventi".
"A queste notizie riguardanti
l'azione ottomana in Libia altre se ne aggiungevano, le
quali mostravano chiaramente il
contegno della Turchia ostile all'Italia. Si affermava
che le autorità ottomane
commettessero infinite sopraffazioni contro gli italiani
residenti in territorio turco.
All'agente consolare italiano ad Alessandretta, che doveva
recarsi in Italia con altri suoi
colleghi, era stato impedito d'imbarcarsi. Era stato fatto
divieto agli Italiani della colonia
di Smirne che volevano rimpatriare d'imbarcarsi in
quel porto ed era stato loro concesso
di partire da Vurla, porto distante 50 chilometri
da Smirne, non unito da strade. Si
noti che da Smirne dovevano, fra gli altri, partire
880 riservisti. Anche ai religiosi,
numerosissimi specialmente in Palestina, si impediva
di far ritorno in patria. A un
cittadino italiano residente a Costantinopoli era stato
requisito e non pagato il
rimorchiatore Tondello, che dalle autorità ottomane era stato
adibito ad usi militari con a poppa
la bandiera italiana. La stampa turca vomitava
quotidianamente ingiurie contro gli
Italiani, che, a quanto si diceva, dovevano esser
mandati nei campi di concentramento
di Orfa in Armenia. Conflitti gravissimi erano
avvenuti a Vurla, dove donne e
fanciulli italiani erano stati uccisi e feriti in buon
numero. Anche da Mersina si era
proibito che gl'Italiani partissero".
Tutte queste notizie, divulgate dai
giornali italiani, mettevano in agitazione il paese, e
il 30 luglio finalmente il Consiglio
dei Ministri ritenne necessario di occuparsi
dell'atteggiamento della Turchia
verso l'Italia. L'ufficioso "Giornale d'Italia",
diffondendone la notizia, così
concludeva:
"Ciò che avvenne in Tripolitania è in
molta parte l'effetto della propaganda turcotedesca
e della sleale condotta del Governo
turco, il quale contravvenne agli obblighi
del trattato di Losanna. Della stessa
slealtà fornisce prova la Turchia quando i suoi
funzionari oppongono le più grandi
difficoltà alla partenza dei nostri connazionali da
porti dell'Asia Minore.
Su quest'argomento e sulle energiche
rimostranze fatte a Costantinopoli dal nostro
ambasciatore marchese GARRONI ha
intrattenuto i colleghi il ministro degli Esteri
on. SONNINO. Nulla si sa circa quanto
il Consiglio ha deliberato in proposito; ma è
opinione generalmente diffusa che i
nostri rapporti con la Turchia saranno ben presto
chiariti".
L'atteggiamento risoluto del Governo
italiano fece sì che la Porta togliesse il divieto
d'imbarco. Piroscafi americani ed
italiani si recarono a Smirne ed in altri porti asiatici
per imbarcare gl'Italiani che in
numero di parecchie migliaia aspettavano di poter
partire, ma quando pareva che
finalmente per i nostri connazionali fosse giunto il
momento di lasciare le inospitali
contrade, ecco il Governo ottomano mettere
nuovamente il divieto, e per giunta,
imporre agli Italiani il "temettù", una specie
d'imposta sulla ricchezza mobile da
cui gli stranieri erano esenti, e proibire per le
comunicazioni telegrafiche
l'uso della lingua italiana insieme a quello delle lingue
francese, inglese e russa.
L'indignazione suscitata in Italia da
queste notizie fu grande e la stampa iniziò una
vivace campagna per spingere il
governo a adottare provvedimenti decisivi. Il 20
agosto il consiglio dei Ministri
tenne due sedute e in entrambe si occupò dei rapporti
italo-turchi. La sera del 21 agosto
fu diramata la seguente comunicazione ufficiale:
"Il Governo ha diretto alle Regio
rappresentanze all'estero una circolare nella quale
espone tutte le vertenze fra l'Italia
e la Turchia e che così conclude: "Di fronte a
quest'infrazioni patenti a promesse
categoriche fatto dal Governo ottomano in seguito
al nostro ultimatum, il Regio Governo
ha spedito ordine al Regio ambasciatore a
Costantinopoli di presentare
dichiarazione di guerra alla Turchia".
Il testo della circolare telegrafica
italiana era questo:
"Fin dal primo momento della firma
del trattato di pace di Losanna (18 ottobre 1912)
il Governo ottomano ebbe a violare il
trattato stesso. Tali violazioni hanno continuato
senza tregua sino ad ora. Il Governo
imperiale non adottò mai seriamente misura
alcuna perché si arrivasse in Libia
alla cessazione immediatamente delle ostilità
secondo gliene facevano obbligo i
suoi patti solenni; nulla fece il Governo stesso per la
liberazione dei prigionieri di guerra
italiani. I militari ottomani rimasti in Tripolitania
e Cirenaica furono mantenuti sotto il
comando degli stessi ufficiali, continuando ad
usare la bandiera ottomana,
conservando i loro fucili e i loro cannoni. Enver bey
diresse in Libia le ostilità contro
l'esercito italiano sino alla fine del novembre 1912.
Aziz bey lasciò quella regione con
800 soldati di truppa regolare soltanto nel giugno
1913. Il trattamento che l'uno e
l'altro ricevettero rientrando in Turchia prova
l'evidenza che i loro atti ebbero il
pieno assenso delle autorità imperiali. Dopo la
partenza di Aziz bey continuarono ad
arrivare in Cirenaica ufficiali dell'esercito
turco; ve ne sono ora oltre un
centinaio, dei quali il R. Governo conosce i nomi.
Nell'aprile di quest'anno 35 giovani
bengasini che Enver pascià aveva condotto nel
dicembre del 1929, contro il nostro
volere, a Costantinopoli, dove furono ammessi a
quella Scuola militare, furono
rinviati in Cirenaica a nostra insaputa, nonostante
contrarie dichiarazioni. Risulta con
certezza che la Guerra Santa del 1914 fu
proclamata anche contro gli italiani
in Africa. Una missione di ufficiali e di soldati
turchi incaricati di portar doni ai
capi senussiti in rivolta contro le autorità italiane in
Libia, fu recentemente catturata da
forze navali francesi. Le relazioni di pace e di
amicizia, ché il R. Governo aveva
creduto stabilire dopo il trattato di Losanna con il
Governo turco, non esistono, per
colpa di quest'ultimo, tra i due paesi.
Poiché fu costatato essere
perfettamente inutile ogni reclamo diplomatico contro le
violazioni del trattato, al R.
Governo non restava che provvedere altrimenti alla
salvaguardia degli alti interessi
dello Stato ed alla difesa delle suo Colonie contro le
minacce persistenti e contro gli
effettivi atti di ostilità da parte del Governo ottomano.
Una decisione in questo senso si è
resa tanto più necessaria ed urgente in quanto il
Governo ottomano ha commesso in tempi
recentissimi patenti violazioni ai diritti, agli
interessi ed alla stessa libertà di
cittadini italiani nell'impero, senza che siano valsi i
richiami più energici presentati a
tale proposito dal R. ambasciatore a Costantinopoli.
Di fronte alle tergiversazioni del
Governo ottomano, per quanto riguardava in specie
la libera uscita dei cittadini
italiani dell'Asia Minore, questi richiami dovettero
assumere negli ultimi giorni la forma
di "ultimatum". Il 3 agosto il R. Ambasciatore a
Costantinopoli, per ordine del
Governo di S. M., diresse al Gran Visir una nota
contenente le quattro domando
seguenti:
1° che gl'Italiani potessero
liberamente partire da Beyrut; 2° che gl'Italiani di Smirne
essendo impraticabile il porto
di Vurla, fossero lasciati
partire per la via di Sigazig;
3° che il Governo ottomano lasciasse
imbarcare liberamente gl'italiani da Mersina,
Alessandretta, Caiffa, Giaffa;
4° che le autorità locali
dell'interno desistessero dall'opposizione alla partenza dei regi
sudditi che si dirigono al litorale e
procurassero invece di facilitare loro il viaggio.
Il 5 agosto, prima che scadesse il
termine di 48 ore posto dall'ultimatum italiano, il
Governo ottomano, con nota a firma
del Gran Visir, accoglieva punto per punto le
nostre domande. In seguito a tale
solenne dichiarazione, il R. Governo provvide a
spedire due navi a Rodi con
istruzioni di attendere ordini per andare ad imbarcare i
cittadini italiani che da tempo erano
rimasti in attesa di rimpatrio nei predetti porti
dell'Asia Minore. Ora - da notizie
pervenuto dalle autorità consolari americane, cui è
stata affidata in varie residenze la
tutela degli interessi italiani - è risultato invece che
a Beirut l'autorità militare revocò
il 9 corrente il permesso di partenza accordato poco
innanzi; ed eguale revoca avvenne a
Mersina. Fu dichiarato altresì che le autorità
militari avrebbero fatto impedimento
all'imbarco degli altri nostri connazionali nella
Siria. Di fronte a queste infrazioni
patenti alle promesse categoriche fatte dal Governo
ottomano in seguito al nostro
"ultimatum", il R. Governo ha spedito ordini al R.
ambasciatore a Costantinopoli di
presentare la dichiarazione di guerra".
La protezione dei sudditi ottomani in
Italia fu assunta dalla Spagna, quella dei
cittadini italiani in Turchia dagli
Stati Uniti. La sera del 21 furono consegnati i
passaporti all'ambasciatore turco a
Roma, NABY BEY, che il 22 fece visita di congedo
al barone SONNINO e il 23 partì, via
Svizzera, alla volta di Berlino. Il giorno dopo
della dichiarazione di guerra alla
Turchia, il Re firmava un decreto con cui veniva
proclamata la libertà religiosa in
Libia e abolito il Naib es-Sultan, decreto di cui
riferiamo gli articoli:
Art. 1° - All'art. 2° del del R.
decreto del 17 ottobre 1912 n. 1088 è sostituito al
seguente art.2°: Gli abitanti della
Tripolitania e Cirenaica continueranno a godere
come per il passato la più completa
libertà nelle pratiche del culto ottomano. I diritti
delle fondazioni pie (vakuf) saranno
rispettati come per il passato e nessun
impedimento sarà portato alle
relazioni dei mussulmani con i loro capi religiosi.
Art. 2°. - L'art. 3° del R. decreto
suddetto è abrogato.
Art. 3° - Il presente decreto entrerà
immediatamente in vigore".
Della nuova guerra dell'Italia alla
Turchia diede notizia il generale AMEGLIO alle
popolazioni della Libia con il
seguente proclama:
"Voi sapete della pace che il Governo
del nostro Gran Re Vittorio Emanuele III, che
Iddio glorifichi sempre più, fece con
quell'ottomano a Losanna. Dopo quello si
riteneva che ogni buon accordo
dovesse ristabilirsi fra l'Italia e la Turchia, rimanendo
ognuno fedele ai patti stabiliti. Ma
non fu cosi, perché il Governo ottomano ha
ripetutamente violato il trattato con
tutti i mezzi più sleali e indegni di una nazione
che si vanti di essere civile. Ha
costantemente ingannato la buona fede del Governo
Italiano, inviando clandestinamente
ai ribelli armi e munizioni ed ufficiali e graduati
del suo esercito, nonché emissari
propagandisti di ogni odio contro di noi. Ha
tergiversato tutte le volte che il
Governo del nostro generoso Sovrano che Iddio
protegga, volle fare rimostranze. Ha
ostacolato con tutte le male arti possibili la
penetrazione in queste terre, con la
quale speravamo di portare anche voi in brevi
anni a quel progresso della vita
civile che in passato vi fu sempre negato".
"Voi tutti avete potuto costatare
quanto sia sincero e paterno l'interessamento che il
Governo porta al bene dei popoli di
Libia con la prova che esso oggi vi dà, non
esitando a studiare ed introdurre
riforme che, meglio e più di quelle sperimentate in
passato rispondano alle vostre
tradizioni ed alle vostre tendenze.
Il Governo ottomano, non contento di
seminare il male in questo terre, ha creduto di
poter perseguitare gli stessi
italiani che si trovano nel suo territorio fino ad opporsi al
rimpatrio da loro desiderato per le
prepotenze e soprusi cui vanno colà soggetti. Un
cumulo di menzogne fu la risposta che
il Governo ottomano ha dato anche questa
volta alle ultime rimostranze di
quello italiano.
Stanco di quest'indegna condotta del
Governo ottomano, il nostro potentissimo Re,
che Iddio illumini sempre come ora,
ha dichiarato la guerra alla Turchia. Abitanti,
della Libia, agli uomini d'onore,
agli uomini di mente e a quanti amano con sincerità
questa terra ed il suo popolo, va la
mia parola paterna di concordia nel momento in
cui l'Italia con fede della vittoria
scende nuovamente in campo contro la Turchia per il
rispetto ai trattati e alla causa
della giustizia".
Purtroppo nel Mediterraneo per
l'Italia non c'era solo questo problema, che fu risolto
dichiarando guerra alla Turchia, ma
ne sorgevano altri più gravi di problemi, perché
erano iniziati veri e propri attacchi
di sommergibili tedeschi che colpivano diverse
navi italiane.
Tuttavia l'entrata in guerra contro
la Germania fu rimandata fino all'agosto del 1916.
FEZZAN
Fezzan Regione storica della Libia
sudoccidentale, confinante con Algeria e Ciad.
Comprende una parte del deserto del
Sahara ed è caratterizzata dai rilievi dell'Haruj el
Aswad, quelli dei Tibesti e dei
Tassili-n-Ajjer. Scarsamente abitata, le oasi principali sono
Murzuch, Edri, Sebha, Brach. Poco
sviluppata l'attività agricola e la pastorizia nomade,
mentre il territorio è molto ricco di
petrolio. Popolata già nella preistoria venne
conquistata e cristianizzata da Roma
nel 19 a. C., prima di passare sotto la dominazione
araba (VIII sec.). Il controllo turco
si concluse con la conquista italiana della Libia nel
1912, prima di ottenere
l'indipendenza definitiva nel 1951 ed essere integrata nel nuovo
stato.
Autore Zoli Corrado
Paese d'origine Italia
Titolo comlpeto Nel Fezzan Note e
impressioni di viaggio
Titolo originale
Traduttore
Introduzione Dell'autore
Editore Alfieri & Lacroix
Anno ediz. 1926 N° Volumi: 1
Luogo Milano
Carte Geograf.
Collana
N° Collana
Illustrazioni Foto in bianco/nero
Soggetto
Ambiente
Paese Africa, Libia, Fezzan
Note A cura del Ministero delle
Colonie e del governo della Tripolitania
Regione del Sahara libico, occupata
temporaneamente nel 1913-15 dalla Colonna Miani al
cui seguito furono anche istituiti
uffici postali civili (Sebha, Murzuch, Sokna, Brak), e poi rioccupata
stabilmente fra il dicembre 1929 e il
febbraio 1930 e da allora mantenuta
sempre sotto regime coloniale, retta
da un Comando militare e divisa in sottozone.
Occupata nel gennaio 1943 dalle
truppe francesi, che nel maggio successivo misero in
corso negli uffici postali di Braq,
Ghadames, Murzuq, Sebha e Ubari i francobolli italiani e
libici variamente soprastampati,
soprattutto in funzione politico-propagandistica.
Mantenuto sempre sotto controllo
militare, dall'aprile 1944 vi furono usate le carte valori
dell'Algeria francese, sostituite
nell'ottobre 1946 da speciali francobolli, con valori
appositi per Ghadames dal 12 aprile
1949. Il 24 dicembre 1951 fu riunito al nuovo Regno
libico, anche se vi si dovette
introdurre una serie apposita in franchi a causa della moneta
tuttora circolante.
CONCLUSIONE
Il 2 settembre 2014 ricorreranno i
100 anni dalla morte del Tenente Francesco
Brunacci.
Spero di poter ricordare Francesco
nel 2014 con un articolo e con le sue foto scattate in
Libia.
Spero di riuscire a trovare le prove
del tradimento, per causa del quale il tenente
Francesco Brunacci fu ucciso insieme
al tenente Alfredo De Virgiliis, ai tre soldati
bianchi ed ai nove ascari indigeni e
per causa del quale qualcuno sicuramente si arricchì!
Spero di riuscire a trovare i nomi di
questi tre soldati bianchi e dei nove ascari indigeni.
Ciò che ancor più dispiace è che
nessun storico, neanche lo storico Angelo Del Boca dal
sottoscritto contattato, abbiano mai
conosciuto questo triste episodio
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